Gli oratori parrocchiali ed il calcio. Due articoli di Demetrio Albertini e Massimiliano Castellani
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Il Centro culturale Gli scritti (18/9/2011)
1/ La mia più bella partita? In oratorio, due giorni dopo la finale mondiale del ’94, di Demetrio Albertini
L’esperienza dell’oratorio posso ben dire che fa parte del mio Dna di uomo, ancor prima di quello di calciatore professionista e della Nazionale e poi di vicepresidente della Federcalcio. Essendo nato e cresciuto in un paese di milleduecento abitanti, Villa Raverio (a trentacinque chilometri da Milano), non ho mai sofferto la carenza di spazi verdi dove giocare a calcio, ma una volta aperta la porta dell’oratorio per me non si è più richiusa.
Un passaggio veloce dall’asilo al campetto, dove per la prima volta mi ha portato mio fratello Alessio che poi è entrato in seminario e anche da “don” ha continuato ad organizzare tornei nel suo oratorio con fantastiche sfide tra “preti contro parenti”. Questo è il clima del calcio in oratorio, in cui la sensazione per i ragazzi, di ieri e di oggi, è quella di entrare in un luogo caldo e accogliente. E lo stesso percepiscono i genitori che hanno la sicurezza di mandare a giocare i propri figli in un ambiente sano e protetto.
Il calcio in oratorio rispecchia i valori dello sport di strada. Lì ho scoperto il senso innato della competitività, ma soprattutto ho appreso lo spirito del confronto e della condivisione con i compagni, sotto l’indirizzo dell’educazione cristiana: ieri quella di don Costante, oggi quella impartita da don Antonio. Ciò che conta è il giocare insieme, senza l’obbligo assillante del risultato o il dover compiacere a tutti i costi il “mister”.
Il primo allenatore che ho avuto all’oratorio è stato mio padre Cesare, che durante la settimana era impegnato con il lavoro e si rendeva disponibile solo per la partita della domenica. Con gli altri genitori stabilivano i turni di allenamento e durante la gara l’ingresso e l’uscita dal campo di noi ragazzi. Un vero centro sociale, in cui tutti comprendevano l’importanza del volontariato, mirato al divertimento dei ragazzi e alla tranquillità delle loro famiglie.
Questo scenario credo fosse diffuso in tutta Italia fino alla fine degli anni Ottanta, quando a un certo punto è avvenuta la “fuga” dagli oratori. La responsabilità di quella fuga in parte dipende anche da molte delle stesse strutture oratoriali che non si sono adeguate ai tempi. Non hanno investito in nuovi impianti e spesso i parroci non hanno compreso il mutamento dei desideri dei ragazzi delle nuove generazioni e le aspettative dei loro genitori che erano sempre più proiettate verso la metropoli. La realizzazione del grande sogno attraverso il calcio, nei nostri paesi dell’hinterland, sembrava passare solo ed esclusivamente per Milano.
Un’idea forse non del tutto reale, anche a giudicare dal rinnovato attivismo degli oratori di città che seguono la falsariga di quelli di paese che hanno resistito anche in tempi di crisi. Oggi quando torno al mio oratorio di Villa Raverio vedo una struttura rimodernata con un bel palazzetto, ma soprattutto ritrovo i miei coetanei che nel frattempo sono diventati genitori e svolgono le medesime attività che un tempo facevano i nostri papà.
L’importanza di continuare a rendere vivo l’oratorio per far crescere i ragazzi in un contesto valoriale come quello dello sport, è dunque una tradizione solida e che continua ad essere ereditata con successo.
Del resto delle tante gare significative che ho disputato in carriera, quella che ricordo con più affetto è una sfida giocata appena dopo aver perso (ai rigori) con il Brasile la finale di Pasadena, Mondiali Usa del ’94. La mia “seconda finale” la giocai a distanza di quarantott’ore nel mio oratorio, sfida tra “quelli del ’71” e il “resto di Villa Raverio”. C’era tutto il paese, in quello che era. e rimane, il posto migliore dove far festa e accettare serenamente anche le piccole grandi sconfitte di tutti i giorni.
2/ Rivera, Bonimba, Tardelli, Toldo... Tutti i campioni dell’Oratorio, di Massimiliano Castellani
«Sembra quand’ero all’oratorio, con tanto sole, tanti anni fa. Quelle domeniche da solo in un cortile, a passeggiar...», cantava un nostalgico Adriano Celentano in un pomeriggio troppo azzurro e lungo, senza neppure un prete a cui confidare i suoi piccoli dolori giovanili, ma soprattutto senza un amico con il quale tirare quattro calci ad un pallone, lì nel campetto polveroso dell’oratorio dei ragazzi della via Gluck.
Ma, in coro, da allora gli sono andati dietro intere generazioni che, pallone ai piedi, nel campetto parrocchiale hanno trascorso i pomeriggi meravigliosamente più lunghi dell’adolescenza. È storicamente provato che il calcio italiano è figlio della tradizione oratoriale. Non c’è oratorio d’Italia (attualmente sono circa seimila, la metà in Lombardia) in cui, almeno fino agli anni ’90, non abbia mosso i primi passi un campione.
Poi un decennio di buco, specie negli oratori di città, svuotati dalla grande corsa ai campi organizzati e dal dazio delle rette mensili da versare alle illusorie scuole-calcio. Ma la resistenza di curati e del grande esercito del volontariato, in provincia come nella metropoli, ha fatto in modo che anche nei momenti più bui il campo dell’oratorio non diventasse un deserto accanto alla cattedrale.
Così, ieri come oggi, lì c’è sempre un campionato in corso, non ostaggio dei milioni di euro che rimbalzano oltraggiosi e prepotenti sulle zolle sintetiche del professionismo, ma che è frutto della voglia di crescere insieme, giocando. Tornei in parrocchie di periferia, in cui il pallone non sciopera mai, vengono tenuti in piedi dall’eterna passione dei ragazzi, ma prima di tutto da qualche tonaca illuminata da “Eupalla” che ha messo in campo l’insegnamento del santo moderno dello sport, don Giovanni Bosco che ammoniva: «Amate ciò che i giovani amano».
A Ferrara lo sapeva bene don Pastorino, il catechista del seminario di via Coperta, quando nel 1907 ampliò la filodrammatica – costituita da operai – Ars et labor, ideata da don Acerbis, nella Società polisportiva». Da quella fusione originò la Spal, la poetica squadra ferrarese amata da Giorgio Bassani che scende in campo con le maglie biancoazzurre, in omaggio ai colori dei salesiani. Con quelle divise la Spal arrivò fino alla serie A, mettendosi in mostra negli anni ’60.
Il decennio in cui esplose la stella di Gianni Rivera. Il “ Golden boy ”, l’“Abatino” di Gianni Brera, per via di quelle origini oratoriali. «Ho cominciato a giocare all’oratorio salesiano di Alessandria. Prima di Nereo Rocco ho avuto tre padri calcistici, don Piero, don Filippini e don Cerchia», racconta l’ex Pallone d’oro (1969) e attuale presidente della Federcalcio-Settore giovanile e scolastico. Tre parroci attenti a far crescere il giovane Rivera e i suoi compagni, in un ambiente «sano e protetto».
Lo stesso habitat in cui, a Mantova, è maturato il suo compagno di nazionale, Roberto Boninsegna detto “Bonimba”. «I miei primi derby non li ho mica giocati a Milano o a Torino, ma sul campo dell’Anconetta, in riva al Lago di Sotto. Erano le sfide tra il mio Sant’Egidio e gli Aquilotti». Dal Sant’Egidio Boninsegna arrivò all’Inter, mentre la maggior parte dei suoi compagni finirono direttamente nel Mantova, che con Edmondo Fabbri dalla quarta serie approdò alla serie A, diventando il “piccolo Brasile”.
Piccoli miracoli del calcio d’oratorio che a volte conducono persino alla conquista di un Mondiale. Quello di Spagna ’82. Trionfo azzurro eternato nell’urlo postmunchiano di Marco Tardelli dopo il gol in finale alla Germania. «Ho cominciato da bambino, a Pisa, con le partitelle a sette, al campetto di santa Caterina e san Francesco. Mi chiamavano “fil di ferro” per quanto ero magro. Il momento più bello in quegli anni fu quando all’oratorio Lanteri costruimmo il campo di calcio insieme al parroco, padre Bianchi. Stavamo lì dalla mattina alla sera e quando andavi a casa erano sberle, perché invece di studiare eri stato tutto il giorno a giocare a pallone. Adesso invece i genitori ti prendono a sberle se non giochi e diventi un campione ricco e affermato…». Segno dei tempi.
Ma tra le pagine scure dell’invasato calcio-business, ancora qualcosa di buono rimane. «Ai ragazzi di Inter Campus dico sempre di prendere il calcio e lo sport come un gioco, senza pensare al guadagno, al successo a tutti i costi e tanto meno a diventare un personaggio famoso», dice l’ex portierone Francesco Toldo, partito attaccante “alla Gigi Riva” con l’Unione sportiva Maria Ausiliatrice, l’oratorio di Caselle di Verrazzano (Padova) e finito a difendere i pali della nazionale. Toldo, l’eroe degli Europei del 2000 che aveva come compagno di squadra Demetrio Albertini (ora vicepresidente della Federcalcio), ennesimo esempio di campione nato e cresciuto in oratorio.
Sul campetto di Villa Raverio, hinterland milanese, il geometrico Albertini ha “debuttato” insieme al fratello Alessio, sotto la guida di papà Cesare. Poi a dieci anni Demetrio passa al Seregno, mentre Alessio a quattordici entra in seminario, ma non rinuncerà mai a convocare il fratello per sfide memorabili in quel rettangolo di gioco a due passi dalla chiesa.
Lo stesso in cui si muovono centinaia di squadre ogni giorno, sotto l’occhio attento di un allenatore ideale che spesso è anche un “don”, come Andrea Bonsignori. Da anni il suo oratorio accoglie i ragazzi del gran bazar torinese di Porta Palazzo e nella GiuCo 97, la squadra della scuola del Cottolengo che don Andrea dirige, giocano proprio tutti. «Forse siamo una delle poche formazioni in Italia composta da ragazzi disabili e normodotati. E questa è una delle tante possibilità che offre ancora il calcio oratoriale», dice orgoglioso don Andrea.
Solo il calcio d’oratorio riesce ad abbattere ogni tipo di barriera e ad essere la massima espressione democratica. La conferma viene da un’altra formazione speciale, quella del Duomo Chieri del “mister” Dario Biasiolo. Nel club dell’oratorio torinese del Centro sportivo italiano, Biasiolo ha eliminato la figura discriminante del “panchinaro”: nell’arco della partita, tutti i suoi ragazzi giocano lo stesso minutaggio. «Così facendo, in soli due anni i nostri tesserati sono passati da venti a centosessanta. E i genitori ci dicono entusiasti che i loro figli sono cambiati e che con questo metodo hanno acquisito una maggiore sicurezza che ha dei riflessi positivi anche sul rendimento scolastico».
Il calcio come scuola di vita? Possibile, specie al Sud, dove le strutture oratoriali da sempre sono più carenti, mentre cresce incessante il disagio giovanile. Ma il vento della rinascita spira forte perfino nel messico napoletano di San Giovanni a Teduccio. Nel campo della parrocchia di Maria Immacolata Assunta in Cielo, la giovane laica consacrata Carmela Manco è riuscita a strappare via dalla strada gli scugnizzi, figli di appartenenti a bande camorristiche in lotta tra di loro, e a far nascere la squadra della Mangrovia.
«Ciro e Peppe – dice commossa Carmela – ora giocano insieme e sono inseparabili, nonostante uno sia il figlio del boss che ha ucciso il papà dell’altro…». Ennesimo piccolo miracolo del calcio povero, di strada, che nell’oratorio trova ancora la sua casa.
Del resto Borges ce l’aveva detto: «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio».