Antonia Arslan: cronaca di una rinascita, di Paolo Pegoraro
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Riprendiamo dall’agenzia di stampa Zenit un articolo pubblicato il 13/9/2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2011)
Gli esseri umani costruiscono piramidi, volano più in alto degli uccelli e si immergono più a fondo di qualsiasi pesce. Gli esseri umani possono attraversare i continenti, neanche avessero gli stivali delle sette leghe, o parlarsi annullando distanze enormi. Gli esseri umani inventano storie, numeri e poesie: saturano l’aria di onde elettriche, colmano la terra di leggi e il cielo di miti. Gli esseri umani tagliano foreste e prosciugano laghi. Sbarrano i fiumi e solcano i mari.
Eppure a fermarli basta poco più che un granello di sabbia. Basta una vena occlusa da un minuscolo sasso – meno di un centimetro di superficie – e tutto finisce. Qualcosa di incalcolabilmente piccolo. Una probabilità imprevedibile. Gli esseri umani, enormi e fragilissimi: che esseri strani...
È così che dovremmo pensarci, se avessimo una percezione realistica di ciò che siamo. A ricordarcelo, talvolta, deve intervenire una battuta d’arresto, un intoppo minuscolo e fatale. Come quello incorso alla scrittrice di origini armene Antonia Arslan, autrice del bestseller La masseria delle allodole, che la notte fra il 12 e il 13 aprile 2009 viene ricoverata al reparto di Rianimazione per uno shock settico da calcolosi renale. I medici la inducono al coma farmacologico. Calano buio e silenzio. Per giorni e giorni. Fino a quando...
Ishtar 2 (Rizzoli, pp. 115, € 12,50) è la “cronaca di un risveglio”. È il racconto di una coscienza spaesata e fluttuante che si fa largo attraverso una landa di sogni soffusi e percezioni sfumate, dove le visioni sono più vere del vero e decidono la sorte del corpo, inconsapevole del suo destino dall’altra parte del velo, nel mondo della veglia. È una battaglia solitaria condotta in un altro stato della coscienza, là dove smarrimento e tenebra nascondono fantasmi senza nome e senza forma, collosi ammassi di velenosa malizia. Sì, perché esiste «una forza immensa e malvagia» che tenta di trascinare con sé l’autrice/protagonista, sussurrandole di raggiungerla: voci di disperazione che vorrebbero sciogliere ogni resistenza e asfissiare la speranza. Ma le ombre vengono disperse, ora dal ricordo nitido della mamma, ora dall’apparizione del leone Aslan (anche Arslan significa “leone”), ora dalle visite dell’Alta Signora che viene a consolare l’inerme malata: una Regina materna, «in veste di bambina sapiente», che con lei ama scherzare e sgranare lenticchie.
Fino al momento in cui la luce ritorna. E con essa, come da una lunga apnea, emerge anche la coscienza. Improvvisamente “rinata dall’alto” come l’anziano Nicodemo, la scrittrice riscopre la vita con la stessa stupefatta passione di «una bambina piccola»: l’impareggiabile soddisfazione del primo sorso d’acqua, la gioia tutta femminile per i capelli lavati e spazzolati, la «scoperta incantevole» del gustare i sapori del cibo.
Il tocco della vita, però, non è solo piacere. E presto costringe l’autrice/protagonista ad abbandonare la passività della «beatitudine infantile»: occorre imparare di nuovo a respirare da sola, senza l’aiuto di una macchina; bisogna impadronirsi da capo dei muscoli di braccia e gambe; tocca ricominciare a parlare. Una ripresa difficile: troppo, quasi una tortura.
I vivi intorno a lei, però, spingono spietatamente a combattere: «Vuoi darti vinta per così poco? Noi facciamo del nostro meglio, e tu?». Sono le spinte e contrazioni di una seconda nascita. Solo nell’abbandono all’oblio non c’è sofferenza. Vita è anche dolore: fitte lancinanti che trafiggono il corpo senza ragione, crisi di terrore insensato – ma non per questo meno reali – come se si avesse perso qualcuno di caro.
Ma pure il sollievo di scoprire che non è così. E di trovarsi accudita giorno e notte da volti vaghi e senza nome, come quello di un inserviente che – quasi come il servo inutile del Vangelo – distribuisce acqua all’assetato e subito dimentica il bene fatto, senza ritenere di aver fatto nulla di speciale. E poi da volti sempre più precisi e distinti: infermiere e medici, voci di tenerezza e voci esigenti, inflessibili, che respingono la finta compassione che nasconde la resa.
Ishtar 2 – questo il nome del reparto di Rianimazione – è un libretto breve e pregno, scritto per gratitudine. La si sente. Gonfia le righe, le feconda. E perfino un reparto di morenti e dormienti, gli riesce di trasformarlo in una casa.
Un assaggio dell’opera
Io avevo sete, tanta sete. Ogni tanto provavo a farmi capire con gli occhi, perché non riuscivo a muovere le mani, e sentivo la gola ostruita da qualcosa di viscido,ma pesante come un sasso. “Ho sete, voglio acqua” cercavo di dire, e mi raschiavo la gola per parlare, ma non ce la facevo a metter fuori la voce. Tentavo e ritentavo continuamente, e mi pareva che la voce uscisse, ma poi non la sentivo, neanche un soffio, neanche raschiante.
[…] Non c’era nessuno intorno, il buio si faceva di momento in momento più intenso, e la sete ancora più acuta. Riemergevo da un sonno opprimente, ma non potevo chiamare, solo aspettare, e un’acuta nostalgia mi prese, una voglia di piangere sulla mia miseria, sulla mia solitudine, sulla mia sete.
Fu in quel momento che tornarono in due, Roberta e un giovane, poco più di un ragazzo. Ogni tanto vengono in coppia, quando ti devono sollevare e cambiare. Mi sprimacciarono il cuscino, mi rassettarono il lenzuolo, controllarono che i piedi fossero coperti e che le lucette sul quadro dei controlli fossero a posto. Poi Roberta andò ad aggiornare il diario. Mentre facevano queste cose, io li seguivo con gli occhi, ansiosa, cercando di parlargli, di farmi capire, che avevo bisogno di acqua. Non sapevo ancora, allora, di avere un tubo in gola.
Stavano per andarsene, e l’infermiera uscì per prima. Ma, come se avesse sentito l’intensità disperata del mio sguardo, il ragazzo si voltò lentamente, mi guardò con attenzione e sorrise. Poi disse, con semplicità: «Cosa stai pensando, cara, forse hai bisogno di un’acquata?». E, come fra sé, si rispose: «Certo che ne ha bisogno!», e uscì svelto, per ritornare dopo un momento con larghi teli bianchi e un catino d’acqua appena tiepida. Cominciò a bagnare i teli, e me li appoggiava sul corpo, dappertutto, con meticolosa attenzione, rimettendoli nell’acqua ogni tanto, tamponandomi con un angolo di tela la fronte e le labbra. Sentivo le gambe inerti e pesanti, come se fossero ricoperte di stoffa, e più tardi seppi che davvero lo erano, infilate in certe calze elastiche bianche che servono, mi dissero poi, a prevenire le trombosi. Ma allora non sapevo ancora niente della mia malattia.
Un senso di frescura infinita mi si diffondeva per le membra, e perfino l’arsura in gola si attenuava, e il buio sembrava meno denso. Per mezz’ora, ci parlammo con gli occhi; ogni tanto mi guardava, scuoteva la testa e diceva: «Ancora un po’, vero? Ti fa star meglio, si vede», e quando lo vennero a chiamare, rispose: «Non la posso ancora lasciare», e continuò a darmi acqua sul corpo.
Così mi addormentai di nuovo, e lui se ne andò piano piano, silenziosamente, e per qualche ora dormii tranquilla. Speravo di rivederlo il giorno dopo, speravo che mi facesse un’altra acquata, volevo dirgli ancora grazie con gli occhi. Ma non lo rividi, né il giorno dopo, né in quelli seguenti. E quando finalmente mi tolsero il tubo e potevo parlare, cominciai a chiedere di lui, ma nessuno lo conosceva, né le infermiere né i dottori: e mi accorsi che tutti loro pensavano che avessi avuto un’allucinazione, che mi immaginavo di ricordare qualche cosa che invece era stato solo un desiderio, una visione interiore dovuta alla troppa sete, ai tanti farmaci, chissà.
Allora smisi di chiedere. Ma molti giorni dopo, giusto prima che dalla Rianimazione mi mandassero nel reparto di Urologia, dove il mio calcolo renale vagabondo e maligno doveva essere individuato e stanato, proprio lui entrò verso sera nella mia stanza, portando un bicchiere. Lo riconobbi immediatamente, ma lui no. Io cominciai a parlargli dell’acquata, sorridendo nervosa, accavallando le parole: e finalmente si ricordò di me. Ma non gli pareva di aver fatto nulla di speciale, disse, lui quella sera faceva un turno a Ishtar quasi per caso, faceva una sostituzione. Io insistevo, gli dicevo quanto avesse significato per me quel suo darmi l’acqua, bagnarmi tutta, contro i fantasmi notturni. E solo allora arrossì tutto in viso, come un ragazzino.