Presentiamo on-line una breve nota del prof.Giancarlo Biguzzi, docente di Nuovo Testamento presso la Pontificia Università Urbaniana, apparso sulla rivista Euntes Docete. Commentaria Urbaniana 2002/2, pagg.147-151, con il titolo originario L’ultimo attacco a Masada, in una rubrica - che aveva lo scopo di raccontare, come in agili reportage giornalistici, l’attualità del nostro passato - intitolata “Archeologia delle origini” (“archeologia” nel duplice senso di arte che attraverso trincee di scavo riporta alla luce ciò che fu, e poi di discorso su ciò che è antico).
Il Centro culturale Gli scritti (27/1/2007)
Masada è una delle più emozionanti riscoperte storico-archeologiche del secolo
ventesimo. Come risaputo, Masada è il nome di uno sperone roccioso culminante in un ampio pianoro a forma di
nave che si innalza di trecento metri sulla costa sud-ovest del Mare Morto, in uno scenario arido e selvaggio.
Servì da roccaforte militare fin dal secondo secolo a.C., ma fu Erode il Grande – quello che
perseguitò a morte Gesù alla sua nascita – a fare di Masada una fortezza militare di
prim’ordine.
La superficie pianeggiante di Masada, ampia una decina di ettari, in tutto il suo perimetro fu munita di un muro a
casamatta e nei 6,5 metri che correvano tra i due muri della casamatta furono ricavati circa un centinaio tra
depositi, arsenali e abitazioni: tra l’altro, lungo il lato occidentale dello stesso muro trovò posto
anche una sinagoga, una delle più antiche della Palestina. Sulla spianata furono costruiti grandi magazzini in
duplice serie: 6 erano lunghi 20 metri e 11 erano lunghi 27 metri. Essi circondavano da tre lati un grande
stabilimento termale, inimmaginabile in pieno deserto, con muri affrescati a finto marmo e con ambienti riscaldati a
diversa temperatura. E poi furono costruiti laboratori, edifici a “colombaia”, una piscina
all’aperto, numerose cisterne per la raccolta delle acque piovane (12 solo sul lato nord-ovest dalla
capacità media di 3.500 m3 di acqua) ecc., e due palazzi. Il primo palazzo sorse a occidente:
serviva probabilmente per l’amministrazione del regno e per la rappresentanza, come dicono i grandi spazi e i
raffinati mosaici pavimentali. Il secondo palazzo – più villa privata di Erode che palazzo pubblico
– fu ricavato su tre terrazze a diversa altezza nella punta settentrionale della “nave” di Masada.
È questa villa a tre gradini, sospesa sul deserto, con mosaici, intonaci a finto marmo e stucchi, con colonne
scanalate e capitelli dorati, con un piccolo impianto balneare, con due scale scavate nella roccia che congiungevano
i tre piani…, è questa villa che sorprende il turista moderno, nello scenario già di per
sé unico di Masada.
All’inizio della prima rivolta giudaica scoppiata nel 66 d.C. i ribelli strapparono la fortezza ai romani e di
lì tennero loro testa anche quando oramai Gerusalemme era stata distrutta e il tempio incendiato. È di
questo evento bellico, universalmente famoso, che dovremo parlare, ma prima si può aggiungere che dal 74 d.C.
al 111 a Masada stazionò un distacco militare romano, e che poi nella seconda rivolta giudaica (132-135 d.C.)
vi si stabilirono di nuovo i ribelli giudei. In epoca bizantina, infine, Masada fu abitata (finalmente) da gente meno
bellicosa, e cioè da pii monaci cristiani, come testimoniano i resti del monastero e della piccola cappella
dalle decorazioni geometriche a sassolini su intonaco, che il visitatore trova a Masada tra gli altri edifici. Ora
Masada è meta immancabile di chi visita Israele e la Terrasanta.
La vicenda più drammatica di Masada ci è nota dagli scritti di uno storico giudaico
di nome Giuseppe che inizialmente aveva avuto qualche ruolo nella guerra contro i romani e che poi era passato
dall’altra parte. Giunto a Roma con i romani vincitori, fu storico di corte del primo principe della famiglia
Flavia, l’imperatore Vespasiano, assumendo di lui anche il nome di famiglia, per cui è passato alla
storia come “Giuseppe Flavio”. Ebbene, a soli 5 o 6 anni di distanza dai fatti, egli narrò la
caduta di Masada nell’opera intitolata “Guerra giudaica”.
Egli narra in particolare come il generale romano Flavio Silva, ponendo l’assedio a Masada, circondò
alla base la roccaforte con un muro di circonvallazione (di circa 3,6 km) e con 8 accampamenti per i circa 7.000
legionari di cui era al comando. Per avere ragione dei ribelli senza attendere di prenderli per fame, Silva dovette
poi erigere una rampa d’assedio che portò gli assedianti a combattere alla stessa elevazione degli
assediati. Soprattutto poi Giuseppe Flavio dice che, nella notte precedente l’assalto decisivo, i ribelli di
Masada, per non cadere nella vergogna della schiavitù, furono trascinati da un appassionato discorso del loro
comandante Eleazar ad incendiare le loro postazioni e a suicidarsi in massa. Era il 16 aprile del 73 d.C. (o 74).
Giuseppe Flavio dice che a raccontare il tutto sopravvissero solo due donne e cinque bambini, che avevano trovato
rifugio nelle condutture scavate nella roccia per la raccolta delle acque piovane.
Essendo stato l’ultimo focolaio di resistenza contro i Romani, nel secolo ventesimo Masada è divenuta
un simbolo e addirittura un mito del patriottismo giudaico, in conseguenza di almeno tre fattori. I primi due sono il
sorgere del movimento sionista e la costituzione del nuovo stato ebraico, e il terzo è lo scavo archeologico
condotto negli anni ’60 dal grande archeologo israeliano Yigael Yadin. Egli, infatti, ha sottratto alla polvere
dei secoli tutto lo scenario degli eventi e facendolo conoscere a tutti attraverso memorabili pubblicazioni anche
divulgative. Tra l’altro, a Masada vengono periodicamente allestiti spettacoli di “suoni e luci”,
in chiave ovviamente di ardente patriottismo.
Dopo i due attacchi romani che posero fine alle due rivolte giudaiche, un altro duplice attacco,
di natura del tutto diversa, è stato lanciato contro Masada recentemente. Tra gli altri promotori
dell’assalto moderno a Masada c’è anche una rivista nordamericana di archeologia: la sempre
informatissima “Biblical Archaeological Review” (= BAR). A partire dal 1997, a cinque o sei riprese BAR
ha parlato di Masada in pungenti articoli e nelle risposte alle lettere provocate da quegli articoli. Gli articolisti
di BAR hanno sottoposto a revisione sia l’opera degli assedianti, sia la resistenza degli assediati. Cominciamo
dai primi.
Nel numero di BAR del settembre-ottobre del 2001, Dan Gill, ricercatore che lavora per il “Geological Survey
of Israel”, ha messo in un articolo il risultato delle sue indagini geologiche su Masada e le sue riflessioni
sul testo di Giuseppe Flavio circa la rampa d’assedio innalzata dai soldati di Flavio Silva. Giuseppe Flavio
diceva che per la costruzione del terrapieno i genieri romani sfruttarono un costolone naturale, l’unico che in
tutto il perimetro di Masada, andava ad appoggiarsi contro le pareti a strapiombo del piccolo altopiano. Per Giuseppe
Flavio il dislivello tra il pianoro di Masada e questa sella rocciosa era di 300 cubiti, qualcosa come 80 metri, per
cui la rampa costruita dai romani dovrebbe essere stata un’impresa immane. Poiché essa è lunga
210 metri e poiché oggi resta al di sotto della vetta di Masada di soli 20 metri, bisognerebbe mettere in
conto l’innalzamento di 60 metri dello sperone naturale, e quindi bisognerebbe mettere in conto il trasporto di
più di 2 milioni di metri cubi di materiale, che comporterebbe il lavoro di migliaia di persone per molti
mesi, se non addirittura per anni. Qualcuno parla di “impresa fenomenale”, di “lavoro
titanico” e, addirittura, della più grande rampa d’assalto mai costruita dai romani nella lunga
storia del loro impero.
Ebbene, Dan Gill ha studiato gli strati geologici di tutta l’area, le erosioni, gli smottamenti intervenuti
nei millenni ecc., concludendone che la rampa d’assedio è costituita da roccia naturale per uno spessore
molto più alto di quanto non si ritenesse fino ad ora, per cui l’impresa dei romani fu in ogni caso
notevole, ma non proprio immane o titanica. In particolare, i calcoli e le osservazioni sul posto dicono che il
materiale di riporto è, non di 60 metri, ma di circa 5 metri sopra la cresta dello sperone roccioso, e del
doppio ai lati. Un’impresa dunque dieci o dodici volte più ridotta di quanto si dice di solito.
Comunque sia, fu anzitutto necessario fare ai fianchi del costolone roccioso uno steccato di contenimento, e
l’ispezione sul luogo dice che i tronchi di cui ci si servì furono quelli delle tamerici che crescono
nella zona desertica circostante. Poi, per il riempimento e il pareggiamento della lunga striscia in salita fin sotto
la casamatta di Masada, si possono ipotizzare per ogni giorno tre turni di 800 lavoratori. Come dice il racconto di
Giuseppe, si costruì poi alla sommità della rampa una piattaforma, e su di essa si costruì una
torre di legno per guadagnare altri metri in altezza, e un ariete per squassare a furia di colpi il muro difensivo di
Masada. Tutto evidentemente fu fatto sotto il lancio di sassi, frecce e fiaccole incendiarie degli assediati, ma un
esercito esperto come quello romano seppe evidentemente come portare a termine l’impresa. In poche parole, il
lavoro di costruzione del terrapieno poté durare da una settimana a un mese al massimo, e il risultato non fu
affatto la rampa d’assedio più grande della storia romana.
Prima ancora che l’impresa “titanica” dei romani assedianti, la nostra rivista di archeologia
biblica, ma non solo essa, ha ridimensionato anche il mito riguardante l’altro fronte di battaglia di Masada,
quello degli assediati.
Lo scavo archeologico di Yigael Yadin aveva solo sostanzialmente confermato la descrizione di
Masada fatta da Giuseppe Flavio, ma non per esempio ciò che egli scrive circa i due “palazzi” e la
loro collocazione, dal momento che Giuseppe sembra parlare di un solo palazzo e sembra mettere insieme in quel suo
unico palazzo le caratteristiche distinte dei due reali palazzi messi in luce dagli archeologi. Il sentiero (fin
dall’antichità detto “del serpente” per la sua forma a zig-zag) che s’inerpicava su
per il lato orientale di Masada, non era così pericoloso come Giuseppe vuol far credere, né le colonne
che adornavano gli edifici erano là dove Giuseppe le colloca, né erano tutte d’un pezzo ma fatte
di rocchi sovrapposti, ecc. Lungo il muro a casamatta di Masada superiore sono state individuate solo 27 delle 38
torri di cui Giuseppe parla, e a Masada inferiore Giuseppe colloca torri ed edifici di cui non si è trovata
traccia. In conseguenza di tutte queste imprecisioni, sorsero dubbi anche sull’affidabilità del racconto
di Giuseppe circa la caduta di Masada.
Tra i revisionisti si possono ricordare Trude Weiss-Rosmarin, una studiosa ebrea nata in Germania ma poi trasferitasi
negli Stati Uniti, la quale nel 1981 su di una rivista da lei stessa pubblicata, il Jewish Spectator,
sollevò difficoltà sia circa il discorso di Eleazar ai suoi compagni d’armi (chi ne aveva
riferito il contenuto a Giuseppe?), sia circa il fatto stesso del suicidio. Invece che consegnare Masada ai romani
con un inutile suicidio, per Trude Weiss i rivoltosi avrebbero piuttosto sfruttato la posizione favorevole per
infliggere le perdite più gravi possibile agli assedianti, per poi morire con molti di loro, un po’ come
aveva fatto Sansone che aveva coinvolto nella propria morte i Filistei secondo il famoso grido: «Muoia Sansone
con tutti i Filistei!».
In secondo luogo si può ricordare Shaye Cohen, un altro studioso ebreo, il quale nel 1982 presentò il
racconto di Giuseppe come zeppo di abbellimenti, di esagerazioni e di tratti plagiati dai racconti di suicidi di
massa – almeno 16 – che si riscontrano nella letteratura ellenistica contemporanea a Giuseppe. Dopotutto
le due donne e i cinque bambini che Giuseppe cita come propria fonte non erano stati testimoni dell’ultima sera
e dell’ultima notte, avendo dovuto nascondersi nei corridoi di accesso alle cisterne per sottrarsi alla spada
dei mariti o del padre. Per questo Cohen si sente di poter smentire Giuseppe proprio sui punti più
qualificanti del suo racconto: «Silva non ordinò la ritirata l’ultima sera quando era ormai
entrato in Masada, Eleazar non ebbe la possibilità per i suoi due spezzoni di elogio del suicidio, e i 960
assediati non ebbero affatto la comodità di tutt’una lunga notte per uccidere prima le proprie mogli e i
propri bambini, e poi sé stessi».
Secondo Cohen, a Masada dunque accadde quello che in quella guerra era già capitato a Iotapata, Gamla,
Gerusalemme, Erodio, e così via. Certamente qualcuno uccise per pietà i propri famigliari e qualcuno
commise suicidio, e da tutto questo Giuseppe ricavò la sua drammatica ma esagerata narrazione. Ma poi molti
morirono combattendo, qualcuno riuscì forse a fuggire, e qualcuno fu fatto prigioniero. Tra l’altro, un
altro articolo di BAR (luglio-agosto 2001), documenta l’ipotesi secondo cui la costruzione del Colosseo sarebbe
stata finanziata con il bottino della guerra giudaica del 66-70. Si potrebbe aggiungere il Colosseo fu tirato su,
anche con il lavoro forzato dei prigionieri di guerra. Cohen comunque conclude dicendo che gli assediati non erano in
grado di opporre alcuna seria resistenza ai romani, non avendo né l’equipaggiamento (non avevano nemmeno
una balista o una catapulta!) né l’esperienza richiesta per far fronte a veterani stagionati come quelli
di Silva.
Si può infine citare di nuovo appunto la “Biblical Archaeological Review” che in articolo di
Joseph Zias (BAR, novembre-dicembre 1998), antropologo israeliano e collaboratore di Yigael Yadin nello scavo di
Masada, ha messo in questione ciò che riguarda i resti mortali ritrovati a Masada. Yadin disse di aver trovato
parte delle ossa di un uomo e di un bambino e la capigliatura di una donna nella terrazza inferiore della villa
settentrionale, e poi i resti di altre 28 persone in una grotta nel fianco sud-est di Masada. Egli presentò
questi reperti come i resti degli estremi difensori di Masada tanto che, deposte in tre bare coperte dalla bandiera
con la stella di David, queste ossa umane ricevettero onorevole sepoltura ai piedi della rampa d’assedio
romana, in una cerimonia di stato che ebbe luogo il 7 luglio 1969. Ma, secondo Joseph Zias, le ossa sepolte come ossa
di giudei assediati sono più probabilmente ossa di romani che dopo il 70 erano a Masada per presidiarla.
Anzitutto Zias fa notare che le ossa della grotta erano miste a ossa di porco secondo l’uso romano, e in
secondo luogo si rifiuta di identificare i tre morti del palazzo settentrionale con i tre ultimi suicidi di Masada
– una famigliola –, come voleva la ricostruzione di Yadin proposta in una pubblicazione divulgativa. In
particolare – dice Zias – non c’è sul posto la spada del suicidio e d’altra parte i
due scheletri maschili sarebbero tutti e due di adulti, mentre la capigliatura della donna è troppo ben
conservata per essere del primo secolo d.C. Dopotutto, in 40 anni di occupazione romana dal 74 al 111 d.C., come
potevano restare là, indisturbati se non da qualche animale carnivoro in cerca di cibo, i corpi degli ultimi
tre suicidi di Masada?
Così dunque l’attacco giornalistico-scientifico sia alla rampa d’assedio dei
romani sia al mito del suicidio di massa dei rivoltosi giudei, ha provato a ridimensionare la straordinarietà
o l’aura epica delle imprese e degli eventi di Masada.
A riguardo di tutto questo revisionismo, c’è da dire che le prove portate sono, non solo di diversa
natura, ma anche di diverso valore. Altro infatti è un sondaggio geologico che costituisce qualcosa di
oggettivo, altro è invece la valutazione, inevitabilmente soggettiva, dell’attendibilità di un
testo letterario (per esempio dei testi del discorso di Eleazaro e del suicidio di massa), e altro ancora è
l’assenza di reperti – che invece ci si aspettava di trovare – in uno scavo archeologico (per
esempio le introvabili ossa dei 960 ribelli di Masada): si sa infatti che ogni argomento tratto dal silenzio o
dall’assenza, è sempre precario. In secondo luogo, è ben vero che – come scrive Zias
– «molte volte si vuole credere piuttosto che conoscere», ma è vero anche che alcune
argomentazioni, a favore del non-suicidio, non sono esenti da difficoltà. Per esempio, – come scrive un
lettore di BAR in una lettera – poteva Giuseppe Flavio, a pochi anni dai fatti, far circolare
l’invenzione del suicidio di massa se a Roma e in Palestina si sapeva che non c’era stato alcun suicidio
di massa? Ed è poi pensabile che lo stesso Giuseppe crei dal nulla il mito glorioso dei suicidi di Masada, lui
che nel suo scritto ad ogni passo dipinge i ribelli a Roma come il folle partito della guerra?
I dubbi sull’attendibilità di Giuseppe Flavio, comunque, restano. È risaputo e dimostrabile,
infatti, che gli storici antichi prestavano volentieri le proprie idee ai propri eroi nei discorsi che mettevano
sulle loro labbra. Da parte sua, poi, Flavio Silva sapeva bene che gli storici contemporanei si permettevano di
abbellire i fatti e di esagerarli. Se anche lesse le pagine di Giuseppe Flavio, di fronte alle esagerazioni che esse
potevano contenere il generale di Masada non si deve essere troppo preoccupato di esigere precisazioni e
rettifiche.
YHWH: il Tetragramma, le quattro
lettere del Nome divino, del prof. Giancarlo Biguzzi
Il kibbutz di Ginnosar sul lago di Tiberiade e la scoperta
della “barca di Gesù”, del prof. Giancarlo Biguzzi
Introduzione all’epistolario
paolino, del prof. Giancarlo Biguzzi
Il vangelo gnostico di Giuda ed i vangeli canonici,
del prof. Giancarlo Biguzzi
Per altri articoli e studi del prof. Giancarlo Biguzzi o sul contesto storico della Bibbia presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici