Per non morire, cambiare, di Cyrano
Riprendiamo dal blog di Costanza Miriano un articolo di Cyrano, pubblicato il 12/9/2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2011)
Una delle cose che trovo più noiose al mondo è spiegarmi con chi non ha voglia di cambiare. Non solo “di capire”, perché non è vero che si può capire tutto, né che si deve farlo; quello che mi esaspera fino a farmi perdere la voglia di “confrontarmi” (che parola à la page ho scritto, eh?) è avere a che fare con persone palesemente immuni dal brivido che la verità sa darti quando intuisci che incontrarla potrebbe (forse) cambiarti.
Certo, quando alle medie favoleggiavo tra me e me di studiare filosofia pensavo che la filosofia fosse in fondo quella dei bigini di De Crescenzo, e che studiarla avrebbe potuto fare di me un magnetico buttafuori come Patrick Swayze in “Il duro del Road Hause”. «Vuoi mettere, scusa, – mi dicevo – almeno se in una rissa mi becco un taglio al costato da sembrare il Cristo di Sansepolcro e se al pronto soccorso trovo una bella infermiera posso chiederle la cortesia di non farmi alcuna anestesia, spiegandomi poi seraficamente: “Non fa male soffrire”». Non solo, avrei pure potuto dispensare perle di saggezza come “Nessuno esce vincitore da una rissa” e così via…
Invece niente, che delusione: non solo nessuna rissa mi ha mai portato a scoprire se ci sono veramente infermiere con quegli occhiali e con simili acconciature (pazienza), ma mi sono pure ritrovato a studiare un mondo di persone disposte a sfidarsi a duelli all’ultima goccia (d’inchiostro e talvolta di sangue) in mezzo a un mondo di persone disposte soltanto a “rispettare” la mia verità, quale che fosse. Naturalmente tutto quello che alla mia verità si chiedeva era che non pretendesse di essere veramente vera. Tanto meglio, ma il guaio è che nessuno aveva da dirmi qualcosa che “mi placasse”, per dirla con gli Articolo 31: «Qualcuno mi spiega perché ‘sta roba a me m’ha preso il cuore?». «Bah, sarà la filosofia – mi dicevo – e con la teologia sarà tutta un’altra storia»: peggio che andar di notte, i teologi (diciamo molti di essi, per essere giusti) erano affetti dalla stessa malattia.
E ora attaccherei, di norma, la solita tiritera sul relativismo, magari farcendola di qualche pagina di Bauman o di un Domenicale del Sole, ma sarebbe una fatica degna di Sisifo, perché il problema non è semplicemente che “i cattivi” non accolgono “la sana dottrina”, bensì che più fondamentalmente abbiamo un assetto refrattario ai cambiamenti, mica solo a livello cognitivo! Visto che «non s’è mai visto un filosofo sopportare in pace il mal di denti», parliamo proprio del mal di denti: un dente cariato non si sana da sé, eppure personalmente sono un campione nel procrastinare la visita dal dentista fino all’inevitabile (il che, peraltro, complica anche la prestazione del medico e fa lievitare l’onorario).
Ha un bel dire e ridire, il mio padre spirituale, che devo curare di più l’orazione silenziosa, il colloquio intimo con Gesù Cristo: lo so, lo credo, lo sento, eppure c’è come un freno a mano che mi trattiene dall’abbandonarmi a quello di cui ho bisogno. La verità è quello di cui ho bisogno, e per qualche misterioso motivo non mi rassegno ad accettare che possa cambiarmi.
Chiaro, anche quando ci scegliamo una persona da amare e che ci ami diciamo: «Se mi ama mi deve accettare come sono…», dimenticando che i frutti dell’amore sono addirittura migliori e più generosi dei suoi semi. Chi ci ama ci accetta come siamo, naturalmente, ma intraprende l’impresa di renderci migliori, e non so che cosa possano volere, di più umile e di più presuntuoso, due creature l’una per l’altra.
Nel campo sentimentale, come al solito, diventiamo ridicoli fino al grottesco quando abbracciamo la persona che con tutto il cuore c’illudiamo di amare e le diciamo: «Mi raccomando, non cambiare mai!». Se fosse una statua avrebbe qualche possibilità in più di ascoltarci, ma il bello lo cantava J.Ax qualche anno fa, riflettendo su quanto valesse la pena avere una ragazza «che tenti di cambiarmi e poi mi accusi di stare cambiando».
Ovvio, c’è modo e modo di mettersi a cambiare una persona, come c’è modo e modo di non cambiare per una persona, ma la sostanza è che, potendo scegliere, nessuno di noi cambierebbe: «Non cambiare: non costa», era uno dei motti di Zio Paperone. A ripensarci ora, mi pare che quel motto stia meglio a un contadino che a un imprenditore, e la cosa bella dell’imprenditoria è che anche più dell’agricoltura riesce a mettere in evidenza che grave vizio sia l’accidia.
Chi ci pensa mai, al peso dell’accidia nella propria vita? Se a uno per strada dici di elencarti i vizi capitali non ti sentirai mai dire “accidia” nella top three (ammesso e non concesso che l’interlocutore capisca l’espressione “vizi capitali” e sappia elencarne almeno quattro); eppure Dante sentì addirittura il bisogno di “duplicare” il supplizio degli accidiosi distinguendovi quello degli ignavi. La ragione per cui degli uni (e degli altri) si può dire che «mai non fur vivi» arriva congiuntamente da Fiorella Mannoia e da Giuseppe Tomasi di Lampedusa: intendo che una persona sensata può arrivare a cercar di capire «come si cambia, per non morire» soltanto dal momento che ha intuito che «se vogliamo che tutto resti com’è, bisogna che tutto cambi».
Questo lo capiamo bene tornando dalle vacanze, quando si fa sempre più chiaro che per continuare a percepire una qualche forma di stipendio dovremo forzosamente lasciare il ritmo di vita vacanziero. Lo stesso in amore, quando ci ricordiamo che conservare la pace significa smussare angoli e che conservare la gioia significa desiderare di essere migliori per l’altro. Lo stesso in preghiera, quando tocchiamo con mano che una vaga “nostalgia di Dio” – tutto quello di cui non pochi credono di aver bisogno per poter vantare un’intensa “vita spirituale” – non basta a conservare l’intimità con Dio in Gesù Cristo.
E a proposito di Lui, comincio a capire la terribile serietà della domanda fatta da Gesù al paralitico: «Vuoi guarire?» (Gv 5). Perché mica è scontato che uno abbia voglia di operare tutti i cambiamenti che, a fronte dell’incontro con la Verità, sembrerebbero necessari a continuare a vivere? Il meschino camminò, quel giorno, ma quello dovette pure essere l’ultimo giorno di accattonaggio concessogli dai concittadini: trovarsi un lavoro, pagare le tasse, cercare una donna e gestire una famiglia furono alcune tra le prime cose che dovettero cambiare, perché tutto potesse continuare come prima… anzi, incomparabilmente meglio di prima.
È che la cosa sta in termini molto semplici, e per questo non li teniamo a mente, quando ci ostiniamo a “rispettare le verità degli altri” (perché non possano disturbarci, casomai risultassero veramente vere): la vita interiore di ogni uomo, la crescita nella preghiera, la cura estetica, tutto questo funziona come un’automobile lanciata in salita senza freni – nel momento in cui smettesse di procedere inizierebbe a regredire.