La cognizione del dolore, l’orrore dell’odio, di Pierangelo Sequeri
Riprendiamo da Avvenire dell’11/9/2011 un articolo scritto da Pierangelo Sequeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Sull'11 settembre 2001, vedi su questo stesso sito anche Parlare di “salvezza” sotto le Twin Towers, di Andrea Lonardo, scritto all'indomani di quel giorno.
Il Centro culturale Gli scritti (11/9/2011)
«Lo stupore che le cose che noi viviamo siano 'ancora possibili' nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: l’idea della storia da cui deriva non è sostenibile» (W. Benjamin). L’ideologia del progresso è stata una buona sostituzione della teologia della storia? Ne abbiamo tratto dei vantaggi, certo. Ma non ci siamo anche persi qualcosa di irrimediabile, che ora siamo costretti a ritrovare?
Quello che ci siamo persi, si può dire in due parole. La cognizione assoluta del dolore, l’immoralità assoluta dell’odio.
Ecco che cosa ci siamo persi. Del dolore e dell’odio che trafiggono i nostri affetti più sacri e più cari – facendoli impazzire tutti, fino in casa e sottocasa – il progresso non sa e non vuole sapere più nulla. La razionalità del progresso computa i danni in termini di entità e di costi. L’ideologia dell’io che si fa legge a se stesso, del resto, ha incorporato l’assuefazione alla durezza della competizione senza scrupoli. Chi si impone vince, e chi vince è il migliore. La storia seleziona imparzialmente la specie più idonea. L’odio vi si adatta indisturbato, quasi come un coefficiente di motivazione necessario: ammirato, persino. Diventa ragione di legame e addirittura – orrore nell’orrore – prova di fede. L’ideologia del progresso se ne duole, certo, e sparge compassione in diretta e sdegno di giornata. Ma deve pur riflettere sulla sua stessa vulnerabilità, che lascia sguarniti i confini del dolore e dell’odio. Crediamo forse che coloro che sono caduti sotto le due torri in America siano più colpevoli di quelli che muoiono senz’acqua nelle immense radure dell’Africa?
Non sapendo più nulla del mysterium iniquitatis che giace sul fondo dell’anima, ad ogni strage degli innocenti farfugliamo di follia inconcepibile, di cause socio-economiche, di fattori ambientali, di costruzioni psicologiche nelle quali ci attrezziamo per fronteggiare l’intollerabile. Il mistero del male che l’uomo introduce nel mondo – quello evitabile, dunque, e nondimeno non evitato! – è ormai spiegato parlando d’altro. E perciò rimosso. Quando ritorna, con nostro stupore, è più cattivo.
Ecco che cosa abbiamo perso, quando abbiamo perso l’umiltà e la speranza della sapienza teologica che conosce il peso del male nella storia, e sa del nostro decisivo apporto all’ingiustizia del dolore e alla giustificazione dell’odio. I due vengono nel mondo sempre insieme.
Con quella sapienza, abbiamo perso la capacità di abitare, con pietas sincera e a nostro rischio, l’ingiustizia del dolore e la mistificazione dell’odio: senza scioglierle a buon mercato con l’indecente ricorso al gioco di geni e neuroni. E abbiamo perso la forza di interposizione del Nome di Dio, che pure ci era stata rivelata dal Figlio, contro la spirale del dolore e dell’odio, che recluta sempre di nuovo il sacro al suo servizio. Gott mit uns, ancora una volta, in lingue sempre diverse.
Quanto stupidamente dovremo sorridere, ancora, dell’eredità della colpa che si riforma, in ogni svolta della storia e in ogni piega del progresso? E quanti dovranno soccombere, prima del nostro ritorno all’umiltà di un’autentica ricerca di Dio, in spirito e verità?
Non c’è giustizia compiuta se non nel riscatto eterno del dolore. Non c’è giustizia compiuta se non nell’eterna espulsione dell’odio. Il riscatto di Dio deve ritrovare, una per una, tutte le vittime della storia congiunta del dolore e dell’odio. Se non crediamo questo, resistendo all’assuefazione, e a dispetto della nostra impotenza, non avremo né salvezza, né pace. Non è facile, neppure per l’uomo religioso, ritrovare l’intimità di questa cognizione del dolore, e la lucidità di questo orrore dell’odio. Il cristianesimo, che si identifica con le ferite della verità di Dio che marcano questa duplice passione, sa di che cosa parla. Di qui soltanto si rimette in moto la storia, ogni volta che sembra alla fine.
Il puro risentimento – religioso o laico – che cede alla debolezza di credere soltanto in se stesso, ci toglie passione e compassione. E sta a zero.