Appunti su Giobbe o la tortura degli amici di Fabrice Hadjadj, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /08 /2011 - 20:13 pm | Permalink | Homepage
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Presentiamo sul nostro sito come un invito alla lettura del testo integrale alcuni appunti di Andrea Lonardo sulla pièce teatrale Giobbe o la tortura degli amici di Fabrice Hadjadj, Marietti, Genova-Milano, 2011. Di Fabrice Hadjadj vedi, su questo stesso sito, anche:

Il centro culturale Gli scritti (19/8/2011)

«Non c'è pubblico.
No, per me, non esiste alcun pubblico.
Sotto il mio sguardo gli esseri non possono aggregarsi in quella forma indistinta e compatta che chiamano “folla”, “massa”, “platea”, “uditorio”...
Non sono uno di quei direttori che guardano le cose dall'alto e tengono il conto delle poltrone, purtroppo!
Io sono
Terribilmente miope.
E dunque devo stare molto vicino a ognuno, tanto che possa sentire il mio alito sul collo...
Perché io, per così dire, sono l'Attore puro,
Incapace sempre d'essere uno spettatore che gode nell'osservare la torre in fiamme in lontananza dal suo balcone di marmo rosa.
Incapace anche d'essere il commediante che si agita sulla scena, ma non va mai più in là degli ultimi sgabelli della piccionaia.
Io conosco ognuno che assiste,
Come il mio respiro,
Come il mio unico figlio,
Come la mia fidanzata sotto gli alberi in fiore.

Sì, io so di ognuno di voi il suo nome assolutamente proprio,
non un termine generale “Hom! Hom!” come il suono di uno che abbocca all'amo di un sistema.
Né soltanto alcune sillabe minute: Renata, Monica, Giancarlo,
Ma il nome che ti chiama fin nelle tue pieghe più intime,
Il nome che ti raccoglie da parte a parte e che non si adatta che a te solo,
Il nome che ti pronuncia nella penombra nuziale e rivela l'universo singolare che tu apri attraverso la fenditura dei tuoi occhi,
E, soprattutto, è ciò che più d'ogni altra cosa avevo bisogno di rivelarti stasera,
Perché, come mai sei qui stasera, come mai hai aspettato sino a questo momento preparato da prima della nascita delle stelle,
Come mai questo concorso d'innumerevoli circostanze, sin dal primo atomo d'idrogeno fino all'abbraccio dei tuoi genitori, e tutte quelle volte che la folgore ha colpito appena dietro la traccia dei tuoi passi?
Come mai tutte queste casualità e ora eccoti qui...
Eccoti qui, mio amato, arrivato a questo giorno perché io riveli infine al profondo del tuo orecchio e del tuo cuore...
Toh! Satana,
Confesso che un po' mi aspettavo di vederti qui, a metterti di traverso!»[1].

Così comincia la lancinante pièce teatrale di F. Hadjadj, dedicata ad una rivisitazione moderna della figura di Giobbe. È D. che parla prima che si apra il sipario e non è difficile capire Chi egli sia. A Lui si presenta Satana, chiedendogli licenza, dopo aver tentato Giobbe con il successo, dopo averlo tentato con la sofferenza, di poterlo tentare ora con la tortura degli amici.

Dopo un monologo del protagonista, si susseguono poi i diversi “amici” di Giobbe.

Elifaz diviene il rappresentante di una religiosità sincretista, che non coglie più il volto di Dio come essere personale, bensì solo come potenza ed invita l'amico sofferente a “pensare positivo”, praticando posizioni e posture orientali.

Giobbe gli risponde secco:

«Io pratico molto bene la posizione della trappola per topi»[2].

Ad Elifaz, fa seguito la moglie di Giobbe, che dopo averlo blandito assicurandogli di essere tornata a lui dopo averlo tradito con un altro uomo, lo invita a praticare l'eutanasia per smettere di soffrire, assicurandogli che è solo l'amore che la spinge a dettargli il consiglio.

Giobbe la allontana, rispondendole:

«Che tu voglia per noi una separazione indolore non può che aumentare il mio dolore»[3].

È la volta poi di Bildad, presentato come il teorico nihilista di un processo evolutivo che non ha alcun riguardo per l'esistenza personale, secondo il principio ex nihilo in nihilum. Bildad lo invita a sbeffeggiare Dio che, a suo dire, non esiste, sputando su tutto e su tutti, riconoscendo che non c'è via d'uscita e maledicendo la vita.

Giobbe lo congeda dicendogli:

«Tu dici: “Il mondo è cattivo”.
E io dico: “Il male è nel mondo”.

Queste due frasi si assomigliano come due gocce d'acqua, eppure una è di acido e l'altra di acqua salata. I nostri due bordi, sono molto vicini, fratello mio, ma sono separati da un abisso vertiginoso»[4].

Giunge allora Zophar che ammonisce Giobbe con una dotta disquisizione sul fatto che la sofferenza gli proviene dal peccato suo e degli uomini, perché la giustizia prevede che esista un danno per ogni azione malvagia.

Giobbe lo allontana, dicendo:

«Io spero in un salvatore, Zophar, non in un commercialista.
Il mio Dio mi riscatta senza mercanteggiare.
Il mio Dio perdona i peccati senza annotarli su un piccolo registro da speziale»[5].

Il protagonista afferma che «questa è la contraddizione da cui non arrivo a districarmi»[6]: se Dio perdona, perché tanti affanni debbono piovere sul capo degli uomini?

Una ragazza viene poi a visitarlo e gli propone di quietare il suo dolore con una avventura sentimentale ed erotica con lei.

Giobbe le risponde:

«Il tuo bacio è per un bavaglio, non per un abbraccio»[7].

Elihu si avvicina allora a spiegare a Giobbe che, dal suo punto di vista, se Dio permette la sua sofferenza è per renderlo migliore e che, per questo, deve ringraziare il Signore di ciò che gli sta accadendo.

Giobbe gli risponde:

«Risparmiatemi i vostri dolciumi.
Devo stare attento al diabete
»[8].

Satana stesso si presenta e loda Giobbe per il modo in cui ha parlato: il diavolo afferma che Giobbe è stato ben più saggio di tutti coloro che sono venuti a trovarlo ed il suo appello alla sconosciuta misericordia supera le parole dei suoi “amici”.

Giobbe gli risponde:

«Chi sei tu che vorresti cambiare il mio piangere in compiangersi e compiacersi?»[9].

Giobbe infine, ormai solo, dichiara di attendere la Gioia:

«Io non ti ho, ma tu mi circondi stringendomi.
Tu mi sfuggi, sei proprio tu che mi conduci verso l'altro,
Tu che mi ferisci, sei proprio tu la sola che potrebbe guarirmi,
E siccome sto in agguato, pronto ad accoglierti, attento al minimo refolo che annunci la tua venuta,
Tu m'impedisci di chiudermi nella mia corazza
E la mia testa è questa conchiglia fratturata
E la mia lingua è questa lumaca grottesca,
Che lascia con le sue parole più bava che sapere,
E tu non vieni a ridurre la frattura, no, tu l'ingrandisci, tu l'allarghi ancora perché vi entri il
mondo»[10].

Note al testo

[1] F. Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, Marietti, Genova-Milano, 2011, pp. 21-23.

[2] F. Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 37.

[3] F. Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 47.

[4] F. Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 55.

[5] F. Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 62.

[6] F. Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 63.

[7] F. Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 73.

[8] F. Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 79.

[9] F. Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 85.

[10] F. Hadjadj, Giobbe o la tortura degli amici, Marietti, Genova-Milano, 2011, p. 88.