Educare un bambino alla fede. Riflessioni per un cammino post-battesimale, di Gerardo Giacometti
Riprendiamo dal sito del Vicariato di S. Maria del Rovere (diocesi di Treviso) una Relazione di don Gerardo Giacometti, tenuta il 28 Febbraio 2006, presso la Parrocchia di S. Bona (TV). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti sulla questione educativa, vedi la sezione Catechesi e pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (26/7/2011)
Questo intervento è rivolto ad operatori legati alla pastorale battesimale. Essi devono suggerire a genitori coinvolti nelle proposte formative relative al battesimo di un figlio le attenzioni e gli atteggiamenti da assumere per accompagnare l’educazione della fede.
Quali attenzioni suggerire?
Cerchiamo una risposta indagando su due prospettive:
- Lungo la direttrice di una responsabilità educativa che cerca di scorgere tutta la ricchezza dell’educare alla fede;
- Lungo la direttrice della conoscenza dell’individuo da educare - un bambino - e delle modalità con cui esso si apre alla dimensione religiosa e credente.
Ci sono dunque due domande che accompagnano questa nostra riflessione: che significa educare alla fede e come intervenire nel caso di un bambino, lasciandoci sollecitare dalla sua particolare stagione della vita e dalle modalità con cui in tale stagione egli si apre alla conoscenza di Dio e della vita in lui.
1. Anzitutto mi pare importante sollecitare la coscienza dell’educare. Oggi viviamo una stagione che porta ad abdicare all’educare o ad operarne pericolose riduzioni. E importante cogliere e aiutare a cogliere lo spessore della questione in gioco. Educare significa metterci di fronte ad un progetto uomo. Quale uomo vogliamo costruire?
Oggi, la forte caratterizzazione data alla libertà personale porta ad attenuare l’intervento educativo: chi sono io per intervenire nella vita di un altro, sia esso anche un bambino? L’altro ha diritto di essere se stesso, esercitando la sua libertà, da qui ad esempio la scelta di alcuni genitori di intervenire in maniera molto blanda di fronte ad atteggiamenti irresponsabili dei figli: capiranno da soli...
Il problema è che rinunciando all’intervento educativo, non si favorisce la libertà dell’altro, ma lo si espone ad una serie di influenze che rischiano di ledere quella stessa libertà che si vorrebbe salvaguardare. La rinuncia ad educare un figlio o la riduzione dell’intervento educativo, infatti, non pone il ragazzo in una situazione di neutralità esistenziale, ma all’influenza di altri che modelleranno a loro modo la vita del ragazzo e la sua libertà.
Il ragazzo non vive infatti sotto una campana di vetro! Mi va bene questo tipo di intervento esterno? E soprattutto: mi va bene l’umanità che questo intervento promuove? E questo l’uomo che vorrei vedere in mio figlio? E dunque importante sollecitare una responsabilità che qualche volta potrebbe essere latitante o ridimensionata rispetto alle necessità.
2. Un secondo aspetto da sollecitare è il diritto di cittadinanza nel terreno dell’educare della questione religiosa, la sua pertinenza nella realizzazione di quel “progetto uomo” cui l’educazione tende.
C’entra o non c’entra il rapporto con l’assoluto, mentre un uomo sta crescendo? Qui si tratta di cogliere le coordinate dell’esistenza umana, le direttrici verso cui si costruisce un uomo. Si tratta di aiutare i genitori a comprendere se l’appiattimento orizzontalistico di cui oggi siamo ignare vittime ci convince fino in fondo.
Lo specchio di tale situazione può essere la casa del Grande fratello osservata in ogni suo angolo dall’occhio di innumerevoli telecamere, ma priva completamente di finestre. È l’icona intramondana di questo nostro tempo incapace di osservare il cielo, l’ulteriorità dell’esistenza cui l’uomo si sente chiamato, nonostante la sua piccolezza: un uomo grande e piccolo nello stesso tempo.
Si tratta dunque di aiutare i genitori a comprendere che quando si accosta la dimensione religiosa non si “rinsalda la compagine cristiana minacciata”, ma si rende un servizio all’uomo, alle sue misure più autentiche: orizzontali e verticali simultaneamente.
3. Uno potrebbe obiettare che l’educazione religiosa non significa necessariamente cristianesimo, non significa riconoscersi in una religione e tanto meno in un’unica religione. Il problema è che quando l’apertura all’Assoluto chiede ragione, quando ad esempio un bambino chiede spiegazioni si è costretti a riferirsi ad una impostazione religiosa, ad un modo particolare di dire Dio, così come le religioni lo delineano.
Un genitore potrà anche ritenersi estraneo ad una religione, ma non potrà impedire il confronto di suo figlio con le religioni che crescendo incontra e con le prospettive che le religioni indicano. Meglio allora esserne consapevoli e valutare il tipo di risposta che si intende offrire dato che non tutte le religioni si equivalgono.
Quale Dio e quale uomo presentano? Quale senso e quale vita dischiudono? In questa società dalle multi appartenenze anche religiose, è importante che un genitore entri nella logica di un confronto, nella scoperta dei propri riferimenti e di quelli degli altri.
4. Mentre queste premesse cercano di motivare l’intervento di un genitore che potrebbe avere “i conti in sospeso con la fede” ce n’è una quarta che raggiunge il genitore credente, ma che in virtù della sua fede ritiene arbitrario l’intervento educativo a partire dal fatto che la fede è dono o che la fede “cresce da sola”. È l’atteggiamento di chi è credente, cerca di vivere adeguatamente la propria fede, ma con i figli vi entra fino ad un certo punto.
Certo, non dimentichiamo che la fede è dono. Ma come ogni dono che viene da Dio, essa non è sottratta alla libertà dell’uomo, ai suoi sì e ai suoi no che decidono di quel dono. In questo spazio di libertà si situa la responsabilità educativa. Neanch’essa però è estranea al dono di Dio, non ne è la premessa autonoma, ma ne è sempre conseguenza. In pratica, anche l’azione educativa di cui due genitori sono capaci è sempre dono di Dio fatto a loro e al loro figlio e quel dono, accolto nella disponibilità e nella responsabilità, diviene realizzazione di un suo progetto, di cui anche i genitori sono partecipi.
Un ulteriore atteggiamento da suggerire ai genitori è dunque quello li porta a ricordare che l’educazione alla fede è partecipazione all’azione del Dio educatore.
Su questo orizzonte, cerchiamo ora di comprendere come accompagnare l’educazione alla fede di un figlio.
1. Educazione religiosa come e-ducere: che cosa l’uomo rivela di sé?
Educazione come e-ducere è una delle chiavi di lettura che, pur senza esaurire, accompagna ogni intervento educativo. La prospettiva ci colloca nell’orizzonte di quei segnali con i quali l’uomo si manifesta e che l’uomo stesso impara a riconoscere e ad interpretare.
Conosci te stesso. Come si manifesta l’uomo dal punto di vista religioso? Rispondere a questa domanda ci consente di collocarci di fronte al sospetto che la prospettiva religiosa sia un fenomeno indotto dalla cultura o dall’ambiente.
È utile riferirsi all’esperienza, ai vostri figli. Prima di parlare loro di Dio avete raccolto la loro sentimentalità diffusa che si trasformava di giorno in giorno in curiosità e gioia di vivere. L’uomo indaga, gli piace farlo e nel farlo scopre con meraviglia quanto lo circonda. Con tale realtà, che si allarga sempre più, l’uomo stabilisce e mantiene dei contatti che nel loro darsi non sembrano mai troppi. Questa non è ancora religiosità, ma è l’atteggiamento che la sostiene.
La religiosità nasce quando la ricerca dell’uomo va oltre i confini del visibile e delle risposte che immediatamente può incontrare. L’uomo cerca una prospettiva ab-soluta, sciolta cioè dalle dinamiche fattuali che regolano l’esistenza. Sono quelle domande dei bambini nella direzione del perché? ad oltranza. Ad un certo punto i perché? esauriscono le nostre risposte e anelano ad una ricerca di senso in cui l’uomo cerca di dare significato non effimero a se stesso, al mondo, al rapporto uomo-mondo in termini che trascendono la spiegazione fattuale fornita dalla razionalità scientifica e dall’intervento pratico.
L’ampiezza delle questioni che rimbalzano nei perché? tende ad integrare tutti gli aspetti della vita dell’uomo, dando ad essi un significato, una finalità unitaria. Comprendiamo l’importanza della questione religiosa: essa può diventare chiave di comprensione dell’intera esistenza umana.
Essa inoltre si dà in termini dinamici. L’uomo non è religioso una volta per tutte, ma lo diviene lungo tutto il processo dello sviluppo. In tale sviluppo interagiscono anche le presenze che sono accanto a quell’uomo con le loro indicazioni e i loro orientamenti dicibili e osservabili.
Ecco allora una delle caratteristiche primordiali da suggerire al genitore educatore alla fede. È condotto alle soglie di un mistero che lo precede: il mistero dell’uomo che sembra possedere misure più grandi di sé. E il fatto che sia un bambino ad esprimerlo rende quelle misure ancor più sorprendenti. Questo ci aiuta a capire perché nel progetto uomo non possiamo misconoscere la dimensione religiosa. Significherebbe mortificare la stessa umanità così come essa si dà.
2. Educazione religiosa come intro-ducere: le prospettive della fede
Quell’adulto raggiunto dai perché? può rimanere in silenzio (ma fino a che punto e con quali conseguenze?) e può anche dire una parola: Dio. In tal modo introduce il proprio figlio in una nuova prospettiva. Gli apre una finestra che dà nuova luce all’esistenza. Ebbene, dicendo quella parola la dimensione religiosa sconfina nella dimensione credente.
Sia che si tratti della fede del genitore, sia che quello stesso genitore evochi la fede di altri (qualcuno crede in Dio), il bambino imparerà a ricercare un volto oltre i tanti volti, a cercare ragione oltre le tante ragioni, a orientare i comportamenti oltre le brevi finalità del vivere.
Ma la nuova prospettiva (oltre i miei perché? c’è Dio) reca irrimediabilmente con sé anche la ricerca dei tratti di quel volto. Pensate a come la conoscenza del padre e della madre sia accompagnata nel bambino dal vedere, toccare, annusare, mordere il loro volto. Non basta dire che esiste il papà e la mamma! Bisogna anche impossessarsi di loro e della loro fisionomia.
È a questo punto che diviene necessario e legittimo l’intro-ducere. Siccome riconosco in te una domanda seria nella quale si gioca il tuo essere uomo, vorrei darti la risposta che ritengo rispondere in pienezza a tale esigenza di umanizzazione, ponendoti non semplicemente di fronte a Dio, ma a quel Dio che io ho conosciuto e che mi pare possa diventare promessa per la tua vita e per quello che stai cercando.
Il Dio manifestatosi in Cristo Gesù. Un Dio che non semplicemente rimane come destinatario di una ricerca, ma rivela se stesso, in un’esperienza singolare inaudita: quella del farsi uomo e del condividere la vicenda degli uomini. E se c’è un Dio che si fa uomo anche la tua umanità ne può essere interpellata!
Come ti metto a contatto con questo Dio, come ti intro-duco?
- Vuol dire anzitutto essere accolti. In casa d’altri ci si introduce, perché qualcuno apre la porta. E in questo caso è Dio stesso che la apre. Possiamo comprendere il mistero, perché il mistero ci comprende In che modo? Partecipando la sua stessa realtà. Ecco il senso di quel Battesimo che è stato chiesto. Non mi limito a parlarti di Dio ma ti introduco all’autentico incontro con lui perché sia lui a parlarti di sé e parlandoti di sé ti riveli a te stesso, facendoti scoprire le autentiche misure della tua vita.
- Vuol dire aiutare a orientarsi nel mistero. Ora, un bambino “tocca” il volto di Dio con le sue possibilità. Tali possibilità sono modalità per imparare a collocarsi nel mistero.
- Antropomorfismo: Dio ha qualità fisiche e psicologiche che lo fanno rassomigliare agli uomini nell’immagine complessiva e nel comportamento. Dai 3 ai 5 anni viene individuato un antropomorfismo fisico (Dio con la barba bianca che vive in un giardino fiorito). Ogni discorso su Dio deve tener conto di tale ricerca di visibilità, aprendo però non alla favola ma alle possibilità reali che Dio assuma il volto umano: quello di Cristo Gesù. E siccome l’antropomorfismo si costruisce a partire da volti conosciuti (papà in particolare) sarà importante aprire la conoscenza di un volto più grande, un po’ uguale, un po’ diverso rispetto a quelli conosciuti.
- Magismo: è l’atteggiamento con cui il bambino si dà delle spiegazioni quando le cose del mondo gli risultano incomprensibili. E Dio che sta intervenendo e lo sta facendo in modo misterioso, non come normalmente avviene tra gli uomini. E se Dio è capace di tale potente intervento, meglio stabilire un’alleanza con lui. La preghiera ad esempio può diventare una specie di ritualità magica per guadagnarsi il favore di Dio. Questo maggiormente verso i 6-8 anni. Bisognerà che il tempo precedente sia sostenuto dalla presentazione del Dio alleato dell’uomo e bisognerà abituare ad una preghiera di lode, di confidenza, non solo di richiesta. Oltre al Gesù dei miracoli, il Gesù dei racconti.
- Animismo: le cose create sono vive e Dio le può usare in vario modo per premiare e per punire. Quando i genitori non ti vedono c’è qualcun altro che ti vede! Aiutare un bambino a passare dall’animismo punitivo all’animismo protettivo. Un Dio che interviene con la sua Provvidenza nella vita dell’uomo, che è dispiaciuto quando le cose vanno male perché lui ha creato tutto per la gioia degli uomini.
- Artificialismo: Da dove derivano le cose create? Ogni cosa creata è fabbricata da qualcuno. Dio fa il mondo come la mamma fa la torta. Un bambino non concepisce la creazione dal nulla. Ma anche la Bibbia presenta Dio come “il vasaio” che dà forma all’universo: servirsi dei racconti della Creazione.
Intro-ducere significa dunque aiutare un genitore a cogliere le possibilità della conoscenza di Dio per quello che Dio stesso intende dire di lui (anche a un bambino!) e per le modalità con cui quello stesso Dio — rispettoso dell’uomo che ha creato, così come l’ha creato — si manifesta all’uomo, senza travolgerlo.
3. Educazione nella fede come tra-ducere e con-ducere: quello che abbiamo ricevuto lo annunciamo a voi...
C’è un altro versante educativo da esplorare. È quello della responsabilità del genitore/educatore nel momento in cui ha introdotto nelle prospettive della fede. Non basta infatti intro-ducere. Occorre anche rivelare il significato di quanto è avvenuto.
Qui sembra esserci un controsenso: perché se il mistero rivela se stesso, c’è bisogno di una specie di supporto esterno? Perché il mistero ti raggiunge come esperienza d’amore.
E quell’amore che pure esiste al di là delle parole, ha bisogno delle parole che lo interpretino per sfuggire il rischio dell’equivoco: di che amore stiamo parlando? A chi appartiene? E amore in che senso? Disposto fino a che cosa? Ecco l’educazione che diventa tra-ducere e cioè consegnare e tradurre nello stesso tempo. Si offre una chiave interpretativa di una realtà che già ci appartiene, ma che ha bisogno di essere dischiusa.
E qui c’è una precisa responsabilità, quella stessa di cui sembra essere ben consapevole Paolo: Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture,e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici (1 Cor 15,3-4).
La trasmissione della fede fa riferimento ad un patrimonio ricevuto e conosciuto, che interpreta la mia storia con Dio e a quel Dio dà una precisa fisionomia mediante le sue parole e i suoi gesti. Oggi mi pare che la questione sia nodale: ritrovare le parole della fede, perché insistendo unilateralmente sul valore dei gesti e della testimonianza si rischia di introdurre in un’equivocità di riferimenti che di fatto per trovare Dio si finirebbe col perdere il Dio cristiano e la sua originalità. Pensate alla prospettiva new age che fa di Dio una sorta di grande spirito che pervade l’universo: dappertutto e da nessuna parte!
E pensate al dibattito interreligioso oggi comunemente condiviso: tutte le religioni sono uguali e c’è un unico Dio. Se le religioni sono tutte uguali perché devo rimanere cristiano? Ma le religioni possono essere accostate e confrontate: qual è il volto di Dio e dell’uomo? Qual è il rapporto con il mondo? Un conto è il Dio inaccessibile islamico un conto è il Padre! Un conto è la fuga dal mondo un conto è l’esserci come sale della terra!
Genitori che sono anzitutto degli adulti, anche nella conoscenza della fede: ti consegniamo la fisionomia di quel Dio al quale ti abbiamo introdotto: chi è, che cosa ha detto di sé, dove lo si incontra e conosce. Un compito che va giocato con la famiglia e la comunità cristiana, in particolare nel catechismo. Ma pur salvaguardando le specificità di un momento catechistico, il ragazzo deve pur percepire che sempre di quello stesso Dio, inequivocabilmente, si sta parlando.
Ma accanto al traducere vi è un altro movimento educativo complementare: il con-ducere che fa della fede un’avventura giocata insieme.
Uno dei grossi problemi legati al modo dell’adolescente che le indagini ci segnalano è la dissonanza cognitiva tra l’ingiunzione rivolta al figlio e la percezione che tutto ciò non riguardi l’adulto. Il problema è latente negli anni della fanciullezza, ma esplode nella stagione adolescenziale, accompagnando all’abbandono della pratica religiosa e della comunità.
Occorre recupera fin dai primi anni del fanciullo la possibilità di una fede condivisa con la persuasione di essere nel medesimo cammino. E l’esperienza di un cristianesimo diventato bella notizia e bella notizia capace di segnare la vita, ad ogni età: altrimenti che notizia è?
Su questo versante si aprono per dei genitori di bambini delle possibilità più dirette che accenniamo solamente.
- Il valore dei gesti: un bambino impara per imitazione. Ciò che vede fare dall’adulto viene ripetuto: un cristianesimo che “prende forma” in tante “forme”: il segno della croce e la preghiera, il recarsi a messa, i gesti della carità...
- La concretezza dei riferimenti. Attenzione alle concettualizzazioni che non appartengono all’età della fanciullezza. Un Dio che si manifesta nelle cose che si vedono. Educare il vedere. Privilegiare l’uso delle immagini per trasmettere la fede.
- Il valore della relazione. Un bambino impara per imitazione, ma l’imitazione è più convincente se è quella di una persona cui si sente legato. Dai genitori alle figure importanti nella comunità.
- Narrare la fede. Perché un bambino chiede delle storie? Perché la storia lo aiuta a collocarsi nella vita. Un orizzonte sconosciuto diventa terra abitabile. Narrare anche la storia della fede, di chi ci ha preceduto, la nostra e anche quella del bambino (la sua nascita, il suo battesimo).