Mettiamo a disposizione la trascrizione del VI incontro, dedicato alla lettera agli Ebrei, del corso di
formazione per catechisti sulla storia della chiesa di Roma proposto dall’Ufficio catechistico della
diocesi di Roma, tenutosi il sabato 1/3/2008, presso la chiesa di San Lorenzo de’ Speziali in Miranda.
Appena possibile saranno on-line anche le trascrizioni delle successive lezioni. Il calendario degli incontri con
l’indicazione dei luoghi nei quali si svolgono è on-line sul sito dell’Ufficio catechistico
della diocesi di Roma www.ucroma.it. Il testo
è stato sbobinato dalla viva voce degli autori e conserva uno stile informale.
Le trascrizioni dei primi cinque incontri, dedicati alla basilica di Santa Prisca, di Santa Maria in Aracoeli,
di San Marco, di San Pietro in Vincoli e di San Clemente, e rispettivamente, agli Atti degli Apostoli, alla
Lettera di san Paolo ai Romani, al vangelo di Marco, alle lettere di Pietro ed ai padri apostolici Clemente ed
Ignazio, sono già disponibile on-line, nella sezione Roma e
le sue basiliche. Le foto che illustrano l’itinerario descritto in questo testo sono on-line nella
Gallery San Lorenzo de’ Speziali in Miranda e nella Gallery
Arco di Tito.
Il Centro culturale Gli scritti 3/8/2008
5 ottobre 1828
È il magnifico tempio di Antonino e Faustina. Bisogna venirci subito, appena arrivati a Roma, se
sì vuol comprendere che cosa era un tempio antico. La via Sacra vi passava davanti. Dieci grandi colonne
di cipollino alte quaranta piedi, tutte di un blocco. Provate a paragonare tutto ciò alle miserabili
basiliche che Parigi costruisce attualmente, rovinando l’erario e scontentando i contribuenti.
L’architettura diventa sempre più insopportabile
dalle Passeggiate romane di Stendhal
Questa chiesa si chiama S.Lorenzo de’ Speziali in Miranda, e il suo nome contiene già una serie di
informazioni su di essa. S.Lorenzo perché è dedicata a S.Lorenzo martire, del quale sono
conservate qui alcune reliquie, degli Speziali perché Martino V nel 1430 affidò
questo luogo per gli incontri di preghiera e crescita spirituale del Nobile Collegio Chimico Farmaceutico,
Universitas Aromatariorum Urbis, la sede degli Speziali, i farmacisti.
In Italia, come in altre nazioni del mondo, esiste la Federazione internazionale dei farmacisti cattolici e qui a
Roma abbiamo l’Associazione dei farmacisti cattolici, ma il Nobile Collegio è un’altra cosa.
Questa chiesa è la sede del Nobile Collegio Chimico Farmaceutico, che non è un ente religioso.
È conosciuto come una arciconfraternita, ma è, in realtà, un ente civile.
Il Nobile Collegio nasce con lo scopo di fare del bene alle persone, molti degli Speziali erano cattolici, vista
anche l’epoca; volevano dedicarsi a fare del bene con la loro arte e crearono questa specie di
confraternita che però è divenuta in effetti, per varie vicissitudini, un ente civile.
Vi do il benvenuto. Questa chiesa non è ordinariamente aperta al pubblico, neanche al culto pubblico; qui
celebriamo con il Nobile Collegio. Quando il cardinal Ruini mi mandò qui come rettore della chiesa,
cappellano del Nobile Collegio Chimico Farmaceutico, non sapeva che anch’io sono un chimico farmacista;
il Signore mi ha riportato nei meandri della Farmacia.
Nei precedenti incontri ho molto insistito sul fatto che la comunità cristiana ha spesso utilizzato alcune domus romane, trasformandole in chiese. Successivamente -ne vediamo oggi un esempio con questa chiesa- ha iniziato anche ad occupare i templi pagani. Questo, però, è avvenuto molto più tardi; pensate che il primo tempio divenuto una chiesa è il Pantheon e tale trasformazione avvenne durante il pontificato di Bonifacio IV, cioè tra il 608 ed il 615 d.C., cioè ben trecento anni dopo Costantino.
Tempio di Antonino e Faustina, trasformato nella Chiesa di S.Lorenzo de' Speziali in Miranda |
Il tempio romano era composto da una cella, una grande stanza nella quale entrava il sacerdote che
conteneva la statua della divinità, e da una serie di colonne che la circondavano, creando uno spazio
architettonico tutto intorno.
In base alla collocazione delle colonne il tempio era definito prostilo, cioè con le colonne solo davanti,
oppure anfiprostilo, con le colonne avanti e dietro, o ancora periptero, con le colonne su tutti i lati. Noi oggi
ci troviamo dentro la cella di un antico tempio prostilo (in questo caso esastilo perché le colonne sono
sei) ed all’interno della cella, ora trasformata in chiesa, c’era una gigantesca statua di
Faustina, alla quale il tempio era dedicato, e successivamente anche del marito Antonino Pio.
I sacerdoti accedevano alla cella tramite una gradinata, che si è conservata, che dava proprio
sulla Via Sacra e, sulla gradinata, c’era l’altare per i sacrifici. La chiesa attuale occupa la cella
e una parte del pronao del tempio di Antonino e Faustina.
Tempio di Antonino e Faustina, trasformato nella Chiesa di S.Lorenzo de' Speziali in Miranda |
Il tempio fu eretto nel 141 d.C., per onorare la moglie di Antonino Pio che era appena morta ed era stata
divinizzata dal Senato. Venti anni dopo, morto anche l’imperatore, il tempio venne intitolato anche a
lui. Sulla facciata vedremo una doppia trabeazione. Sulla più antica, quella inferiore, è scritto:
DIVAE FAUSTINAE EX. S. C. (Senatus Consultus). Su quella più recente, posta sopra, è stata aggiunta
l’iscrizione DIVO ANTONINO ET. Questo vuol dire che inizialmente il tempio fu dedicato solo a Faustina e
solo venti anni dopo fu aggiunta la dedicazione ad Antonino Pio.
La cella è costruita in opera quadrata di peperino; sui due lati maggiori corre un fregio marmoreo, con la
rappresentazione di grifoni e motivi vegetali. In origine la cella era rivestita di marmo. Esternamente vedrete
che il podio, l’alzata della cella prima delle colonne, è in tufo. Originariamente non era
così. I buchi che ora vediamo servivano a fissare tramite delle grappe le lastre di marmo. I templi
divennero spesso nel medioevo delle cave; in questo caso i marmi furono utilizzati per fornire il materiale
necessario all’abbellimento della basilica lateranense.
Probabilmente questo tempio fu trasformato in chiesa tra il VII e l’VIII secolo, anche se non
abbiamo un’evidenza storica o archeologica che possa darci testimonianza certa di una data. Nel 1050 in un
testo famosissimo, i Mirabilia Urbis, una guida per i pellegrini che venivano a Roma, si trova la prima
menzione di questa chiesa[1].
I Mirabilia urbis è un libro pieno di informazioni, alcune però
assolutamente fantastiche, che ci mette a contatto con gli itinerari di pellegrinaggio in Roma nell’XI
secolo. Per gli storici dell’arte è una miniera di informazioni.
Un secondo testo che ci parla di questa chiesa è del 1192; è un catalogo delle chiese di Roma,
il Liber Censuum di Cencio Camerario (il futuro papa Onorio III, appartenente alla
famiglia Savelli, fu detto anche Cencio camerarius, per avere ricoperto dal 1188 la carica di camerlengo).
Sappiamo che alla chiesa venne annesso un monastero. Tutte le grandi chiese, mete di pellegrinaggio, avevano
annesso un monastero che serviva sia per la gestione della chiesa che per l’accoglienza dei pellegrini e
dei poveri.
Qui fu appunto creato un monastero detto Miranda “quod vocatur de Mirandi”, ma tale
appellativo potrebbe anche derivare da una benefattrice di nome Miranda o, più ancora, dal cognome di una
famiglia, “de Miranda”, che è attestata da una lapide sepolcrale presente in San Giacomo degli
Spagnoli.
Tra il 1362 e il 1370 Urbano V autorizzò la rimozione delle pareti in marmo del tempio, divenuto ormai
una chiesa, e la riutilizzazione di questo marmo per la basilica lateranense, come abbiamo già
detto.
Nel 1430 Martino V, il papa raffigurato nella tela sopra il portale principale, concesse tutto il complesso
architettonico all’Università degli Speziali che è ancora proprietaria di questo
ambiente.
Martino V, tela ed iscrizione: il pontefice che ha affidato agli Speziali la chiesa |
Nel 1536, in occasione della visita dell’imperatore Carlo V a Roma che doveva passare sulla via sacra,
si decise di liberare l’antico tempio pagano dalle strutture costruite successivamente che vennero
così demolite. Il tempio tornò così ad essere visibile nelle sue strutture principali.
Non bisogna dimenticare che, fino al periodo mussoliniano, non esisteva via dei Fori Imperiali e, nei secoli
precedenti, la via principale era sempre passata seguendo il tragitto dell’antica Via Sacra. È per
questo che noi oggi entriamo dal retro della chiesa, ma la sua facciata principale è sempre stata nei
secoli rivolta verso i Fori.
Ancora nell’Ottocento si entrava in questa chiesa dalla porta principale ed il piano di calpestio era
all’altezza della porta. Già nel 1602, a causa dell’innalzamento del piano di calpestio,
la chiesa venne ricostruita ad una quota più alta. Il pavimento che vediamo oggi è così
rialzato di alcuni metri rispetto a quello del tempio di Faustina. Immaginate come dovevano essere i Fori Romani
che erano ricoperti di terra fino all’altezza della porta di questa chiesa.
Il podio, la scalinata ed i resti dell'altare, visti dall'interno della chiesa |
Con gli scavi ottocenteschi e, soprattutto, novecenteschi si scavò fino a liberare l’intero podio del tempio che ora possiamo nuovamente ammirare nella sua interezza.
Immaginate, a partire da quello che abbiamo appena sentito, di trovarvi alcuni metri più in basso di
dove siamo ora e di assistere al culto che si svolgeva un tempo in questo tempio. Questo ci aiuterà,
in un secondo momento, a fare un raffronto con il nuovo culto cristiano che ci è annunciato dalla lettera
agli Ebrei che vogliamo commentare in questo luogo.
Dunque, quando questo tempio era in attività, la gente si radunava dalla parte del Foro, sotto la
gradinata; i credenti negli dèi pagani e nel culto imperiale degli anni 141-160, se volevano venerare
l’imperatore o sua moglie, si mettevano in basso. Sull’altare i cui resti sono ancora visibili sulla
scalinata venivano offerti in sacrificio alcuni animali. Potevano essere dei buoi, degli arieti o ancora
altri animali; parte dei resti degli animali uccisi veniva portata nella cella, dinanzi al simulacro degli
imperatori e parte veniva bruciata per salire in offerta verso il cielo. Il sacerdote entrava da solo, nella
cella; ai ‘laici’ –permettetemi questo termine moderno, solo per spiegarmi- non era
permesso accedere all’interno del tempio.
Il popolo restava fuori. Il tempio era fatto con delle colonne proprio perché così era possibile
vedere da fuori ciò che succedeva all’interno; il tempio non era il luogo dei credenti, ma solo
del sacerdote che vi poteva entrare e portare la preghiera a nome degli offerenti. Probabilmente le enormi
statue raffiguranti le divinità erano visibili dall’esterno, ma non si poteva accedere.
Siamo qui per riflettere, per cercare di capire, attraverso la Lettera agli Ebrei, come la fede cristiana ha
rinnovato la visione del culto. Che differenza c’è tra il culto dei cristiani, quello dei pagani
e quello ebraico?
Prima di rispondere a questa domanda, cerchiamo di capire perché leggiamo la Lettera agli Ebrei in un
corso sulla storia della chiesa di Roma. La risposta è semplice: la Lettera agli Ebrei è, in
realtà una lettera che fu inviata alla comunità cristiana di Roma. Possiamo immaginare i
cristiani del I secolo che, nelle loro case, si radunavano per ascoltarne la proclamazione per la prima
volta.
Come facciamo a sapere che fu scritta per essere inviata a Roma? Lo deduciamo dalla frase conclusiva della
lettera:
Vi salutano quelli dell’Italia (letteralmente: quelli ‘dall’Italia’), Eb
13,24.
Questo saluto è molto importante, perché, anche se non ci dice da dove viene inviata la lettera,
qual è il suo luogo di origine, ci dice però, indirettamente, in quale luogo è inviata.
“Vi salutano quelli dall’Italia” vuol dire che nel posto nel quale è stata scritta
la lettera c’erano degli emigrati dall’Italia; chi scrive la lettera decide di accludere alla lettera
anche i saluti di questi emigrati, perché i loro concittadini rimasti in patria li ricevano. Ma una
lettera inviata in Italia è, probabilmente, scritta anche per Roma o direttamente inviata a Roma per
essere da lì diffusa agli altri fedeli già convertitisi al cristianesimo nella penisola.
Insomma, la lettera viene scritta per essere letta durante la liturgia in una domus
ecclesiae italiana, in una casa di cristiani della penisola, probabilmente romani. Possiamo
così essere certi che i primi destinatari e lettori di questa lettera agli Ebrei l’avranno ascoltata
qui nell’urbe, in qualche casa privata.
Questo ci fa anche capire che la titolazione tradizionale ‘Lettera di san Paolo apostolo agli Ebrei’
non corrisponde alla realtà della lettera. Albert Vanhoye, il grande studioso della Lettera agli Ebrei, ha
sempre affermato, con fare scherzoso che la Lettera di S.Paolo Apostolo agli Ebrei, non è una lettera,
perché è un’omelia, non è di S.Paolo Apostolo, perché è probabilmente di
un suo discepolo, e non è scritta agli Ebrei, ma a dei cristiani appena convertiti dall’ebraismo.
La Lettera agli Ebrei è un’omelia sul nuovo culto cristiano e, soprattutto, su Cristo unico vero
sacerdote, scritta chissà in quale comunità cristiana dell’impero ed inviata ad un certo
punto a Roma con quel biglietto finale che reca i saluti degli emigrati italiani ai loro connazionali.
È interessante riflettere anche sulla datazione della lettera. Quasi sicuramente è stata scritta
prima dell’anno 70 d.C., l’anno della distruzione del Tempio, perché a partire da quella
data terminò il culto nel Tempio di Gerusalemme. Nella lettera si parla del Tempio e di quello che vi
avviene, ma se ne parla come di una realtà tuttora esistente; non se ne parla mai al passato, come se
tutto fosse finito, come se i romani avessero già distrutto il Tempio. Nella lettera si fa un confronto
tra il culto cristiano ed il culto ebraico senza dire mai che quello ebraico non esiste più; gli studiosi,
quindi, ne deducono che probabilmente la lettera è stata scritta alcuni anni prima del 70.
Prima di esaminare la Lettera ricordiamo alcuni avvenimenti storici, continuando così a stilare una
cronologia essenziale dei primi anni del cristianesimo, come stiamo facendo nel corso di questi incontri.
Con la Lettera agli Ebrei ci troviamo cronologicamente prima dell’anno 70, forse tra il 66 (anno
d’inizio della I guerra giudaica) ed il 70 (anno della distruzione del tempio). La rivolta che portò
alla distruzione di Gerusalemme non fu un evento isolato. Abbiamo, infatti, notizia di altri sette tentativi
di rivolta che avvennero negli anni subito prima e subito dopo l’anno della nascita di Cristo. È
Flavio Giuseppe a raccontarci questi sette conati di rivolta.
Abbiamo la certezza che tre di questi rivoltosi si autoproclamarono ‘messia’. Da questo
capiamo che c’era un’attesa messianica; non c’è niente di strano dal punto di vista
storico nel fatto che Gesù si sia proposto e sia stato compreso come Cristo e come Messia perché
questa attesa era presente in quegli anni. Il problema storico e teologico relativamente alla messianicità
di Gesù è piuttosto che egli fu l’unico a vivere una messianicità non
trionfalistica, ma che passava per la croce.
Alcuni di questi sette rivoltosi sono citati anche negli Atti degli Apostoli. Di Tèuda, ad esempio, ci
parlano sia Flavio Giuseppe, sia gli Atti, che dicono (At 5,36):
Qualche tempo fa venne Tèuda, dicendo di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento
uomini. Ma fu ucciso, e quanti s'erano lasciati persuadere da lui si dispersero e finirono nel nulla.
Flavio Giuseppe così ci descrive, invece, lo stesso episodio:
Durante il periodo in cui Fado era procuratore della Giudea, un certo sobillatore di nome Teuda persuase la
maggior parte della folla a prendere le proprie sostanze e a seguirlo fino al fiume Giordano. Affermava di essere
un profeta al cui comando il fiume si sarebbe diviso aprendo loro un facile transito. Con questa affermazione
ingannò molti. Fado però non permise loro di raccogliere il frutto della loro follia e inviò
contro di essi uno squadrone di cavalleria che piombò inaspettatamente contro di essi uccidendone molti e
facendone altri prigionieri; lo stesso Teuda fu catturato, gli mozzarono la testa e la portarono a
Gerusalemme.
Tutti questi tentativi di ribellione si concretizzano nel 66 nella grande rivolta che dette inizio alla I
guerra giudaica, alla quale i cristiani non vollero partecipare.
Furono gli zeloti a guidare la rivolta, mentre i cristiani fuggirono a Pella, oggi in Giordania, facendo
capire che la loro visione della purità, del culto, del sacerdozio, di Dio non aveva nulla a che fare con
quella lotta politica, perché da Gesù avevano imparato che quella rivolta non era secondo il
disegno di Dio.
Al momento del trionfo sugli ebrei Tito non era ancora imperatore. Fu suo padre Vespasiano ad iniziare la
guerra giudaica nel 66 come generale dell'imperatore Nerone, quando gli zeloti scatenarono la rivolta contro
il procuratore romano Gessio Floro. Nel 69, un anno dopo la morte di Nerone, Vespasiano fu acclamato imperatore
dalle truppe e si recò a Roma, lasciando il figlio Tito a portare a termine la I guerra giudaica.
Nel 70 Tito prese Gerusalemme e distrusse il Tempio. Solo nel 73 (o nel 74) fu infine domata l'ultima
resistenza degli zeloti a Masada. A Masada, infatti, si raccolsero i rivoltosi; Flavio Giuseppe vuole, nella sua
Guerra Giudaica, che si siano suicidati in massa per non cadere vivi nelle mani dei romani. Gli studi
moderni mettono in discussione su questo punto il racconto di Flavio Giuseppe, ma l’evento ci fa capire
quanto fosse forte l’idea della rivolta, per cui era considerata preferibile la morte al cadere nelle mani
dei romani. Secondo la versione di Flavio Giuseppe gli ultimi sopravvissuti nell’assedio di Masada si
uccisero l’un l’altro; solamente alcune donne si nascosero e raccontarono poi a tutti quanto era
successo. Sugli aspetti leggendari dei fatti di Masada vedi l'articolo del prof.Giancarlo Biguzzi:
Masada, la prima rivolta giudaica ed il suicidio di massa di Eleazar e
dei suoi nel racconto di Flavio Giuseppe: alla ricerca della verità storica.
Negli anni 132-135 avvenne la seconda rivolta giudaica sotto Adriano, l’imperatore a cui succedette
Antonino Pio, colui che fece questo tempio in cui siamo. Adriano cercò di rendere Gerusalemme una
città più ‘romana’ , facendovi edificare un tempio a Giove Capitolino; la
popolazione prese le armi e si ribellò all’imperatore.
Il capo di questa rivolta fu il famoso Simone, che rabbi Aqiba chiamò
Bar Kokhba, cioè “figlio della stella” in aramaico, in riferimento a Nm
24,17, “una stella sorgerà da Giacobbe”. La profezia del “figlio della
stella” è quella che era già stata applicata a Gesù cento anni prima. Quando
l’evangelista Matteo racconta che la stella conduce i magi a Gesù, sta contemporaneamente dicendo
che Gesù è la vera stella, la vera luce del mondo.
Bar Kokhba venne ucciso e il rabbino che lo aveva definito figlio della stella venne accecato. Adriano
portò a termine una repressione terribile, mutò per punizione il nome di Gerusalemme in Aelia
Capitolina ed il nome di Giudea in Palestina –‘Palestina’ è un termine che viene dai
‘Filistei’, gli antichi nemici di Israele. Adriano pretese di cancellare il nome
‘Giudea’ e di sostituirlo con il nome ‘Palestina’, odioso per l’antico popolo
ebraico. A quei tempi il termine non c’entrava nulla con gli arabi che prenderanno il nome di palestinesi
solo quando invaderanno la Palestina.
Antonino Pio succedette ad Adriano; la sua innovazione nella politica persecutoria contro i cristiani fu
quella di vietare che fossero ricercati d’ufficio. Solo se denunciato da qualcuno come tale, un
cristiano doveva essere ucciso.
Sotto Antonino Pio furono martirizzati papa Telesforo, ucciso nel 155, Tolomeo e Lucio ed il famoso san
Policarpo di Smirne; quest’ultimo, contrariamente alle disposizioni in materia, fu espressamente
ricercato. I rappresentanti del potere romano in Asia lo fecero cercare e successivamente lo martirizzarono,
forse proprio perché era un personaggio molto conosciuto ed amato, contravvenendo alle leggi imperiali di
allora.
Torniamo adesso alla Lettera agli Ebrei; il quadro storico che avete ascoltato vi servirà per capire
come la proposta della Lettera si differenzia non solo dalla prospettiva del culto pagano, ma anche dagli eventi
che si stavano preparando nel mondo ebraico proprio negli stessi anni nei quali veniva composto questo
scritto.
La lettera comincia con quattro versetti che sono famosissimi e sono di una bellezza enorme. Dicono che
Cristo, come Figlio di Dio, è al centro di tutto l’universo. Dio è un Dio che ha
sempre voluto parlare agli uomini:
Dio, che aveva gia parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti,
ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e
per mezzo del quale ha fatto anche il mondo (Eb 1,1-2).
Dio non si era mai stancato di parlare agli uomini; dopo aver parlato loro tramite la creazione, tramite
il dono della coscienza umana, tramite l’invio dei profeti, solamente in questi tempi “che sono
gli ultimi”, dice precisamente la lettera agli Ebrei, ci ha parlato nel Figlio.
È come se Dio avesse fin dalla creazione cominciato a parlare, avesse abbozzato parole sempre più
espressive, come se avesse iniziato a dire il suo ‘mistero’ in maniera progressiva, ma adesso quel
periodo è giunto al termine, è arrivato il momento nel quale Dio ha voluto rivelarsi pienamente
dandoci il suo Figlio.
Già questo vi fa vedere come il Figlio, per l’autore della Lettera e per la fede cristiana, sia
totalmente diverso da tutti i profeti, perché questi parlavano a nome di Dio, ma solo il Figlio
è la Parola completa, vivente, è Dio stesso che parla di sé.
Questo Figlio, dice l’autore della Lettera agli Ebrei, è Colui che ha creato il mondo insieme al
Padre. Tutta la creazione è un messaggio di Dio, ma essa esiste perché il Figlio le ha dato
vita insieme a Dio, il Padre. Questo Figlio viene cioè prima della creazione del mondo, non è una
creatura come le altre creature, anzi è all’origine di tutte le creature.
La Lettera utilizza poi due espressioni che potremmo definire filosofiche: questo Figlio è
“irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza”. È come la luce del
sole che è la stessa cosa con lui. Dio è luce e il Figlio è luce da luce, perché
la luce non riesce a contenersi, ma illumina.
Il Figlio è anche “impronta della sua sostanza”; la realtà della divinità
di Dio è impressa nel Figlio, è come scolpita in maniera indelebile in questo Figlio.
C’è una perfetta corrispondenza fra Dio e questo Figlio che ne è l’impronta.
La Lettera è stata divisa dagli studiosi –importantissimi sono qui gli studi di Albert Vanhoye che
abbiamo già citato- in cinque sezioni che approfondiscono questa grande affermazione iniziale che
il Figlio è il cuore di tutto, che in questo Figlio si vede Dio, si vede la vita, si vede il creato, si
vede la salvezza.
Il tema con cui la Lettera approfondisce queste considerazioni iniziali è il sacerdozio di Cristo:
questo Figlio è l’unico vero sacerdote. Tutti i sacerdoti ebrei, tutti i sacerdoti che
entravano nel Tempio di Gerusalemme, i Leviti, erano solo un’ombra, una timida immagine di quello che
è Cristo. Il nostro vero sacerdote è Gesù. Lui solo, e non i sacerdoti antichi, ha permesso
a noi di entrare nella piena comunione con Dio.
La Lettera agli Ebrei sembra molto difficile, ma, in realtà, è un testo che segue uno sviluppo
molto lineare. Per chi studia l’analisi retorica degli scritti neotestamentari e ne cerca le strutture
letterarie, è evidente che è un testo nel quale ogni tema viene prima enunciato, quasi come un
titolo, e poi sviluppato. L’autore espone in modo ordinato le sue affermazioni, spiegandole ogni volta
che le ha enunciate.
Ecco allora che la prima sezione vede enunziato il suo tema in 1, 3: “Il Figlio è superiore agli
angeli”. Subito la Lettera spiega, nel prosieguo del primo capitolo, perché questo Figlio
è superiore e lo fa presentando la “situazione di Cristo”, sotto un duplice aspetto.
Innanzitutto Cristo è superiore agli angeli perché è il Figlio:
Infatti a quale degli angeli Dio ha mai detto:
Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato?
E ancora:
Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio?
E di nuovo, quando introduce il primogenito nel mondo, dice:
Lo adorino tutti gli angeli di Dio (Eb 1,5-6).
Ma gli angeli –ed è il secondo aspetto- sono meno importanti del Figlio, non solo perché lui
è il Figlio di Dio mentre gli angeli sono coloro che lo debbono adorare, ma anche perché solo il
Figlio si è fatto uomo.
Cristo ha così una doppia superiorità, perché è veramente Figlio di Dio e
perché è anche l’unico ad aver preso la carne, cosa che gli angeli non possono fare.
Vorrei sottolineare come questo sia un criterio di discernimento anche oggi, in relazione a fenomeni moderni come
la New Age: l’autore della Lettera, citando molti passaggi dell’AT afferma che gli angeli sono non
solo i servitori di Dio, ma anche i servitori di Cristo. Gli angeli per l’autore della Lettera agli
Ebrei –e per tutti i cristiani!- sono veri, esistono realmente ed il loro compito è quello di
condurre ogni uomo a Cristo. L’angelo è colui che ti dice che devi trovare il Signore, il Cristo,
l’unico vero sacerdote. Devi trovare il Cristo perché lì è la tua vera
felicità.
Se l’uomo si fermasse agli angeli, secondo l’autore della Lettera, non sarebbe andato molto lontano.
Nella New Age, invece, gli angeli non ti conducono a Cristo, non sono adoratori dell’unico vero
Signore! Qualche anno fa aveva conquistato una certa notorietà Rosemary Altea, una signora che
sostiene di essere in continuo contatto con gli angeli, che asserisce di vederli e di parlarci. Si potrebbe
erroneamente pensare che affermazioni come queste possano essere distintive di una fede cristiana, perché
portano oltre il materialismo ed introducono in una realtà ‘spirituale’. Tale conclusione
è, invece, esclusa dalla chiarezza della Lettera agli Ebrei che afferma l’esistenza degli angeli, ma
subito aggiunge che i veri angeli conducono l’uomo a diventare cristiano, lo guidano al Cristo. Ci si rende
conto subito, invece, che gli angeli della New Age non portano a Cristo, non sono inferiori a lui. Siamo
perciò con queste affermazioni su pseudo-rivelazioni angeliche di fronte a motivi completamente
estranei alla fede cristiana.
Nella stessa direzione ci porta il secondo punto che abbiamo enunciato che, per la Lettera agli Ebrei
esprime la superiorità di Cristo sugli angeli: Cristo ha preso la nostra carne.
Questo Figlio ha fatto una cosa che nessun altro ha mai fatto prima di lui: ha preso la carne. La Lettera
agli Ebrei ha una affermazione molto forte quando dice che Lui e noi abbiamo la stessa origine, non
innanzitutto perché anche noi siamo figli di Dio, ma, al contrario, perché egli ha preso la nostra
carne: ciò che abbiamo in comune lui e noi, per poter poi noi ricevere in dono la figliolanza divina,
è la carne! Noi e Cristo abbiamo la stessa origine, perché anche lui, con l’incarnazione, ha
avuto una nuova origine dalla carne. Cristo ha preso la carne, nessun angelo può farlo. Così dice
la Lettera:
Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato.
Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli ne è divenuto partecipe,
per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e
liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita
(Eb 2,13-15).
L’autore dopo aver detto il duplice motivo della superiorità di Cristo sugli angeli, fa una
seconda affermazione che è come il titolo della II sezione della Lettera: “Cristo è
divenuto un sommo sacerdote degno di fede e misericordioso” (Eb 2, 17).
Cristo, come sommo, come supremo sacerdote che non ha sacerdoti pari a lui, ha queste due caratteristiche:
è degno di fiducia ed è misericordioso. “È
degno di fiducia”, questa è la traduzione corretta che è già apparsa nella nuova
edizione della Bibbia CEI; vuol dire che noi vedendo Cristo abbiamo la certezza che Dio è veramente come
Lui ce lo mostra. Noi possiamo credergli perché Lui conosce veramente Dio, perché ne è il
Figlio. Questo è fondamentale: per dare la fiducia a Cristo dobbiamo essere certi che la meriti veramente,
che egli sia veramente ‘degno di fede’, che egli rappresenti veramente Dio in pienezza.
Nella Lettera agli Ebrei leggiamo:
In verità Mosè fu degno di fede in tutta la sua casa come servitore, per rendere testimonianza
di ciò che doveva essere annunziato più tardi; Cristo, invece, lo fu come figlio costituito sopra
la sua propria casa. E la sua casa siamo noi se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci
vantiamo (Eb 3,5-6).
E ancora:
Affrettiamoci dunque ad entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza.
Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa
penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i
sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è
nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto (Eb 4,11-13).
Mosè fu degno di fiducia perché era il capo della casa del faraone, ma Cristo è degno di
fiducia perché non è un servo di Dio, ne è il Figlio, è Colui che lo conosce
veramente, che sta dentro il mondo di Dio e quindi ogni sua parola, ogni suo gesto è reale, è vero,
è esattamente così come deve essere, secondo la verità stessa di Dio.
E se furono punite le disobbedienze contro la Legge rivelata a Mosè, perché quella Legge era parola
degna di fede di Dio, quanto più ora bisogna fidarsi della parola viva, efficace, vivente che è
il Cristo stesso, perché egli è veramente meritevole di fede.
La Lettera aggiunge subito perché è necessario che il sommo sacerdote di cui abbiamo bisogno non
sia solo ‘degno di fede’, ma sia anche ‘misericordioso’. Cristo è il sommo
sacerdote non solo perché è l’unico veramente degno di fiducia, più ancora di
Mosè, ma anche perché è l’unico che ha la vera misericordia verso noi uomini,
essendosi fatto uno di noi:
Poiché abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio,
manteniamo ferma la professione della nostra fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia
compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi,
escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e
trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno (Eb 4,14-16).
Ed ancora:
Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne
causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote
alla maniera di Melchìsedek. (Eb 5,8-10)
Qui trovate una delle frasi più straordinarie della Lettera agli Ebrei, “Cristo, pur essendo
Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì”. Cristo ha imparato
l’obbedienza attraverso la sofferenza della vita umana e attraverso la croce. Questo non vuol dire che
Cristo non era Figlio prima. Ma, se egli era figlio di Dio a cosa è servita la sua storia terrena? Che
cos’è la croce e a che cosa è servita? È servita perché la sua carne, la sua
umanità ‘imparasse’ quella figliolanza che aveva da sempre; Cristo deve riempire della
divinità tutti i passaggi della vita umana, per cui la sua carne deve imparare ad obbedire a Dio, ad
amare Dio in ogni istante, cosicché tutta la storia umana sia riempita della presenza di Dio.
La croce è il momento culminante in cui Gesù riempie anche il momento della morte,
dell’odio, della cattiveria, della presenza di Dio. Ogni momento della storia di Gesù è
importante perché, tramite quei momenti, tutta la carne si impregna della sua vita divina. Cristo ha
vissuto tutta la storia umana perché nessun momento fosse privo della presenza divina. La fede afferma che
Cristo ha preso tutto dell’uomo, ma non ha preso il peccato, proprio perché il peccato, in
realtà, non fa parte dell’uomo, non ne è un elemento necessario.
L’uomo è uomo anche senza il peccato, anzi il peccato rende l’uomo meno uomo. Cristo
è l’uomo perfetto perché ha preso tutto tranne il peccato che è disumano,
anti-umano. Cristo, vivendo interamente la vita umana, imparando l’obbedienza, ora può essere
pienamente misericordioso, perché conosce profondamente questa vita che gli uomini, per i quali diviene
sommo sacerdote, debbono vivere.
Non solo l’autore dice queste due cose -che Cristo è degno di fede e che è misericordioso- ma
le mette in relazione. Chi è il sacerdote? Perché Cristo è il vero sacerdote e i sacerdoti
di Antonino Pio e Faustina non lo sono? E perché gli antichi sacerdoti ebrei prima del 70 non lo sono
stati in pienezza, non hanno potuto realizzare il compito di essere pienamente efficaci nel loro ministero?
Perché Cristo è l’unico che tiene insieme queste due cose: è veramente ‘degno
di fede’, è realmente addentro al mondo di Dio, è veramente affidabile, come Figlio, ma, al
contempo, ha veramente misericordia degli uomini, è veramente in una relazione di amore e di
misericordia con noi uomini.
Cristo è, insomma, il mediatore, colui che solo permette la vera comunione tra Dio e l’uomo.
Prima di Cristo non era stata possibile una reale unione di Dio con l’uomo. Dio e l’uomo erano
separati. Cristo, che è degno di fede rispetto a Dio, ma, misericordioso verso l’uomo, unisce Dio e
gli uomini tramite il suo sacerdozio, li mette insieme.
Qui possiamo comprendere un po’ di più la differenza fra il sacerdozio di Cristo e quello che si
svolgeva in questo Tempio. Pensate a come il cristianesimo si rendeva per la prima volta conto di cos’era
fallace anche nel culto pagano. I cristiani vedevano i pagani che venivano in templi come questo a chiedere a Dio
di concedere una grazia, venivano qui a portare degli animali in sacrificio, così come avveniva nel tempio
di Giove o di un’altra delle divinità pagane. Chiedevano di avere un figlio, la salute, la vittoria
in guerra. Ma era come se chiedessero senza realmente chiedere perché non chiedevano di amare Dio, di
essere in una comunione di amore con lui. E non potevano nemmeno chiedere a Dio di cambiare il loro cuore. Il
culto antico non era un culto di comunione con Dio, mentre il nuovo sacerdozio di Cristo permette a noi di
entrare in una comunione di amore con Dio, così che noi e Dio diveniamo una sola cosa.
La terza sezione della Lettera ha per tema “Cristo, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna”
(Eb 5, 9). Questa sezione affronta il punto centrale della Lettera agli Ebrei, come dice esplicitamente Eb
8, 1:
Il punto capitale delle cose che stiamo dicendo è questo: noi abbiamo un sommo sacerdote così
grande che si è assiso alla destra del trono della maestà nei cieli.
Come nelle altre sezioni, il tema viene enunciato alla fine della sezione che precede e poi sviluppato.
Questa sezione vuole far capire, da un lato, che il culto ebraico aveva l’intenzione di realizzare la
comunione fra Dio e gli uomini, ma non vi poteva riuscire, dall’altro vuole mostrare che solo Cristo
è il sacerdote perfetto che realizza questa comunione, perché ha offerto pienamente se stesso
una volta per sempre a Dio.
Qui possiamo vedere -anche se non è il tema specifico della Lettera che si occupa della differenza fra il
culto ebraico e quello cristiano- la differenza che c’è tra questi ed il culto pagano. Il culto
pagano consisteva nel cercare di ottenere da Dio delle cose, di ottenere il suo aiuto e la logica era quella che
più i sacrifici offerti erano grandi, più si riteneva fosse probabile ottenere il
soddisfacimento delle richieste. Non si chiedeva a Dio di entrare in una relazione di amore con lui, ma gli si
chiedeva una qualche cosa particolare.
Il culto ebraico, invece, era diverso: cercava di cambiare il cuore dell’uomo. L’uomo entrava
nel tempio per uscirne migliore, per vivere una comunione piena con Dio, ma questa, alla fine era sempre
impossibile perché in realtà il peccato continuava ad abitare sempre nel cuore dell’uomo.
Vediamo allora come la Lettera dimostra, in questa terza sezione, che l’antico culto non riusciva a
realizzare perfettamente il sacerdozio, per vedere poi come, invece, Cristo è il perfetto sacerdote.
Innanzitutto mostra come è la Legge stessa a dire che ci sarà un altro sacerdozio più
perfetto ed, implicitamente, afferma così che quello precedente è destinato a scomparire. Se la
perfezione, infatti, fosse stata possibile per mezzo di quel sacerdozio, dice la Lettera agli Ebrei, Dio non
avrebbe mai annunciato per mezzo dei suoi profeti che sarebbe arrivato un nuovo sacerdote, secondo il modello di
Melchìsedek.
Ebrei ricorda che nel libro della Genesi, nelle storie di Abramo, prima ancora che nasca la tribù di Levi
e con essa i sacerdoti, compare un personaggio, Melchìsedek, a cui Abramo dà la decima e che gli
dà i pani.
Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con
queste parole:
«Sia benedetto Abram dal Dio altissimo,
creatore del cielo e della terra,
e benedetto sia il Dio altissimo,
che ti ha messo in mano i tuoi nemici».
Abram gli diede la decima di tutto (Gen 14,18-20).
Questa figura diventa - già nell’Antico Testamento, ma l’autore della Lettera riprende con
forza questo argomento – il motivo dell’attesa di un nuovo tipo di sacerdozio, più perfetto
di quello levitico, che doveva ancora venire.
Se la perfezione fosse stata possibile per mezzo del sacerdozio levitico - sotto di esso il popolo ha ricevuto
la legge - che bisogno c'era che sorgesse un altro sacerdote alla maniera di Melchìsedek, e non invece
alla maniera di Aronne? (Eb 7,11).
La Lettera cita qui il salmo 110 (109), che annuncia che il re-messia sarà sacerdote secondo
l’ordine di Melchìsedek e non secondo quello di Aronne e dei figli di Levi:
Gli è resa infatti questa testimonianza:
Tu sei sacerdote in eterno alla maniera di Melchìsedek.
Si ha così l'abrogazione di un ordinamento precedente a causa della sua debolezza e inutilità -
la legge infatti non ha portato nulla alla perfezione - e si ha invece l'introduzione di una speranza migliore,
grazie alla quale ci avviciniamo a Dio (Eb 7,17-19).
“La legge infatti non ha portato nulla alla perfezione” dice la Lettera. È una
affermazione fortissima nella quale riecheggia ovviamente tutto il messaggio paolino. Paolo ha sempre affermato,
conformemente al vangelo di Gesù, che se vogliamo arrivare a Dio tramite la Legge, tramite le nostre opere
morali, non andremo, in realtà, molto lontano. L’essere perfetti non è un’opera che noi
possiamo compiere e per la quale possiamo poi presentarci a Dio per essere in comunione con Lui grazie a
ciò che abbiamo realizzato.
Fra l’altro, noi ci accorgiamo subito che non riusciamo, da soli, a realizzare tutti i propositi di bene
che ci prefissiamo. Ma il discorso va ancora al di là di questo: l’uomo non può essere
giustificato, non può arrivare alla comunione con Dio ed alla pienezza di se stesso, senza che la sua
grazia lo prevenga e lo accompagni.
La Lettera aggiunge a questo discorso paolino un ulteriore punto: il sacerdozio levitico appartiene alla
Legge e, quindi, proprio per questo non può portare alla perfezione.
Un secondo argomento con il quale la Lettera mostra che si era in attesa di un sacerdozio nuovo e veramente
perfetto è dato dal fatto il sacerdozio antico deve essere sempre ripetuto, proprio perché
non produce mai definitivamente la riconciliazione fra Dio e l’uomo.
Il sacerdozio antico non è perfetto proprio perché i sacerdoti debbono ogni volta di nuovo
entrare nel Tempio (ricordiamoci sempre che nel momento nel quale viene scritta la Lettera il Tempio era
ancora in funzione ed ancora i sacerdoti vi entravano per chiedere la comunione fra il popolo ebraico e Dio) ed
ogni anno nella festa dello Yom Kippur, debbono nuovamente chiedere il perdono dei peccati. Inoltre i sacerdoti
secondo la Legge debbono chiedere questo perdono non solo per il popolo, ma anche per se stessi;
perché i sacerdoti sanno di non essere mai pienamente in comunione con Dio, a motivo dei peccati che loro
stessi compiono.
I sacerdoti, insomma, istituiti secondo la Legge dell’AT, sono persone che peccano sempre di nuovo e
debbono chiedere sempre di nuovo a Dio di essere perdonati, perché non entrano mai in una comunione
perfetta e definitiva con Lui.
Il terzo argomento portato dalla Lettera agli Ebrei è una nuova ammissione dell’imperfezione
della Legge che si trova nell’AT.
Ebrei, citando Geremia, ricorda che dai profeti era stato annunziato che l’antica alleanza sarebbe stata
superata da una nuova alleanza. Il popolo ebraico ha sempre saputo che la sua alleanza era passeggera ed era
sempre stato in attesa della nuova. Se questa alleanza deve passare, deve passare anche il suo sacerdozio,
perché se ne costituisca uno nuovo e più perfetto.
Il nuovo sacerdozio, quello perfetto, è il sacerdozio di questa nuova alleanza: Cristo è colui
che inaugura la nuova alleanza. La Lettera agli Ebrei è uno dei testi che tratta di più, in
maniera esplicita, della nuova alleanza. L’autore della Lettera afferma che il momento di questa nuova
alleanza è arrivato e che essa si è realizzata in Cristo. Ciò che era impossibile tramite la
prima alleanza, diviene ora possibile nella nuova.
Il testo, a questo punto, entra nella pars costruens di questa sezione e spiega che cosa ha
fatto Cristo e perché solo lui è il sacerdote perfetto, che viene per grazia e non dalla Legge. In
che cosa consiste questa novità di Cristo? Dov’è la perfezione del sacerdozio di Cristo?
È il capitolo 9 della Lettera a spiegarlo.
I sacerdoti dell’antica alleanza, entrando nel Tempio, non offrivano se stessi; offrivano doni e
sacrifici “ che non possono rendere perfetto, nella sua coscienza, l’offerente” (Eb 9, 9). Il
cuore dei sacerdoti e degli uomini che offrivano i doni tramite loro restava quello che era e così la loro
coscienza.
Qual è la novità del sacerdozio di Cristo, il sacerdozio della nuova alleanza? Cristo offre se
stesso. Cristo non porta alcun animale, alcun dono, per offrirlo in sacrificio, ma offre come vittima perfetta la
sua stessa vita. Cristo prende la sua vita ed entra nel vero santuario, divenendo la vera offerta gradita a
Dio.
Il velo che non si poteva superare –era concesso solo ai sacerdoti- era immagine, dice la Lettera,
del fatto che in realtà non era ancora possibile la vera comunione con Dio, ma si restava fuori da essa,
anche se ci si avvicinava ad essa.
Cristo è allora Colui che esercita il sacerdozio al cui centro c’è il cuore. Che cosa
è gradito a Dio? La vita ed il cuore di Cristo che vengono offerti:
Se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca sparsi su quelli che sono contaminati li
santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno,
offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire
il Dio vivente? (Eb 9, 13-14).
Dinanzi a Dio conta l’offerta della vita; potremmo dire con altre parole che ciò che conta
è l’amore con il quale Cristo ha donato la sua vita. È questo che la lettera intende
quando dice che Cristo “offrì se stesso”. Ed è, appunto, ciò che l’uomo
non poteva fare pienamente, perché l’uomo ha sì un cuore pieno di cose belle, che vorrebbe
offrirsi nell’amore, ma, al contempo, lo ha pieno anche di cose inadatte a Dio. Solo il Cristo poteva
offrire pienamente la sua vita a Dio. Cristo è stato questa offerta perché tutto della sua vita
è stato offerto a Dio, nell’amore. Dio ha accolto tutto della vita di Cristo, fino alla croce, come
offerta; non c’è stato niente della sua vita di cui il Padre si dovesse ‘vergognare’,
che dovesse rifiutare.
Ed è per questo che l’offerta di Cristo è fatta una volta per tutte e non può essere
ripetuta come quella degli antichi sacerdoti che era sempre imperfetta, era sempre commista con il peccato, con
il male, doveva essere ripetuta ogni volta. Cristo ha offerto “un solo sacrificio per i peccati una
volta per sempre” (Eb 10, 12), proprio perché la sua offerta è perfetta.
Ma la Lettera non si arresta a parlare del sacrificio perfetto di Cristo; infatti, se esso è veramente
efficace deve avere delle conseguenze nella vita dei cristiani. Perché il sacrificio di Cristo
rende ora diverso il culto dei cristiani? L’autore di Ebrei risponde che ora tutti possono passare
attraverso il velo che mette in comunicazione con Dio, perché quel velo che prima impediva di accedere al
santuario, ora invece è stato trasformato per permettere a tutti di accedervi; quel ‘velo’
non è più la separazione fra la realtà profana ed il santuario, ma è la carne di
Cristo:
Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù,
per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne;
avendo noi un sacerdote grande sopra la
casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva
coscienza e il corpo lavato con acqua pura (Eb 10,19-22).
Anche l’uomo, se accoglie l’unica perfetta offerta di Cristo, può unire l’offerta
della sua vita e del suo cuore, a quella del Cristo. Anche per l’uomo il sacrificio più grande,
l’offerta gradita a Dio, il culto nuovo, consiste in un cuore che ama e che obbedisce a Dio. Questo
è l’essenza del sacerdozio: l’offerta della vita unita alla vita del Cristo.
Per questo gli edifici di culto cristiani sono fatti, a differenza dei templi, in modo che i credenti vi
possano stare all’interno. Perché noi cristiani non dobbiamo più restare fuori? Vedete
che ora occupiamo la cella che un tempo era riservata alla divinità ed ai sacerdoti ed, invece, noi vi
stiamo all’interno. E questo non perché noi siamo migliori degli ebrei o dei pagani, ma
perché Cristo ci ha invitati a partecipare della sua offerta, quella sì completamente santa.
L’antico Tempio di Gerusalemme era segnato da una sequenza progressiva di luoghi interdetti a coloro che
non erano in una purità che gli concedeva di avvicinarsi: c’era il cortile dei pagani, ma essi
non potevano varcare la soglia del cortile degli ebrei, c’era il cortile delle donne ebree, ma esse non
potevano varcare la soglia del cortile degli ebrei maschi, c’era il cortile degli ebrei, ma essi non
potevano entrare nella zona riservata ai sacerdoti, c’era il Santo dei Santi che non era accessibile
nemmeno ai sacerdoti, ma solamente al sommo sacerdote e solamente una volta l’anno nella festa dello Yom
Kippur.
Ora, invece, la Lettera agli Ebrei dice di accostarsi tutti all’offerta di Cristo e di offrire
insieme alla sua la nostra vita.
La quarta sezione è incentrata sulla fede. Viene preparata dall’annuncio in Eb 10, 38:
“ Il mio giusto vivrà mediante la fede”.
Questa quarta sezione spiega ulteriormente come l’uomo partecipa all’offerta di Cristo: ciò
che è gradito a Dio è la fede, ma la fede, per essere tale, ha bisogno proprio di Cristo, ha
bisogno di credere in Lui.
Il capitolo undicesimo mostra come tutti coloro che si sono avvicinati a Dio nell’AT hanno potuto farlo
solo “per fede”, perché hanno creduto. Solo la fede è gradita a Dio. Eppure, dice
l’autore, tutti costoro – Abele, Enoch, Noè, Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe, Giuseppe,
Mosè, Raab, ecc. - hanno creduto, ma non sono arrivati alla pienezza della fede, perché la fede
nella sua misura più piena è cominciata con Cristo.
Solo Cristo è veramente “degno di fede” e per questo è lui “l’autore e
perfezionatore della fede” (Eb 12, 2). Solo perché egli è veramente l’unico degno
di fede, ha potuto mostrarci cosa voglia dire credere in Dio, perché noi possiamo offrirgli la nostra
vita, nella fede.
La quinta sezione è un’esplicitazione parenetica, morale, di come si debba vivere la fede, di
cosa la fede comporti. Il tema viene annunziato nel versetto 12, 13 “Raddrizzate le vie storte” e
viene poi spiegato, come per le altre sezioni.
Leggiamo solo alcuni versetti esemplificativi, che ci aiutano a capire come sia concreto l’autore
nell’indicarci la via della fede:
Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo.
Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che soffrono, essendo anche voi in
un corpo mortale. Il matrimonio sia rispettato da tutti e il talamo sia senza macchia. I fornicatori e gli
adùlteri saranno giudicati da Dio. La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che
avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò (Eb 13,2-5).
Questa vita nel bene si deve, però, sempre nutrire dell’eucarestia, cioè deve unirsi
continuamente all’offerta viva di Cristo, per essere possibile. Il nuovo culto consiste infatti
nell’unione con Cristo:
Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l'esito
del loro tenore di vita, imitatene la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! Non
lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine, perché è bene che il cuore venga rinsaldato
dalla grazia, non da cibi che non hanno mai recato giovamento a coloro che ne usarono. Noi abbiamo un altare del
quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono al servizio del Tabernacolo (Eb 13,7-10).
Proviamo ora a rileggere alcuni temi che la Lettera ci ha presentato per comprendere come possono illuminare
il tempo che viviamo.
Queste riflessioni sono debitrici dei testi dell’allora cardinal Ratzinger che trovate nell’antologia
dei testi che vi è stata distribuita (N.B. e che è disponibile in fondo a questo testo
on-line).
Innanzitutto proviamo a domandarci: cosa significa nel cristianesimo che l’unico vero sacrificio gradito
a Dio è la croce di Cristo? Come lo spieghereste voi per farlo comprendere a qualcuno che vi
domandasse cosa significa che un evento obbrobrioso e doloroso è gradito a Dio, se Dio, invece, è
l’amante della vita e della gioia?
Possiamo rispondere innanzitutto, che nel cristianesimo il sacrificio non è innanzitutto qualcosa che
l’uomo fa per Dio, ma è un dono di Dio all’uomo; c’è un vero e proprio
capovolgimento epocale. Nel mondo pagano il sacrificio era qualcosa che l’uomo faceva per richiamare
l’attenzione degli dèi che erano lontani dal suo mondo; fare dei doni serviva a far sì che
gli dèi si accorgessero dell’uomo e dei suoi problemi.
Succede lo stesso, a volte, nei rapporti umani; a volte sembra che la logica dell’agire corrisponda ad un
pensiero del tipo “Io faccio talmente tante cose per te che tu non puoi non accorgerti di me”!
La dinamica del sacrificio antico era questa: “Più io ti offro un dono grande, Dio, più tu
sei obbligato ad amarmi”. Pensate a chi arrivava ad immolare un figlio alla divinità. Se io arrivo a
sacrificare per te addirittura mio figlio, tu non potrai non concedermi quello che ti chiedo.
La prima grande novità cristiana riguardo al culto è che il sacrificio non è un qualcosa che
dall’uomo sale a Dio, ma, piuttosto, da Dio scende come un dono per l’uomo. È Dio che dice:
“Vi offro il mio unico Figlio”. È Dio che dice: “Il vero culto non è ciò
che l’uomo fa per me, ma è l’offerta che il Figlio fa di se stesso per l’uomo; è
questo il sacrificio gradito a Dio”. Per questo il culto cristiano non potrà che essere
ringraziamento, eucarestia.
Celebrare l’eucarestia vuol dire accettare di ricevere in dono da Dio il suo Figlio. Il cibo
dell’eucarestia non siamo noi ad offrirlo; piuttosto noi ci nutriamo nella messa di un cibo che viene da
Dio. Non siamo noi che diamo da mangiare a Dio, come nei culti antichi, ma è Dio che dà a noi il
nutrimento nella liturgia. Ma questo nutrimento, questo cibo che Dio ci dà, non è una cosa, un
oggetto, e nemmeno una qualsiasi creatura vivente, uno dei tanti animali senza difetti che erano offerti: ci
viene offerto il Figlio di Dio. È il Figlio che offre se stesso ed, in lui, è Dio che ci dona di
entrare in comunione con lui. È un sacrificio perfetto perché Dio dona se stesso, perché ci
dona realmente questo Figlio perché noi possiamo averlo nella nostra vita.
La seconda caratteristica del culto cristiano è indissolubile dalla prima. Abbiamo fin qui detto
che la prima caratteristica nuova è che l’offerta non sale dall’uomo a Dio, ma viene donata da
Dio all’uomo. Dobbiamo, però, domandarci: cosa piace a Dio di questo Figlio che si offre, morendo
sulla croce?
Sarebbe un ricadere nel culto antico se si prendesse l’abbaglio di dire che ciò che a Dio piace
è di vedere morire il Figlio. Dobbiamo capire qual è l’essenza della croce, per poter
rispondere perché piace a Dio. Piace a Dio l’enorme sofferenza di Cristo? Ne uscirebbe
l’immagine di un Dio sadico che viene placato dalla vista della sofferenza del Figlio. Come se il
vedere soffrire Cristo gli procurasse finalmente la pace, il piacere. Sarebbe una visione orribile di Dio, un Dio
che è placato dal dolore dell’altro, dal dolore del Figlio.
La Lettera agli Ebrei ci fa capire che ciò che Dio ama in questo dono del Figlio è che questo
Figlio si offra, si offra nell’amore. È il cuore di questo Figlio che è gradito a Dio.
È l’amore di questo Figlio che fa gioire il Padre, che piace al Padre. Il Figlio riempie di
amore il sacrificio della croce, perché la croce è un’offerta di amore; Gesù prende su
di sé il male del mondo per amore del Padre e per amore nostro.
Quello che interessa a Dio della croce, non è il dolore del Figlio, allora, ma è l’amore con
cui il Figlio ama. Certo che c’entra anche la sofferenza, perché l’amore di Cristo non si
arresta neanche dinanzi ad essa, ma il ‘cuore’ della croce, la sua ‘essenza’ non è
la sofferenza, ma l’amore!
Ecco perché il Padre può dire: “Questi è veramente il mio Figlio diletto, nel quale mi
sono compiaciuto”. È veramente il suo Figlio prediletto, è veramente colui che ama nel suo
nome. Dio sa che questo suo Figlio ha amato fino alla fine.
Questa è la seconda caratteristica del nuovo culto cristiano, dell’offerta di Gesù sulla
croce; a Dio viene offerto l’amore del Figlio.
Vedete come questo subito fa capire anche qual è il culto dei cristiani: noi sappiamo che il vero culto
gradito a Dio si compie quando anche tutta la nostra vita cerca di essere un dono d’amore a Dio e agli
uomini. In questo consiste ciò che il Concilio Vaticano II chiama il “sacerdozio comune dei
fedeli”. Quando si offre veramente la propria vita a Dio, viene celebrata la liturgia della vita, il culto
spirituale: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il
vostro culto spirituale” (Rm 12, 1). Il vero culto – afferma san Paolo - non sta nell’entrare
in un tempio, ma avviene fuori, dove ferve la vita, nel matrimonio, nella laicità, nel sacerdozio, nella
politica, nei rapporti con i poveri, nel vivere tutto questo considerando la propria vita come un’offerta.
Il nuovo culto consiste in una vita che è stata trasformata dall’interno perché
offerta a Dio ed essendo offerta a Dio diventa un dono per gli uomini.
Ma a questo punto si pone una domanda importante: se il nuovo culto è l’offerta della nostra vita a
Dio nell’amore, perché il cristianesimo non abolisce il sacerdozio? Perché se solo
Cristo è il vero sacerdote, la Lettera agli Ebrei continua poi a fare allusione alla liturgia (che
è ora la liturgia eucaristica, diversa dall’antico Tabernacolo che era il Santo dei santi)?
Noi abbiamo un altare del quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono al servizio del
Tabernacolo (Eb 13,10).
Perché non basta dire “offriamo la nostra vita”, ma ci sono ancora dei sacerdoti dentro la
nuova alleanza? Perché la nuova alleanza ha dei sacerdoti? Perché esistono i sacramenti e ci
viene chiesto di riceverli?
Perché il sacerdozio ministeriale e tutti i sacramenti sono l’espressione che questo offrire noi
stessi non è una cosa che possiamo fare da soli. Solo il dono ricevuto da Cristo, ci rende capaci di
offrire realmente la vita.
Se l’uomo non entra in comunione con Cristo, non accoglie il suo amore, non riuscirà mai ad offrire
la vita come lui ha fatto. La offrirai, ma poi te la riprenderai, la offrirai ma poi diventerai irascibile, ma
poi non saprai perdonare, ma poi ti scoraggerai, ecc. ecc. Soprattutto, se tutto dipendesse dalla nostra
opera, non avverrebbe mai quel ricevere il dono dell’amore da Dio stesso, dal suo Figlio.
Ecco allora chi è il sacerdote cristiano, il sacerdote ordinato con il sacramento del ministero: egli
non è colui che torna a fare qualcosa per Dio come i sacerdoti antichi, semplicemente in un modo
diverso. No, egli è colui che fa qualcosa che non potrebbe fare; egli offre l’eucarestia,
perché non è lui stesso ad offrirla, ma è Cristo che la offre tramite di lui.
Più volte Benedetto XVI è tornato a ripetere un versetto di Galati che dice: “Non sono
più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”: “io-non più io”. Il
sacerdote cristiano è colui che dice: “Io-non più io”, “Sono io che celebro
l’eucarestia, ma la celebro solo perché il Cristo risorto e vivente continua ad offrire se stesso
nel cibo eucaristico”.
Quando il sacerdote, durante la celebrazione, dice: “Questo è il mio corpo offerto per voi”,
afferma una cosa che in realtà, apparentemente, è assurda. Perché nessun uomo potrebbe dare
ad un altro il corpo di Cristo; ma, nell’eucarestia, Cristo stesso celebra nella persona del sacerdote
–si dice in persona Christi- e rende quel sacerdote capace di darti ciò che non
potrebbe darti: Cristo stesso. Il sacerdote quindi fa una cosa che non sarebbe possibile fare e dando Cristo
ricorda agli altri che la loro vita può essere offerta a Dio solo perché ricevono il Cristo che
viene loro donato.
Mi ha fatto riflettere questa riflessione dell’allora cardinal Ratzinger che così diceva in un suo
scritto:
Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare
del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede
senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere
come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e
trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene
vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che,
d'altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.
C’è stato un periodo recente nel quale era diventato un po’ un luogo comune questa
contrapposizione fra “religione” e “fede” che era stata utilizzata per la prima volta
da questo grande teologo protestante del secolo scorso. Questa sua contrapposizione fra “religione” e
“fede” veniva letta, senza troppa attenzione critica, come se quello che contasse fosse solamente il
personale rapporto con Dio, mentre non servisse a niente tutto ciò che è la liturgia, i sacramenti,
la celebrazione pubblica, con i suoi tempi, i suoi riti, ecc. ecc.
In questo caso si è ri-letta, potremmo dire, la Lettera agli Ebrei affermando una cosa vera – e
cioè che l’offerta gradita a Dio è quella del cuore - ma assolutizzando questa affermazione.
Se ne deduceva scioccamente, da parte di alcuni, che siccome a Dio interessa il cuore, allora tutto il resto
è vuoto, è inutile, dimenticando che questo cuore può essere reso nuovo solamente
tramite l’opera sacramentale.
La “religione” nella chiave di lettura barthiana era identificata sic et simpliciter con la
liturgia, i sacramenti, ecc. e tutto questo era rifiutato, perché esterno, oppure accettato solo
perché purificato dall’intenzione dell’uomo. Per divenire credenti, bastava solo la
“fede”, anzi essa, per essere vera, doveva essere purificata dalla “religione”, doveva
eliminare gli aspetti “religiosi” passandoli al setaccio come scorie. La “fede” doveva
essere personale e basta!
Benedetto XVI, nel grandissimo equilibrio che caratterizza il suo magistero, afferma che questa distinzione
barthiana ha una sua parte di verità. La “fede” deve sempre essere purificata perché la
vecchia idea di culto può sempre rientrare nella vita. Una persona può trattare Cristo come se
fosse un “idolo”, può compiere delle “buone azioni” con la segreta richiesta di
avere qualcosa in cambio. La “fede” deve sempre tornare ad essere trasparenza della presenza di
Cristo e non opera dell’uomo.
Ma proprio per questo la “fede” è sempre anche “religione”. Essa passa
attraverso i sacramenti e, prima ancora, tramite la chiesa – ne abbiamo parlato nello scorso incontro sulla
tradizione - che è una realtà comunitaria e perciò pubblica, non solamente personale. Dio
ha voluto che la chiesa fosse sacramentale e non puramente interiore perché ogni uomo sapesse che la
grazia della fede passa attraverso l’opera di Cristo e della chiesa nella quale egli vive; la grazia
della chiesa è sacramentale.
Una “fede” senza “religione” sarebbe, in realtà, una fede cerebrale,
intellettuale, che non passerebbe più per la vita liturgica e sacramentale. Tutta la necessità
dei segni, delle parole, del rito, che sono costitutivi di una vera antropologia, che sono un bisogno innato
dell’uomo, riacquistano così il loro posto. L’uomo, nella celebrazione
“oggettiva”, della quale non dispone a suo piacimento, ma che accoglie da Cristo stesso e dalla sua
chiesa, riceve la vera offerta dell’amore di Cristo nell’eucarestia e riceve la forza di
rendere anche la propria vita un’offerta gradita a Dio.
Cosa cambia nella struttura architettonica dell’edificio di culto, rispetto agli antichi templi, se il dono
viene da Dio e non dall’uomo e se questo dono è l’amore di Cristo stesso? Innanzitutto
l’edificio liturgico non guarda più verso Gerusalemme, ma verso oriente.
“Orientazione”, a livello etimologico, vuol dire guardare “verso oriente”:
l’oriente, il luogo del sole che sorge, rappresenta Cristo stesso che viene a noi. Tutti si levano per
attendere il sorgere di Cristo e del suo amore.
Secondo cambiamento caratteristico dell’edificio cristiano: non ci sono più sacrifici di animali,
ma sull’altare si tornerà sempre di nuovo ad offrire l’unico vero sacrificio che è
Cristo stesso, nell’eucarestia. La distruzione dell’altare del Tempio di Gerusalemme non è
più un dramma per noi cristiani, perché Cristo lo aveva già svuotato di significato.
Quell’altare era solo l’immagine, nell’antica alleanza, del vero altare che è la croce
sulla quale si offre l’amore di Cristo. I credenti si raduneranno intorno all’altare eucaristico dove
viene sempre di nuovo donato il Cristo e l’uomo lo riceverà; in ogni celebrazione domenicale
l’uomo riceverà nuovamente la presenza di Cristo.
Il terzo elemento di novità è che, mentre nel Tempio, c’era l’Arca della Torah,
con l’Antico Testamento ora nella liturgia cristiana si leggerà anche il Nuovo Testamento.
Alla Legge antica sarà aggiunta la nuova alleanza che spiega il significato dell’antica.
Ultimo elemento di novità: negli edifici di culto cristiani entreranno tutti, compresi i pagani,
comprese le donne. Nessuno è inadatto ad entrare in una chiesa. Tutti quanti gli uomini sono
egualmente degni, perché Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi ed il Figlio ha offerto il suo
corpo per tutti.
Abbiamo detto che siamo in un tempio pagano collocato su un alto podio, al quale si accedeva da una scala
monumentale della quale oggi vediamo solo la base di mattoni, poiché tutto il rivestimento è stato
asportato. La parte principale di un tempio pagano era appunto la cella nella quale era custodito il simulacro
della divinità.
Ma molto importante era anche l’altare; in questo caso non potevano costruirlo davanti al tempio,
come avveniva abitualmente, perché dinanzi a questo tempio c’era la via sacra che non poteva essere
ostruita. L’altare è stato così costruito sulla scala monumentale.
Gli altari erano importantissimi per la religione antica; a Roma ne abbiamo, per esempio, uno molto grande che
è l’Ara Pacis, ma ne venivano eretti di dimensioni molto minori. Prima di costruire i templi i
Romani già costruivano gli altari, proprio perché l’altare era il luogo nel quale si
poteva offrire qualcosa agli dèi, come si è detto. Anche dell’altare di questo tempio
è rimasta solo la base e non il suo rivestimento.
Ai lati della scala c’erano dei parapetti con delle statue, probabilmente di Faustina ed Antonino.
Si sono conservate alcune monete romane sulle quali è raffigurata la facciata di questo tempio ed è
così più facile ricostruirne l’insieme.
Dobbiamo renderci conto che la gente accedeva a questo tempio dalla sua facciata, mentre noi siamo abituati a
vedere questa chiesa dal lato dell’abside. Come già si diceva, via dei Fori imperiali è
stata aperta da Mussolini ed è, quindi, abbastanza recente. Prima di questo intervento urbanistico chi si
doveva recare da S.Giovanni al Vaticano doveva passare in mezzo ai Fori, nel famoso Campo vaccino. Nel tempo
tutto si era ricoperto di terra ed i resti di epoca romana emergevano qua e là; sappiamo che il grande
prato si allagava con le piogge e venivano portate le mucche al pascolo (da qui la denominazione di Campo
vaccino).
Noi vediamo ora il colonnato di questo tempio in stile corinzio, con una bella trabeazione scolpita della
quale ancora si possono vedere alcuni particolari. Dall’esterno si vede che le colonne hanno dei profondi
solchi. Di solito le guide spiegano che questi solchi sono dovuti al tentativo di demolire le colonne usando
delle corde. Gli studiosi nono sono assolutamente d’accordo con questa ipotesi.
All’esterno è stata posizionata sulla scala principale una statua, probabilmente di Faustina,
che doveva essere una copia della statua colossale che era dentro il tempio.
La storia dei templi, una volta che finì il periodo delle persecuzioni, è una storia molto
complessa ed è segnata da una serie di editti. In realtà non fu Costantino, come si crede, ma
furono i suoi figli a cominciare la lotta contro il paganesimo. Con Costante, imperatore d’occidente, e suo
fratello Costanzo, cominciarono gli editti che vietavano il culto degli idoli e chiudevano i templi. Questi
editti vanno dal 341 al 356.
Ci fu poi la reazione di Giuliano, detto l’apostata, che revocò queste condanne e riprese a favorire
il paganesimo. Con il suo successore Gioviano si ritiene che siano stati confiscati i beni dei templi a favore
del “patrimonio” dell’imperatore, nel 364, ma la cosa è discussa.
Seguirono alcuni imperatori cristiani, ma di tendenza ariana che non si preoccuparono delle leggi antipagane, ma
presero a perseguitare i cristiani cattolici, fedeli al credo di Nicea.
Tutto cambia con l’editto di Tessalonica del 380 quando Teodosio passò definitivamente dalla
libertà di culto instaurata da Costantino alla religione di stato.
Seguirono dal 381 al 425 sedici leggi (emanate da Teodosio I, da Arcadio, da Onorio e da Teodosio II) che non
solo prescrivevano la chiusura dei templi, ma vietavano il paganesimo.
Le misure punitive prevedevano quantitativi di oro per chi avesse violato la legge. Riguardo ai templi si
susseguirono editti e, soprattutto, prassi diverse; si andava dalla chiusura, alla richiesta di demolizione
dei templi nelle campagne, all’apertura, ma solo per fini civili e non religiosi, alla loro protezione non
tanto in quanto edifici di culto, ma in quanto opere di valore architettonico, in quanto opere d’arte e
custodia di opere d’arte (nei templi venivano spesso portati i bottini di guerra).
In Roma la distruzione dei templi, come di tutti gli altri edifici romani indipendentemente dalla loro funzione
originaria - pensate solo alle Terme di Caracalla o a quelle di Costantino al Quirinale che non esistono
più – non fu determinato dalle leggi sulla chiusura dei templi, ma da un insieme di vicende che
purtroppo hanno segnato la città di Roma.
Le cause che hanno provocato questa distruzione sono diverse. Innanzitutto le orde barbariche. Dal 410 in
poi, Roma è stata assediata, invasa, saccheggiata più volte. Questi eserciti arrivavano e andavano
a cercare oggetti da saccheggiare spesso nei templi, nelle chiese e nelle case dei patrizi. Oltre agli assedi e
ai saccheggi, altra causa di distruzione sono stati i terremoti.
Ma, soprattutto, con il decadere dell’impero e la partenza definitiva dell’imperatore per
Costantinopoli, la città diminuì di abitanti in maniera impressionante. C’è chi
ritiene che gli abitanti dell’urbe ai tempi di Gregorio Magno fossero un decimo di quelli della Roma
augustea. Insomma, Roma rimase spopolata e interi quartieri della città non furono più abitati.
È da considerare poi l’incuria: quando non ci fu più il prefetto della città,
né il responsabile dei templi, né quello degli acquedotti, gli edifici restarono in balia delle
condizioni climatiche, del crescere della vegetazione, ecc. In realtà Roma non fu mai abbandonata a se
stessa, ma sempre rimase in piedi l’amministrazione civile, legata ora a Costantinopoli, che aveva il papa
come garante, ma la penuria dei mezzi non permettevano di avere cura della totalità dei monumenti come
nell’antichità.
Infine gli edifici abbandonati divennero spesso cave di materiale. Nel Medio Evo, ma anche
nell’epoca moderna, quando si aveva intenzione di costruire qualcosa si prendevano i materiali che
c’erano, piuttosto che farli arrivare da fuori. Tanto marmo è stato usato per fare la calce; vicino
Largo Argentina c’erano grandi fornaci dove statue ed elementi di marmo venivano sbriciolati e trasformati
in calce. Tanti intonaci dei palazzi e delle chiese di Roma sono stati realizzati con la calce così
ricavata.
Si sono salvati soltanto i templi che sono stati trasformati in chiese. Il riutilizzo dei templi in chiese
fu evitato all’inizio dalla comunità cristiana, almeno fino al VI secolo. I cristiani provavano un
profondo disagio nell’andare a pregare in templi pagani. Abbiamo delle testimonianze in questo senso.
In tante città importanti la cattedrale è costruita dentro templi pagani, a Sora per esempio o a
Siracusa, dove si vedono ancora le colonne. Fuori Roma è stato più facile, ma a Roma si è
fatta grande fatica a riutilizzare questi spazi, considerati infestati dagli spiriti maligni della religione
pagana.
Solo quando il ricordo della vecchia religione a lungo avversata cominciò a svanire, le chiese
cominciarono ad essere inserite nei templi. Il primo tempio passato dall’utilizzo pagano a quello
cristiano di cui abbiamo testimonianza certa è stato il Pantheon, che nel 608 è stato donato
dall’imperatore Foca al Papa. Esiste anche una descrizione leggendaria della consacrazione del
Pantheon.
Già al VI secolo sembra risalire la trasformazione del tempio di Portunus nella chiesa di S.Maria
Egiziaca, sul lungotevere, vicino Santa Maria in Cosmedin. Adesso è stata ripristinata l’antica
struttura, ma questo è stato possibile perché il tempio si è salvato per il fatto di essere
stato trasformato in chiesa e, quindi, nel medioevo e nell’età moderna nessuno ha potuto
riutilizzarne le pietre per la costruzione di nuovi edifici.
Nel 1132 il tempio rotondo di Ercole, vicino a quello di Portunus, sul lungotevere fu trasformato in chiesa,
dedicata a S.Stefano delle Carrozze e, successivamente, a Santa Maria del Sole.
Questi templi ovviamente nel corso dei secoli sono stati più volte modificati per essere adattati alle
esigenze del culto cristiano, però grazie a questo riutilizzo si sono conservati e noi ancora oggi
possiamo vederli. Gli altri hanno subito una serie di spoliazioni; tutti i materiali utili sono stati asportati,
in particolare i metalli, che erano preziosi. Porte, iscrizioni, staffe, statue, venivano distrutti per
riutilizzare il metallo. È rarissimo trovare una porta antica in bronzo. Il Pantheon
originariamente aveva delle tegole di bronzo, ma l’imperatore Costante II le fece asportare durante
l’ultima visita di un imperatore a Roma, nel 663, per fondere il bronzo ed utilizzarlo con altri scopi.
Ancora Urbano VIII fece asportare molti rivestimenti bronzei superstiti ed il metallo così ottenuto
fu utilizzato per la costruzione del baldacchino del Bernini a S.Pietro. Per commentare questa e altre
spoliazioni avvenute a danno di edifici romani, il popolo coniò la frase: "Quod non fecerunt Barbari,
fecerunt Barberini".
All’interno della chiesa di S.Lorenzo in Miranda, merita uno sguardo attento la pala d’altare:
è opera di Pietro da Cortona e raffigura il martirio di S.Lorenzo. Pietro da Cortona lo dipinse nella
sua maturità, fra il 1655 ed il 1656.
Pietro da Cortona, Il martirio di San Lorenzo |
Nella prima cappella a sinistra, partendo dall’antico ingresso, è custodito un dipinto del
Domenichino, purtroppo molto rovinato da un restauro sbagliato: la Madonna con i SS.Filippo e Giacomo, del
1625.
Passando all’esterno, possiamo vedere dalla terrazza la basilica Aemilia; è interessante
soffermarsi oggi, perché vi fa capire, da un lato, come la basilica cristiana abbia ripreso la struttura
di quella pagana, ma, al contempo, come l’abbia modificata in un punto molto significativo.
La basilica pagana era una grande stanza di riunione, di rappresentanza, adibita ad incontri, ad affari, ecc. e
non aveva una direzione; aveva le absidi sui lati lunghi. La basilica cristiana ha la stessa struttura
absidata, ma con un orientamento modificato; la basilica viene verticalizzata, in modo che tutti abbiano di
fronte l’abside, che rappresenta l’oriente, Cristo. Tutti hanno lo stesso orientamento, in una
basilica cristiana, perché si va tutti verso Cristo.
Dall’altro lato della chiesa di S.Lorenzo è possibile vedere la parte posteriore della chiesa dei
SS.Cosma e Damiano, ma anche in questo caso, l’ingresso originario era dalla Via Sacra. L’attuale
tragitto di Via dei Fori Imperiali, perché un piccolo colle, la Velia, si interponeva dinanzi al Colosseo.
Dalla Via Sacra si accedeva ai SS.Cosma e Damiano attraverso un tempio circolare, del quale non si sa con
certezza l’identificazione. Potrebbe essere stato il tempio di Romolo, il figlio di Massenzio, il nemico
di Costantino. La bellissima porta in bronzo del tempio, sulla Via Sacra è ancora quella originale; da
essa, però, non si può per ora entrare nella chiesa, perché la Sovraintendenza ha bloccato
l’accesso, nonostante le ripetute proteste dei padri che custodiscono la basilica. Entrando nella
basilica dei SS.Cosma e Damiano vi accorgerete che essa è come “schiacciata”;
utilizzando le murature precedenti in origine era più alta ed il suo piano di calpestio era al livello
della Via Sacra, ma è stata successivamente divisa in due livelli, poiché nel frattempo si era
innalzato il livello dei Fori, come abbiamo già visto per la chiesa di S.Lorenzo in Miranda.
Abbiamo già detto, nella visita all’Ara Coeli, che la Via Sacra era la via per la quale passavano
tutte le processioni e tutti i trionfi. Quando l’esercito vinceva una guerra, al ritorno dalla campagna
vittoriosa, un lunghissimo corteo - che iniziava con i buoi destinati ad essere sacrificati e continuava con i
soldati, con gli addetti che trasportavano gli oggetti del bottino di guerra, con i prigionieri di guerra ed
i capi nemici catturati, e si concludeva con il vincitore cinto da alloro - sfilava per la Via Sacra, passava
sotto gli archi di trionfo e arrivava al Campidoglio dove venivano offerti sacrifici agli dèi nel tempio
di Giove Capitolino, dove era venerata la Triade Capitolina, per ringraziare della vittoria ottenuta.
I romani presero ad edificare templi alla triade capitolina in ogni luogo delle loro conquiste e proprio il
desiderio di Adriano di erigere un tale tempio a Gerusalemme suscitò le ire dei giudei, perché
gli abitanti rifiutarono l’idea di un tempio pagano a Gerusalemme; si scatenò così la seconda
guerra giudaica e si giunse alla successiva espulsione degli ebrei dalla loro capitale,.
Con l’arco di Tito torniamo, invece, ai tempi della I guerra giudaica. L’arco è detto
di Tito, ma fu, in realtà, fatto erigere dal fratello Domiziano in onore del suo predecessore. Entrambi
erano figli di Vespasiano. Sotto questo arco Tito non è mai passato, ma è stato costruito alla sua
morte per celebrare la sua gloria.
L’iscrizione è ancora leggibile dal lato dal quale il corteo trionfale attraversava l’arco,
percorrendo la Via Sacra verso il Campidoglio. L’iscrizione recita:
"SENATUS POPULUS QUE ROMANUS DIVO TITO DIVI VESPASIANI F VESPASIANO AUGUSTO"
cioè:
Il senato ed il popolo di Roma al divino Tito, figlio del divino Vespasiano, Vespasiano Augusto.
È un modo propagandistico di parlare, perché in realtà non è stato il senato o il
popolo a prendere la decisone, ma tutto si deve alla volontà di Domiziano.
I punti scuri che si vedono ancora oggi nelle lettere che compongono l’iscrizione sono i fori nei quali
erano fissate le lettere in bronzo. Come prima ha spiegato d.Marco tutti gli oggetti in metallo furono asportati
nel tempo per essere fusi e riutilizzati.
La I guerra giudaica che viene qui celebrata fu iniziata da Vespasiano, che era allora un generale di Nerone -
Nerone morì nel 68, mentre la guerra iniziò nel 66 con la rivolta degli zeloti. Mentre Vespasiano
combatteva, Nerone morì e Vespasiano fu acclamato imperatore dalle truppe. Dovette, allora, recarsi a
Roma, per assumere il potere e lasciò il figlio Tito a continuare la guerra. Tito vinse la guerra,
prendendo Gerusalemme ed espugnando, infine, anche Masada. Morto il padre, nel 79 divenne poi imperatore.
Alla sua morte, solo due anni dopo, nell’81, divenne imperatore suo fratello Domiziano. Sotto Domiziano,
secondo la tradizione, avvenne la persecuzione durante la quale si colloca l’Apocalisse. con questo arco,
appunto, Domiziano volle celebrare il fratello appena morto.
Le raffigurazioni più famose dell’arco sono sotto il fornice. In quella di sinistra, secondo il
verso di ingresso per la celebrazione dei Trionfi, si vede raffigurato l’esercito romano che passa sotto
l’arco trionfale. Il rilievo è scolpito in maniera prospettica, come se fosse un rotolo che
gira, per dare una maggiore impressione di veridicità. L’arco è, quindi, rappresentato
leggermente di traverso. I soldati romani portano dei cartelli sui quali erano scritte, come nei fumetti, le
didascalie nelle quali si raccontavano gli eventi importanti della guerra vinta o le città
conquistate.
Altri soldati inneggiano con le trombe, altri ancora portano in trionfo gli oggetti razziati dal Tempio di
Gerusalemme. Fra gli oggetti del bottino di guerra si vede chiaramente la menorah, il candelabro a sette
bracci - la menorah non è un oggetto particolare di culto, ma così erano realizzati i candelabri in
oro presenti nel Tempio di Gerusalemme.
Pannello dell'arco di Tito con la tavola per il "pane della proposizione" ed il candelabro a sette braccia |
Sotto la menorah si vede un oggetto che viene identificato, ma la cosa è discussa, con la tavola per la
presentazione dei pani nel Tempio. Tutto fu portato via dal Tempio, prima di darlo alle fiamme, e da quel
momento in poi cessarono i sacrifici nel Tempio ed il giudaismo visse un culto ormai solo sinagogale, senza
più la parte sacrificale che avveniva solo nel Tempio.
È ridicolo come ci sia ancora oggi qualche ignorante che si mette alla ricerca dell’Arca
dell’Alleanza; si tratta di sciocchezze, perché già dalla distruzione del cosiddetto
“primo Tempio” di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi nel 587, fu razziato tutto e non rimase nulla.
Già ai tempi della distruzione del “secondo Tempio” nell’anno 70 questi oggetti
quindi, qualsiasi cosa si pensi degli eventi dell’Esodo, non esistevano più.
I romani distrussero quello che è noto come il secondo Tempio che fu, appunto, la ricostruzione del
primo Tempio scomparso nell’anno 597. Dopo la distruzione del primo Tempio i profeti del post-esilio,
Esdra, Neemia, ecc. chiesero, a nome di Dio, che il Tempio fosse ricostruito, dopo la distruzione del secondo
questo non è avvenuto.
Il cosiddetto “Muro del pianto”, che gli ebrei chiamano in realtà “Muro
occidentale” (in ebraico 'Hakotel Hama'aravi) è il muro occidentale di fondazione di questo
secondo Tempio, con gli abbellimenti monumentali voluti da Erode il Grande.
Prese il nome tradizionale di “Muro del pianto” perché gli ebrei si recavano a piangere,
dinanzi a queste mura di fondazione, il fatto che oramai il Tempio non c’era più e non era
più possibile offrire a Dio i sacrifici che la Legge prescriveva. Dio aveva, in qualche modo, cessato
di abitare in mezzo al popolo nel suo Tempio.
La lettura cristiana dell’evento vedrà nella distruzione del Tempio non solo un fatto storico
dovuto ad una guerra cruenta, ma anche un evento provvidenziale che confermava che il vero sacrificio gradito a
Dio era ormai solo la croce di Cristo. Come abbiamo visto, per noi cristiani offrire degli animali in sacrificio
non avrebbe alcun senso. Alcuni rabbini discutono anche oggi sulla questione della ricostruzione di un III Tempio
e sull’ipotesi che Dio potrebbe tornare a chiedere i sacrifici che erano prescritti per gli ebrei prima
dell’anno 70.
L’ebraismo si è, comunque, trasformato, proprio a motivo degli eventi della I guerra giudaica, in
una religione sinagogale che ha cessato i sacrifici ed ha incentrato il suo culto nella lettura della Torah,
della Sacra Scrittura. Le sinagoghe esistevano anche prima del 70, ma solo da quell’anno quello sinagogale
divenne il culto ufficiale.
Nel pannello sul lato destro, si vede il trionfo dell’imperatore. L’imperatore è sulla
quadriga e segue il corteo con i prigionieri e le armi. Il corteo che abbiamo visto sull’altro pannello
precedeva l’imperatore. Il trionfo era un momento di festa nell’urbe, perché Roma aveva
sconfitto un altro nemico; durava giorni interi. I prigionieri più importanti arrivavano al carcere
Mamertino e venivano o imprigionati o uccisi.
Pannello con il trionfo di Tito |
Alle spalle dell’imperatore vediamo la Vittoria alata che lo incorona con l’alloro. In origine
la parola imperator voleva dire semplicemente “colui che porta l’alloro”, cioè
“colui che ha vinto”. Spesso tutti i soldati, qui lo vedete raffigurato, avevano l’alloro in
testa: era il segno della vittoria.
Si vedono anche due figure che sono chiaramente simboliche, una nuda che rappresenta il popolo tutto,
l’intera urbs di Roma che ha vinto, l’altra, vestita, che rappresenta il Senato (le due figure
esprimono simbolicamente l’espressione proverbiale Senatus populusque romanus, il Senato e il popolo
romano, abbreviata in SPQR).
Se guardate nella volta dell’arco, si vede l’imperatore Tito che viene portato in cielo da
un’aquila. È un’immagine dell’apoteosi, della divinizzazione; la religione pagana
promossa dagli imperatori voleva che alcuni uomini ed, in particolare, gli imperatori, potessero ascendere al
cielo e diventare dei.
Nel fornice, l'apoteosi di Tito, portato in cielo da un'aquila (cioè divinizzato) |
La fede cristiana, al contrario, è discendente: è il Figlio di Dio che si incarna. Noi crediamo
non nella divinizzazione dell’uomo, ma nell’umanizzazione di Dio! Dio, che è infinito, si
fa piccolo, si fa uomo. Qui vediamo il contrario, l’imperatore che ha vinto la guerra viene portato in
alto.
Se torniamo dal lato dell’iscrizione, potete veder in alto, sulla cornice, che anche qui il corteo
è riprodotto. Si vedono qui, in particolare, gli animali destinati al sacrificio ed una piccola
portantina, detta ferculum, sulla quale viene portato un simulacro (potrebbe essere la
rappresentazione del fiume Giordano, ma questo non è certo).
Iscrizione dedicatoria dell'arco con il piccolo fregio della processione, le Vittorie, Honos e Virtus |
Un ultimo dato interessante per la nostra lezione di storia del cristianesimo è che con i beni
sottratti durante la I guerra giudaica fu costruito il Colosseo. Esso è detto, infatti, anche
Anfiteatro Flavio, proprio perché fu eretto, a partire da Vespasiano, dagli imperatori della dinastia
Flavia. Fu un gesto di propaganda elettorale, perché Vespasiano decise di erigerlo abbattendo la
Domus Aurea, cioè la principesca dimora che Nerone si era costruito occupando il centro della città
che era andato in fiamme con il famoso incendio dell’anno 64. Vespasiano, costruendo proprio in quel luogo
il Colosseo, restituì alla popolazione ciò che Nerone le aveva tolto.
Che i soldi per l’erezione dell’Anfiteatro provengano dai beni razziati nella guerra giudaica
risulta con certezza da una lapide che è stata recentemente studiata in profondità. Questa
lapide fu ritrovata nel 1813 ed è ora collocata all’interno del Colosseo, al primo piano.
Su di essa si legge ora un’iscrizione dell’epoca di Teodosio, ma su di essa si vedono dei fori
come quelli che vediamo sull’arco, dai quali alcuni studiosi, in particolare Géza Alföldy,
hanno ricostruito una precedente scritta bronzea che recitava:
I[mp(erator)] Cæs(ar) Vespasi[anus Aug(ustus)] / amphitheatru[m novum?] / [ex] manubis [fieri iussit
(?)]
Cioè:
L’imperatore Cesare Vespasiano Augusto fece erigere il nuovo anfiteatro con il provento del
bottino.
Il “bottino” è qui, chiaramente, quello della I guerra giudaica.
Il Colosseo venne poi inaugurato da Tito, nell’anno 80, con cento giorni consecutivi di giochi.
Quando gli imperatori cominciarono a combattere il paganesimo ed a chiudere i templi, contemporaneamente
cominciarono a lottare anche contro i giochi gladiatori che erano un tutt’uno con la religione romana.
Il cristianesimo entrò progressivamente nella cultura pagana – la lotta per l’abolizione
dei giochi gladiatori fu lunghissima – rifiutando che potesse esistere uno spettacolo nel quale ci si
radunava per vedere degli uomini morire, in lotta fra di loro o contro le belve. La corrida è
l’ultima variante, molto edulcorata, ma reale, degli antichi giochi gladiatori.
- in Giuseppe Flavio 7 tentativi di rivolta contro i romani (di questi 3 sono raccontati anche in At: Giuda il
Galileo che fonda i sicari, Teuda e un “egiziano” che si proclamano profeti-messia)
- 66-73/4 d.C.: I guerra giudaica (il procuratore Gessio Floro, insultato, nel 66 fece saccheggiare parte della
città e crocifisse molti “moderati”; gli zeloti prevalsero sui moderati, uccisero il sommo
sacerdote Anania e assalirono il Palazzo di Erode massacrando la guarnigione romana che si era arresa con la
promessa di aver salva la vita; Vespasiano nel 69 fu acclamato imperatore e Tito, suo figlio e generale, prese
nel 70 Gerusalemme, incendiandola con il Tempio, ed espugnò nel 73 o 74 Masada)
- 70 d.C.: caduta di Gerusalemme e distruzione del Tempio
- 132-135 d.C.: II guerra giudaica (Adriano decide nel 130 d.C. di innalzare un Tempio a Giove Capitolino in
Gerusalemme, per renderla città romana; il capo della rivolta è Simone, che rabbi Aqiba
chiamerà Bar Kokhba, cioè “figlio della stella”, in riferimento a Nm24, 17, “una
stella sorgerà da Giacobbe”; Adriano guidò la repressione e chiamò Gerusalemme Aelia
Capitolina e la Giudea Palestina)
- con Adriano (117-138), il Rescritto a Minucio Fundano (in calce alla I Apologia di Giustino): è
dell’accusatore e non dell’accusato l’onere della prova
- Antonino Pio (138-161): “Non innovare nulla contro i cristiani”
- martirio di papa Telesforo, processi a Tolomeo e Lucio (II apologia di Giustino)
- nel 141 Rescritto a Pacato su coloro che “introducevano nuove sette e religioni sconosciute alla
ragione” (magia ed astrologia, certamente; anche il cristianesimo?)
- nel 155 martirio di Policarpo di Smirne che è esplicitamente ricercato (contro le norme di Traiano e
Adriano)
- nel 157 Rescritto contro il koinon d’Asia (testo discusso) che rimprovera di provocare tumulti
contro gli accusati di ateismo, di perdere la testa di fronte ai terremoti e di esercitare la ricerca
d’ufficio dei cristiani
cfr. Umberto Neri su www.gliscritti.it
Esodo: costruzione della Dimora di Dio: Es33, 15 Se tu non camminerai con noi, non farci venire qui!
Davide: tu fai una casa a me?
Salomone: la tua presenza che i cieli dei cieli non possono contenere...
Distruzione del primo Tempio (587 a.C.)
Cristo: distruggete questo Tempio ed io o ricostruirò i tre giorno – parlava del Tempio del suo
corpo
- Vi salutano quelli dell’Italia (quelli dall’Italia), Eb 13,24
- molto probabilmente poco prima del 70 d.C.
- autore di scuola paolina (?), Luca, Barnaba, Clemente Romano, Apollo
- un’omelia, scritta a cristiani
- contesto liturgico
- tema: il sacerdozio di Cristo e la nostra fiducia, perché abbiamo in lui un mediatore, una via
nuova e vivente, il sacerdote perfetto
Esordio: Dio ci ha parlato (Eb1,1-4)
I Situazione di Cristo (Eb1,5-2,18)
II Cristo, sommo sacerdote degno di fiducia e misericordioso (Eb 3,1-5,10)
III Cristo, sommo sacerdote perfetto (Eb 5,11-10,39)
IV La fede e la pazienza (Eb 11,1-12,13)
V Cercate la pace e la santità (Eb12,14-13,19)
Augurio finale (Eb13,20-21)
Biglietto d’invio (Eb 13,22-25)
Esordio
1 1Dio, che aveva gia parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri
per mezzo dei profeti, ultimamente, 2in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha
costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. 3Questo
Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto
con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla
destra della maestà nell'alto dei cieli, 4ed è diventato tanto superiore agli angeli
quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
- non molti cristianesimi, ma un solo cristianesimo
I Situazione di Cristo
- Cristo superiore agli angeli perché Figlio
1 5Infatti a quale degli angeli Dio ha mai detto:
Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato?
E ancora:
Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio?
6E di nuovo, quando introduce il primogenito nel mondo, dice:
Lo adorino tutti gli angeli di Dio.
gli angeli, ritenuti i normali mediatori
qui gli angeli servitori di Cristo!
- Cristo superiore agli angeli perché fatto uomo
attraversa la sofferenza: Dio non solo ci da un compagno nella miseria, ma ci da uno che ci strappa dalla
miseria
2 13Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato.
14Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli ne è divenuto
partecipe, per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il
diavolo, 15e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù
per tutta la vita.
attraverso il modo in cui l’ha subita, ne fa uno strumento di salvezza
II Cristo, sommo sacerdote degno di fiducia e misericordioso (Eb 3,1-5,10)
-le due realtà insieme!
- Cristo sommo sacerdote perché degno di fede
3 5In verità Mosè fu degno di fede in tutta la sua casa come servitore, per
rendere testimonianza di ciò che doveva essere annunziato più tardi; 6Cristo, invece, lo
fu come figlio costituito sopra la sua propria casa. E la sua casa siamo noi
4 11Affrettiamoci dunque ad entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di
disobbedienza.
12Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio
taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e
scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. 13Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a
lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto.
- Cristo sommo sacerdote perché misericordioso
4 14Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù,
Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede. 15Infatti non abbiamo un sommo
sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa,
a somiglianza di noi, escluso il peccato. 16Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della
grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno.
5 1Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose
che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati...
8pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì
9e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono,
10essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchìsedek.
III Cristo, sommo sacerdote perfetto (Eb 5,11-10,39)
5 11Su questo argomento abbiamo molte cose da dire, difficili da spiegare perché siete
diventati lenti a capire. 12Infatti, voi che dovreste essere ormai maestri per ragioni di tempo,
avete di nuovo bisogno che qualcuno v'insegni i primi elementi degli oracoli di Dio e siete diventati bisognosi
di latte e non di cibo solido. 13Ora, chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina
della giustizia, perché è ancora un bambino. 14Il nutrimento solido invece è per
gli uomini fatti, quelli che hanno le facoltà esercitate a distinguere il buono dal cattivo.
6 1Perciò, lasciando da parte l'insegnamento iniziale su Cristo, passiamo a ciò che
è più completo, senza gettare di nuovo le fondamenta della rinunzia alle opere morte e della
fede in Dio, 2della dottrina dei battesimi, dell'imposizione delle mani, della risurrezione dei morti
e del giudizio eterno. 3Questo noi intendiamo fare, se Dio lo permette.
6 19[Nella] speranza infatti noi abbiamo come un'àncora della nostra vita, sicura e salda, la
quale penetra fin nell'interno del velo del santuario, 20dove Gesù è entrato per noi
come precursore, essendo divenuto sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchìsedek.
- III.1: un sommo sacerdote di genere diverso
7 11 Se la perfezione fosse stata possibile per mezzo del sacerdozio levitico - sotto di esso
il popolo ha ricevuto la legge - che bisogno c'era che sorgesse un altro sacerdote alla maniera di
Melchìsedek, e non invece alla maniera di Aronne?
17Gli è resa infatti questa testimonianza:
Tu sei sacerdote in eterno alla maniera di Melchìsedek.
18Si ha così l'abrogazione di un ordinamento precedente a causa della sua debolezza e
inutilità - 19la legge infatti non ha portato nulla alla perfezione - e si ha invece
l'introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale ci avviciniamo a Dio.
- qui non solo la continuità, ma soprattutto la discontinuità con l’AT
- III.2: un’offerta sacrificale ben differente
8 1Il punto capitale delle cose che stiamo dicendo è questo: noi abbiamo un sommo sacerdote
così grande che si è assiso alla destra del trono della maestà nei cieli,
2ministro del santuario e della vera tenda che il Signore, e non un uomo, ha costruito.
8 6Ora invece Gesù ha ottenuto un ministero tanto più eccellente quanto migliore
è l'alleanza di cui è mediatore, essendo questa fondata su migliori promesse. 7Se
la prima infatti fosse stata perfetta, non sarebbe stato il caso di stabilirne un'altra. 8Dio
infatti, biasimando il suo popolo, dice:
Ecco vengono giorni, dice il Signore,
quando io stipulerò con la casa d'Israele
e con la casa di Giuda
un'alleanza nuova;
9non come l'alleanza che feci con i loro padri,
nel giorno in cui li presi per mano
per farli uscire dalla terra d'Egitto;
poiché essi non son rimasti fedeli alla mia alleanza,
anch'io non ebbi più cura di loro, dice il Signore.
10E questa è l'alleanza che io stipulerò con la casa
d'Israele
dopo quei giorni, dice il Signore:
porrò le mie leggi nella loro mente
e le imprimerò nei loro cuori;
sarò il loro Dio
ed essi saranno il mio popolo.
11Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino,
né alcuno il proprio fratello, dicendo:
Conosci il Signore!
Tutti infatti mi conosceranno,
dal più piccolo al più grande di loro.
12Perché io perdonerò le loro iniquità
e non mi ricorderò più dei loro peccati.
13Dicendo però alleanza nuova, Dio ha dichiarato antiquata la prima; ora, ciò che
diventa antico e invecchia, è prossimo a sparire.
9 1Certo, anche la prima alleanza aveva norme per il culto e un santuario terreno. 2Fu
costruita infatti una Tenda: la prima, nella quale vi erano il candelabro, la tavola e i pani dell'offerta:
essa veniva chiamata il Santo. 3Dietro il secondo velo poi c'era una Tenda, detta Santo dei
Santi, con 4l'altare d'oro per i profumi e l'arca dell'alleanza tutta ricoperta d'oro, nella quale
si trovavano un'urna d'oro contenente la manna, la verga di Aronne che aveva fiorito e le tavole dell'alleanza.
5E sopra l'arca stavano i cherubini della gloria, che facevano ombra al luogo dell'espiazione. Di
tutte queste cose non è necessario ora parlare nei particolari.
6Disposte in tal modo le cose, nella prima Tenda entrano sempre i sacerdoti per celebrarvi il
culto; 7nella seconda invece solamente il sommo sacerdote, una volta all'anno, e non senza
portarvi del sangue, che egli offre per se stesso e per i peccati involontari del popolo.
9Essa infatti è una figura per il tempo attuale, offrendosi sotto di essa doni e sacrifici
che non possono rendere perfetto, nella sua coscienza, l'offerente, 10trattandosi solo di cibi,
di bevande e di varie abluzioni, tutte prescrizioni umane, valide fino al tempo in cui sarebbero state
riformate.
9 11Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più
grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione,
12non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per
sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna...
14quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso
senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalla opere morte, per servire il Dio vivente?
15Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza, perché, essendo ormai intervenuta
la sua morte per la redenzione delle colpe commesse...
24Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma
nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, 25e non per offrire
se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui.
26In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. Ora
invece una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il
sacrificio di se stesso.
- III.3: un’offerta perfettamente efficace
10 1Avendo infatti la legge solo un'ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose,
non ha il potere di condurre alla perfezione, per mezzo di quei sacrifici che si offrono continuamente di anno in
anno, coloro che si accostano a Dio. 2Altrimenti non si sarebbe forse cessato di offrirli, dal momento
che i fedeli, purificati una volta per tutte, non avrebbero ormai più alcuna coscienza dei peccati?
3Invece per mezzo di quei sacrifici si rinnova di anno in anno il ricordo dei peccati,
4poiché è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri.
5Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice:
Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
6Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
7Allora ho detto: Ecco, io vengo
- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro -
per fare, o Dio, la tua volontà.
10 19Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del
sangue di Gesù, 20per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il
velo, cioè la sua carne; 21avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio
IV La fede e la pazienza (Eb 11,1-12,13)
11 1La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si
vedono...
39Eppure, tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non
conseguirono la promessa: 40Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi, perché essi
non ottenessero la perfezione senza di noi.
12 1Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò
che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti,
2tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede.
12 7E' per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio
che non è corretto dal padre? 8Se siete senza correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro
parte, siete bastardi, non figli! 9Del resto, noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri secondo
la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti,
per avere la vita? 10Costoro infatti ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece
lo fa per il nostro bene, allo scopo di renderci partecipi della sua santità. 11Certo, ogni
correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e
di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati.
V Cercate la pace e la santità (Eb12,14-13,19)
12 14Cercate la pace con tutti e la santificazione, senza la quale nessuno vedrà mai il
Signore, 15vigilando che nessuno venga meno alla grazia di Dio.
13 1Perseverate nell'amore fraterno. 2Non dimenticate l'ospitalità; alcuni,
praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo. 3Ricordatevi dei carcerati, come se
foste loro compagni di carcere, e di quelli che soffrono, essendo anche voi in un corpo mortale. 4Il
matrimonio sia rispettato da tutti e il talamo sia senza macchia. I fornicatori e gli adùlteri
saranno giudicati da Dio.
5La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che avete, perché Dio
stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò.
13 7Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando
attentamente l'esito del loro tenore di vita, imitatene la fede. 8Gesù Cristo è lo
stesso ieri, oggi e sempre! 9Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine, perché
è bene che il cuore venga rinsaldato dalla grazia, non da cibi che non hanno mai recato giovamento a
coloro che ne usarono. 10Noi abbiamo un altare del quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli
che sono al servizio del Tabernacolo.
Il sacrificio della croce: perché è gradito a Dio?
La Lettera agli Ebrei, che mette in rapporto la morte di Gesù in croce col rito e con la teologia della
festa ebraica dell'espiazione, presentandocela come l'autentica festa della riconciliazione cosmica. La linea di
pensiero sviluppata in questa lettera si potrebbe sintetizzare press'a poco così: ogni vittima offerta
dalla umanità, ogni tentativo da essa intrapreso per propiziarsi Iddio tramite il culto rituale, di cui il
mondo rigurgita, dovevano per forza restare pura e semplice opera umana priva di mordente, perché Iddio
non cerca vitelli e capri o qualsiasi altra cosa gli venga offerta per via rituale. Si possono presentare a
Dio, in ogni parte del mondo, intere ecatombi di animali; egli però non ne ha affatto bisogno,
perché tutto gli appartiene lo stesso e quindi al Signore dell'universo non si dà un bel nulla,
anche quando si brucia tutto ciò in suo onore: «Non ti sottraggo di casa il giovenco, né
i capretti dagli ovili tuoi. Ché mia è ogni fiera della selva, gli animali sui monti a mille a
mille. Mi è noto ogni volatile nell'alto, ciò che vive nei campi è in mia mano. Se
avrò fame, a te non verrò a dirlo, ché mio è l'orbe e ciò che esso contiene.
Mangio io forse la carne dei tori, ovvero bevo il sangue dei capretti? Offri a Dio la tua lode in
sacrificio...» - così dice un'esortazione di Dio contenuta nell'Antico Testamento (Sal50[49],9-14).
L'autore della Lettera agli Ebrei si pone proprio sulla linea spirituale di questo e di altri testi affini.
Con decisione ancor più energica egli ribadisce l'inutilità del conato rituale. Dio non cerca
vitelli e capri, bensì l'uomo; il libero assenso dell'amore è l'unico elemento che Dio deve
attendersi, l'adorazione e il ‘sacrificio’ che soli siano suscettibili di avere un senso. L'assenso
dato a Dio, con cui in pratica l'uomo si ridona al Signore, non si potrà mai sostituire e surrogare col
sangue dei giovenchi e degli arieti. «E che cosa mai potrà dare l'uomo, quale prezzo, per il
riscatto della sua anima» (Mc. 8,37)? La risposta non può suonare che così: egli non è
in grado di dare proprio nulla che sia atto a controbilanciare la sua carenza.
Siccome però tutto il culto pre-cristiano poggia sull'idea della sostituzione, della rappresentanza,
tentando di sostituire l'insostituibile, esso doveva per forza rimanere un conato inutile e vano. Alla luce della
fede in Cristo, la Lettera agli Ebrei può osar tirare questo fallimentare bilancio della storia della
religione, anche se solo il presentarlo, in un mondo saturo di offerte sacrificali, doveva apparire un crimine
mostruoso. Essa ha il coraggio di affermare senza riserve questo completo fallimento delle religioni,
perché sa come in Cristo l’idea della sostituzione, della supplenza, abbia acquisito un senso
integralmente nuovo. Egli, che agli effetti della religione legale era un laico, non rivestiva alcun ufficio nel
servizio cultuale d’Israele – dice il testo - era invece l’unico vero sacerdote del mondo.
La sua morte che, vista sotto l’aspetto puramente interno alla storia, rappresentò un evento
meramente profano – l’esecuzione capitale d’un uomo condannato come delinquente politico - fu
invece l’unico atto liturgico della storia universale. Il suo supplizio è stato una liturgia
cosmica, tramite la quale Gesù, non in quel settore limitato dell’azione liturgica che era il
tempio, bensì al cospetto dell’intero mondo, attraversando l’atrio della morte è
penetrato nell’autentico tempio, ossia alla presenza di Dio stesso, e per sacrificargli non delle cose,
sangue di animali od altro, bensì addirittura se stesso (Ebr9,11 ss.).
Facciamo ben attenzione a questa fondamentale conversione di rotta, che costituisce il pensiero centrale della
Lettera: ciò che visto con occhi terreni si presentava come un avvenimento meramente profano, è in
realtà il vero culto dell’umanità, perché colui che ne fu il protagonista
sbrecciò la staccionata chiusa della cerimonia liturgica, trasformando quest’ultima in una genuina
realtà: donando e sacrificando se stesso. Egli strappò di mano agli uomini le offerte sacrificali,
sostituendovi la sua personalità, il suo stesso ‘io’ donato in olocausto. Se tuttavia nel
nostro testo si afferma ancora che Gesù ha operato la redenzione col suo sangue (Ebr 9,12), questo sangue
non va inteso come un dono materiale, come un mezzo espiativo da misurarsi quantitativamente, bensì come
la pura concretizzazione di quell’amore che ci vien additato come spinto sino all’estremo (Gv 13,1).
Esso è l’espressione della totalità della sua dedizione e del suo servizio, l’implicita
asserzione del fatto che egli offre né più né meno che se stesso. Il gesto dell’amore
che tutto dona: questo e soltanto questo ha costituito, secondo la Lettera agli Ebrei, l’autentica
redenzione del mondo; per cui, l’ora della croce rappresenta il giorno della redenzione cosmica, la
vera e definitiva festa della Riconciliazione. Non esiste altro culto né altro Sacerdote all’infuori
di quello che lo ha compiuto: Gesù Cristo.
Stando così le cose, l’essenza del culto cristiano non sta nell’offerta di cose, e nemmeno in
una certa qual loro distruzione, come dal secolo XVI in poi si può leggere sempre più
insistentemente scritto nei trattati teorici concernenti il sacrificio della messa, ove si afferma che proprio in
questo modo bisogna riconoscere la suprema autorità di Dio sull’universo. Tutti gli sforzi fatti dal
pensiero in questo senso sono ormai stati decisamente superati dall’avvento di Cristo, e
dall’interpretazione che ce ne dà la Bibbia. Il culto cristiano si concretizza
nell’assoluta dedizione dell’amore, quale poteva estrinsecarsi unicamente in colui, nel quale
l’amore stesso di Dio si era fatto amore umano; e si esplica nella nuova forma di funzione vicaria inclusa
in quest’amore: nel fatto che egli s’è incaricato di rappresentarci e noi ci lasciamo
impersonare da lui. Esso comporta pure che noi ci decidiamo una buona volta ad accantonare i nostri conati di
auto-giustificazione [...]
Nel contemplare la croce, l’importante non sia il porre l’accento su una somma di sofferenze
fisiche, quasi che il suo valore redentivo stesse nella più forte aliquota possibile di tormenti. Come
potrebbe Iddio provare gioia per le pene sofferte da una sua creatura, o addirittura dal suo stesso Figlio,
oppure – semmai fosse possibile – vedere in esse addirittura la valuta con la quale va da lui
comprata la redenzione? La Bibbia e la fede cristiana rettamente intesa sono ben lontane dal nutrire
un’idea del genere. Non è il dolore in quanto tale che conta, bensì la vastità
dell’amore, che dilata l’esistenza al punto da riunire il lontano col vicino, da ricollegare
l’uomo abbandonato dal Signore con Dio. Soltanto l’amore dà un senso e un indirizzo al dolore.
Se così non fosse, i veri sacerdoti dinnanzi a all’ara della croce sarebbero stati i carnefici:
proprio essi infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero stati i ministri che hanno immolato la vittima
sacrificale. Siccome invece l’accento non cadeva sulla sofferenza, bensì sull’intimo centro
propulsore che la regge e la sostanzia, essi non hanno affatto rivestito questa funzione; il vero e autentico
Sacerdote è stato Gesù, che ha riunito nell’abbraccio del suo amore i due capi tranciati del
mondo (Ef 2,13s.).
(da J.Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1979, pagg.227-238)
I Templi pagani e l’edificio liturgico
nell’ebraismo e nel cristianesimo
Anche i più decisi avversari della sacralità - nel caso specifico del luogo sacro - ammettono
che la comunità cristiana ha bisogno di un luogo dove riunirsi e definiscono a partire da qui la funzione
dell'edificio chiesa in senso non sacrale, ma rigorosamente funzionale: esso rende possibile l'incontro
liturgico. Questa è indiscutibilmente una funzione essenziale dell'edificio chiesa, grazie alla quale esso
differisce dalla forma classica del tempio nella maggior parte delle religioni. Il rito di espiazione nel Santo
dei Santi dell'antica Alleanza è celebrato solamente dal sommo sacerdote; nessuno al di fuori di lui
può accedervi e lui stesso può farlo solo una volta all'anno. Similmente, anche i templi di tutte
le altre religioni non sono di solito luoghi di riunione degli oranti, ma spazi cultuali riservati alla
divinità. Il fatto che l'edificio cristiano venga ben presto denominato domus
ecclesiae (casa della «Chiesa», dell'assemblea del popolo di Dio) e che poi il termine
ecclesia (assemblea, chiesa) venga usato per definire in forma abbreviata non solo la
comunità vivente ma anche la casa che la ospita, manifesta un'altra concezione: il «culto» lo
celebra Cristo stesso nel suo stare davanti al Padre, è Lui il culto dei suoi nel momento in cui essi si
radunano con Lui e intorno a Lui. Questa differenza essenziale tra lo spazio della liturgia cristiana e i
«templi» non può tuttavia essere spinta sino a una falsa contrapposizione, in cui viene
interrotta la continuità interna della storia religiosa dell'umanità, che non appare mai annullata
nell'Antico come nel Nuovo Testamento, malgrado tutte le differenze esistenti.
Rispetto alla forma... della sinagoga, dall'essenza della fede cristiana derivano tre innovazioni che
costituiscono il tratto propriamente nuovo e specifico della liturgia cristiana.
In primo luogo non si guarda più a Gerusalemme, il tempio distrutto non è più
considerato il luogo della presenza terrena di Dio. Il tempio di pietra non esprime più la speranza dei
cristiani; il suo velo è squarciato per sempre. Ora si guarda a oriente, al sole che sorge. Non si
tratta di un culto solare, ma è il cosmo che parla di Cristo. In riferimento a Lui viene ora
interpretato l’inno solare del salmo 19 (18), dove si dice: «egli [il sole] è come uno sposo
che esce dal suo talamo [ ...]. Dall'estremità dei cieli è la sua levata, ai loro confini è
il suo ritorno» (vv. 6s). Questo salmo passa direttamente dalla celebrazione della creazione alla lode
della legge. Ciò viene ora inteso a partire da Cristo, che è la vera parola, il Logos eterno
e, dunque, la vera luce della storia, che è sorto a Betlemme dalla camera nuziale della Vergine Madre e
che ora illumina il mondo intero. L’oriente sostituisce come simbolo il tempio di Gerusalemme, Cristo
– rappresentato nel sole – è il luogo della Shekhinà, il vero trono del Dio
vivente; nell’incarnazione la natura umana è divenuta veramente il trono di Dio, che è
così legato per sempre alla terra e accessibile alla nostra preghiera. La preghiera verso oriente fu
considerata nella Chiesa antica una tradizione apostolica. Benché non si possa datare con certezza
l'inizio di questo cambiamento di orientamento, dalla direzione del tempio all'oriente, è comunque certo
che esso risale a un'epoca remotissima e che è sempre stato considerato un tratto caratteristico della
liturgia cristiana (anche nella preghiera privata). A questo «orientamento»
(oriens=est, oriente; orientamento significa quindi «indirizzare verso est») della
preghiera cristiana sono associati diversi significati. Orientamento è anzitutto semplice espressione
dello sguardo rivolto a Cristo come luogo di incontro tra Dio e l'uomo. Esso esprime la forma cristologica
fondamentale della nostra preghiera. Il fatto però che si veda Cristo simboleggiato nel sole che sorge
rinvia anche a una cristologia escatologicamente determinata. Il sole simboleggia il Signore che tornerà,
l'ultima alba della storia. Pregare rivolti a oriente significa andare incontro a Cristo che viene. La
liturgia rivolta a oriente opera, allo stesso tempo, l'ingresso nel corso della storia che muove verso il suo
futuro, verso il nuovo cielo e la nuova terra che in Cristo ci vengono incontro. Essa è preghiera
della speranza, è il pregare camminando nella direzione che ci indicano la vita di Cristo, la sua passione
e la sua resurrezione. Proprio per questo, ben presto, in diverse parti della cristianità la direzione
dell'oriente venne indicata dalla croce. Lo si può desumere anche da un parallelo tra Ap1,7 e Mt24,30.
Nell'Apocalisse di Giovanni si legge: «Ecco: viene tra le nubi; tutti gli uomini lo contempleranno, anche
quelli che l'hanno trafitto; e si batteranno per lui il petto tutte le tribù della terra. Sì,
amen!». L'autore dell'Apocalisse si richiama qui a Gv19,37, dove, alla fine della scena della
crocifissione, viene citato il misterioso detto profetico di Zc12,10: «Guarderanno a colui che hanno
trafitto», che ora acquista d'un tratto un significato concreto. Infine, in Mt24,30 vengono riportate
queste parole del Signore: «Allora [alla fine dei giorni] apparirà nel cielo il segno del Figlio
dell'uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra [Zc 12,10] e vedranno il Figlio
dell'uomo venire sulle nubi del cielo [Dn 7,13] con grande potenza e splendore». Il segno del Figlio
dell'uomo, di Colui che è stato trafitto, è la croce, che diviene ora il segno della vittoria del
Risorto. In tal modo il simbolismo della croce e quello dell'oriente si intrecciano; ambedue sono espressione
della stessa e unica fede, in cui la memoria della Pasqua di Gesù si fa presenza e le conferisce la
dinamica della speranza che va incontro a Colui che viene. Infine, questo volgersi a oriente significa anche che
il cosmo e la storia della salvezza sono tra loro collegati. Il cosmo entra in questa preghiera, anch'esso
attende la liberazione. Proprio questa dimensione cosmica è un elemento essenziale della liturgia
cristiana. Essa non si compie mai solo nel mondo che l'uomo si è fatto da sé. Essa è sempre
liturgia cosmica - il tema della creazione è parte integrante della preghiera cristiana. Essa perde la sua
grandezza se dimentica questo stretto rapporto...
La seconda novità rispetto alla sinagoga consiste nel fatto che compare un elemento completamente
nuovo, che nella sinagoga non poteva esserci: alla parete orientale, ovvero nell'abside, c'è ora l'altare,
su cui viene ora celebrato il sacrificio eucaristico. Come abbiamo visto, l'eucaristia è un entrare
nella liturgia celeste, un divenire contemporanei all'atto di adorazione di Gesù Cristo in cui egli,
mediante il suo corpo, assume in sé il tempo del mondo e contemporaneamente lo innalza al di sopra del
tempo stesso portandolo fino alla comunione dell'eterno amore. Per questo l'altare significa un ingresso
dell'oriente nella comunità radunata e un'uscita della comunità dal carcere di questo mondo
attraverso il velo ora aperto; significa, inoltre, partecipazione alla Pasqua, al «passaggio» dal
mondo a Dio che Cristo ci ha aperto. È chiaro che l'altare nell'abside guarda verso l'
«Oriente» e ne è al tempo stesso parte. Se nella sinagoga, al di là dell'arca santa,
dello scrigno della parola, si era guardato verso Gerusalemme, ora con l'altare si è posto un nuovo
baricentro: in esso - lo ripetiamo - torna a essere presente ciò che prima era significato dal tempio.
Esso serve anzi alla nostra contemporaneità con il sacrificio del Logos. Trattiene
così il cielo nella comunità radunata o, piuttosto, la porta al di sopra di sé nella
comunione dei santi di ogni luogo e di ogni tempo. Potremmo anche affermare che l'altare è, per
così dire, il luogo del cielo squarciato; esso non chiude lo spazio ecclesiale, ma lo apre alla liturgia
eterna. Avremo modo in seguito di parlare delle conseguenze pratiche di questo significato dell'altare
cristiano, dal momento che la questione della giusta collocazione dell'altare sta al centro delle polemiche
postconciliari...
Il terzo elemento che va notato... è che l'arca della Scrittura viene conservata e mantiene la sua
collocazione nell'edificio ecclesiastico, ma anche qui con una novità sostanziale. Alla Torà si
aggiungono i Vangeli, che soli possono svelare il senso della Torà: «Di me ha scritto
Mosè», dice Cristo (Gv5,46). Lo scrigno della parola, l'«arca dell'alleanza», diventa
ora il trono dell'Evangelo, che certo non abolisce le «Scritture», non le mette da parte, ma le
spiega, così che esse formano ora anche le «Scritture» dei cristiani, e senza di loro il
Vangelo sarebbe senza fondamento. Viene mantenuta l'usanza sinagogale di coprire lo scrigno con un velo per
esprimere la santità della parola. Ne deriva del tutto spontaneamente che anche il nuovo, il secondo luogo
santo, l'altare, viene avvolto con un velo, da cui nella Chiesa orientale si è sviluppata l'iconostasi.
La duplicità dei luoghi santi ebbe una conseguenza importante per la prassi liturgica: nella liturgia
della parola la comunità era radunata intorno allo scrigno dei libri sacri, ovverosia intorno alla
cattedra ad esso associata e che da cattedra di Mosè divenne cattedra episcopale. Come il rabbino non
parlava per sua autorità, così ora il vescovo spiega la Bibbia in nome e per conto di Cristo, per
cui essa da parola scritta e passata torna a essere ciò che è: discorso presente che Dio rivolge a
noi. A conclusione della liturgia della parola,durante la quale i fedeli si raccolgono attorno al seggio
episcopale, tutti i presenti con il vescovo si spostano attorno all'altare, dove si ode l'appello:
conversi ad Dominum - volgetevi al Signore, vale a dire: guardate ora, insieme con il vescovo,
verso oriente, nel senso dell'affermazione della lettera agli Ebrei: «avendo lo sguardo fisso su
Gesù, autore e consumatore della fede» (12,2). La liturgia eucaristica si compie tenendo lo sguardo
su Gesù, è sguardo rivolto a Lui. La liturgia ha dunque nella struttura della chiesa cristiana
primitiva due luoghi. Il primo è quello della liturgia della parola, al centro dello spazio, nel quale i
fedeli sono radunati attorno al bema, una sorta di tribuna su cui si trovavano il trono dell'Evangelo, il
seggio episcopale e il leggio. La liturgia eucaristica vera e propria ha il suo luogo nell'abside, presso
l'altare, che i fedeli circondano, rivolti tutti, con il celebrante, verso oriente, al Signore che viene.
Bisogna, infine, accennare a un'ultima differenza tra la sinagoga e le chiese delle origini: in Israele
solo la presenza degli uomini era considerata fondamentale per la celebrazione del culto. Solo a loro si riferiva
il sacerdozio universale descritto in Esodo19. Nella sinagoga le donne potevano quindi trovar posto solo sulle
tribune o nelle logge. Nella Chiesa di Cristo, già a partire dagli apostoli, da Gesù stesso, non
esisteva tale distinzione. Anche se alle donne non veniva affidato il servizio pubblico della parola, esse
erano comunque pienamente coinvolte nella celebrazione liturgica, esattamente come gli uomini. Per questo esse -
sia pur separate dagli uomini - trovavano posto nello spazio sacro, attorno al bema come attorno
all'altare.
(da Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001,
pagg.59-70)
Il cristianesimo non abolisce il sacerdozio, ma lo comprende in modo nuovo
Il punto centrale di tali scelte era una lettura della Bibbia basata sulla contrapposizione dialettica di
legge e promessa, sacerdote e profeta, culto e promessa. Le categorie reciprocamente correlate di
legge-sacerdote-culto furono considerate come l’aspetto negativo della storia della salvezza: la legge
porterebbe l’uomo all’autogiustificazione; il culto risulterebbe dall’errore che, ponendo
l’uomo in una sorta di rapporto di parità con Dio, gli consentirebbe di stabilire, mediante la
corresponsione di determinate offerte, un rapporto giuridico tra sé e Dio; il sacerdozio è allora
per così dire l’espressione istituzionale e lo strumento stabile di questo scambievole rapporto con
la Divinità. L’essenza del vangelo, come apparirebbe in modo assai chiaro soprattutto nelle
grandi lettere di san Paolo, sarebbe perciò il superamento di questo apparato di distruttiva
autogiustificazione dell’uomo: il nuovo rapporto con Dio poggia totalmente su promessa e grazia; esso si
esprime nella figura del profeta, che di conseguenza viene costruita in stretta opposizione a culto e sacerdozio.
Il cattolicesimo appariva a Lutero come la sacrilega restaurazione di culto, sacrificio, sacerdozio e legge e
dunque come la negazione della grazia, come il distacco dal vangelo, come un regresso da Cristo a
Mosè...
Il paradosso della missione di Gesù trova probabilmente la sua espressione più chiara nella
formula giovannea interpretata in maniera così profonda da Agostino: “Mea doctrina non est
mea...” (7,16). Gesù non ha nulla di proprio per sé, oltre al Padre. Nella sua dottrina
è egli stesso in gioco, e perciò dice che perfino ciò che ha di più proprio –
il suo io – non gli appartiene affatto. Il suo è il non-suo; non c’è nulla oltre il
Padre, tutto è interamente da lui e per lui.
Il parallelismo tra la forma di missione di Gesù e quella degli apostoli viene poi sviluppato in modo
particolarmente chiaro nel quarto vangelo: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”
(13,20; 17,18; 21,21). La portata di questa affermazione diviene evidente solo se richiamiamo alla mente
quello che poc’anzi abbiamo detto sulla struttura della missione di Gesù, vale a dire sul fatto che
tutta la sua missione è relazione. Di qui comprendiamo l’importanza del seguente parallelismo:
“Il Figlio da sé non può fare nulla” (Gv 5,19.30);
“Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Questo “nulla” che i discepoli condividono con Gesù esprime in pari tempo forza e debolezza
del ministero apostolico. Da sé, con le sole forze della ragione, della conoscenza e della
volontà essi non possono fare nulla di ciò che in quanto apostoli sono tenuti a fare. Come
potrebbero dire: “Ti rimetto i tuoi peccati”? Come potrebbero dire: “Questo è il mio
corpo”? Come potrebbero imporre le mani e dire: “Ricevi lo Spirito Santo”? Nulla di quanto
è costitutivo dell’azione apostolica è prodotto della capacità personale. Ma proprio
in questa totale assenza di proprietà è fondata la loro comunione con Gesù, il quale, a sua
volta, è interamente dal Padre, solo per lui e in lui, e non sussisterebbe affatto, se non fosse un
permanente derivare e riconsegnarsi al Padre. Il “nulla” per quanto attiene al proprio li
coinvolge nella comunione di missione con Cristo. Questo servizio nel quale noi siamo interamente dati
all’altro, questo dare ciò che non proviene da noi, nel linguaggio della Chiesa si chiama
sacramento. Quando definiamo l’ordinazione sacerdotale un sacramento intendiamo precisamente questo:
qui non vengono ostentate le proprie forze e capacità; qui non viene insediato un funzionario
particolarmente abile, che trova l’impiego di suo gusto o semplicemente perché ci può
guadagnare il pane; non si tratta di un lavoro con il quale, grazie alle proprie competenze, ci si assicura il
sostentamento, per poi progredire nella carriera. Sacramento vuol dire: io do ciò che io stesso non
posso dare; faccio qualcosa che non dipende da me; sono in una missione e sono divenuto portatore di ciò
che l’altro mi ha trasmesso. Perciò nessuno può dichiararsi prete da sé; così
come nessuna comunità può chiamare qualcuno di sua propria iniziativa a questo compito. Solo
dal sacramento si può ricevere ciò che è di Dio, entrando nella missione che mi fa
messaggero e strumento dell’altro.
Questo legame al Signore, per cui a un uomo è dato di fare ciò che non lui stesso, ma solo il
Signore può fare, equivale alla struttura sacramentale. In questo senso la qualificazione sacramentale del
nuovo stile di missione derivante da Cristo risale fino al nucleo centrale del messaggio biblico, vi appartiene.
Al tempo stesso è divenuto evidente che qui si tratta di un ufficio totalmente nuovo, che non può
essere derivato dall’Antico Testamento, ma è spiegabile unicamente sul piano cristologico. Il
ministero sacramentale della Chiesa non fa che esprimere la novità di Gesù Cristo e mantenerla
attuale nel corso della storia.
(da Joseph Ratzinger, Natura del sacerdozio, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed.
Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.75-93)
Fede e religione
Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare
del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede
senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere
come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi
e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene
vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e
che, d'altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.
(da J.Ratzinger, Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa,
Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.72-73)
[1] Questo il testo in latino: Est ibi templum Palladis et forum Cesaris et templum Iani, qui previdet annum in principio et fine, sicut dicit Ovidius in Fastis; nunc autem dicitur turris Centii Fraiapanis. Templum Minerve cum arcu coniunctum est ei, nunc autem vocatur Sanctus Laurentius de Mirandi. Iuxta eum sancti Cosmatis ecclesia, que fuit templum Asili ed in traduzione italiana: Ivi è pure il tempio di Pallade, il Foro di Cesare e il tempio di Giano che prevede l' anno nel principio e nella fine, come dice Ovidio nei Fasti, ma ora chiamasi la torre di Cencio Frangipani. Contiguo è il tempio di Minerva con un arco, ora chiamato S. Lorenzo de Miranda. Accanto è la chiesa di S. Cosma che era il tempio dell' Asilo.