Il valore del rito. Le mitzvoth ebraiche nell’ebraismo ortodosso secondo Ernest Gugenheim, di Andrea Lonardo
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Presentiamo con queste righe il volume di E. Gugenheim L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, originale francese del 1978, raccomandandone la lettura. All’analisi proposta dal volume abbiamo aggiunto qualche ulteriore riferimento tratto da altri scritti sulle mizvoth, utili per la comprensione del testo in questione. Per approfondimenti sull'ebrasimo vedi, su questo stesso sito, la sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (15/7/2011)
Indice
- Il valore dell'osservanza dei precetti rituali
- Le tzitziyoth (le frange)
- I tefillin (i filatteri)
- La mezuzà
- L'obbligo dello studio della Torà
- La kippà: coprirsi il capo
- La kasherut
- Note al testo
Il volume L’ebraismo nella vita quotidiana, di Ernest Gugenheim (Giuntina, Firenze, 1994, originale francese del 1978), permette in maniera magnifica di penetrare nel valore che la tradizione ebraica riconosce al rito ed ai suoi simboli. Afferma l’autore, all’inizio della sua trattazione:
«È vero che ogni religione ha i suoi riti e le sue pratiche, che non esiste un credo che non si rivesta di determinate forme esteriori, che non esiste alcuna fede che non si esprima con la preghiera e con dei riti, senza i quali scadrebbe a un semplice atteggiamento di vaga religiosità. Nell’ebraismo, però, i riti e le pratiche quotidiane occupano un posto del tutto particolare.
Per la sua stessa natura la dottrina ebraica è essenzialmente pragmatica: Israele si autodefinisce il popolo servitore di Dio. Il suo dovere principale, se non esclusivo, è dunque quello di compiere la volontà divina. Questa volontà si esprime per mezzo della Torà, e per mezzo delle mitzvoth (i precetti) che essa prescrive.
L’ebraismo si fonda su un certo numero di verità metafisiche e pertanto la sua principale preoccupazione è quella di portare i fedeli a conformare le loro azioni ai precetti divini. La Torà scritta e orale dice a più riprese che l’amore e il timore di Dio si manifestano nella forma migliore mediante l’obbedienza ai comandamenti divini: E ora Israele, cos’è che ti chiede il Signore se non di temere l’Eterno tuo Dio, di camminare nelle Sue strade, di servirLo con tutto il tuo cuore e la tua anima osservando i precetti e le Leggi di Dio... (Deut. 12,12-18) o ancora: Se ascolterai la voce del Signore Dio tuo osservando ed eseguendo i Suoi precetti... verranno su di te e ti raggiungeranno tutte queste benedizioni, se avrai dato ascolto al Signore Dio tuo (Deut. 28,1-2). Questo concetto è ripetuto come un leitmotiv in tutto il Deuteronomio, e i Maestri a loro volta dicono: la cosa più importante non è la speculazione, ma l’azione (Avoth 1,17). Ritroviamo lo stesso concetto anche nel Rituale: Padre nostro, Padre misericordioso, ispiraci affinché possiamo capire, ascoltare, studiare, insegnare, osservare e mettere in atto la Torà intera con amore»[1].
Il valore dell'osservanza dei precetti rituali
La Legge abbraccia ogni dimensione della vita e la sua osservanza permette di vivere ogni atto dell’esistenza come testimonianza della presenza di Dio:
«È lecito affermare che per l’ebraismo non esistono atti non religiosi perché in ogni momento della sua vita l’ebreo osservante si deve domandare: “Come devo comportarmi per conformare la mia azione alla volontà divina?”.
Portando avanti il perfezionamento del mondo e santificandolo, l’uomo perfeziona e santifica se stesso realizzando così il fine per il quale è stato creato. Questo compito non va al di là delle sue forze; egli è libero e responsabile e tutto dipende da lui, il suo destino è nelle sue mani. Dalle sue azioni sgorga la fonte dei suoi meriti, esse sono la condizione stessa della sua salvezza. Tutto questo è espresso chiaramente nel famoso detto talmudico: “Il Santo, benedetto Egli sia, ha voluto procurare meriti a Israele ed ha pertanto moltiplicato per lui la Torà e le mitzvoth”.
Del resto, quando parliamo di mitzvoth poco importa che si tratti di opere buone o di atti puramente religiosi senza un apparente significato morale. Tutte queste Leggi sono espressione della volontà divina e anche se il loro senso resta in parte incomprensibile, devono comunque essere rispettate. In questa prospettiva, santificare lo Shabbath è un dovere altrettanto importante di quello dell’assistenza ai poveri; l’osservanza delle regole alimentari stabilite dalla Torà ha un valore religioso pari ad un comportamento improntato alla giustizia.
La mitzvà, incarnando la volontà divina, acquisisce attraverso il suo valore assoluto una risonanza cosmica; essa santifica colui che la compie e accresce nello stesso tempo la santità del mondo»[2].
Il brano precedente spiega come anche come, secondo la visione ebraica, l’uomo è dotato da Dio di una capacità libera che gli permette di osservare la volontà di Dio senza un intervento previo della “grazia”. Secondo la concezione ebraica, esiste una trasmissione orale della Legge (la Torà orale) che esprime la volontà divina insieme alla Torà scritta[3]:
«È evidente che l’ebraismo contemporaneo non è l’opera di un giorno, ma il frutto di lunghi secoli. Ai riti che risalgono ai tempi più antichi si sono aggiunte istituzioni di carattere rabbinico e usanze consacrate dalla pratica di generazioni, i minhaghim, legittimate dall’autorità dei Maestri e divenute a loro volta Leggi, mentre altre nel corso dei secoli sono cadute in desuetudine. Queste usanze, nate dalla vita quotidiana, presentano varianti molto diverse da paese a paese e anche da comunità a comunità e molto spesso riguardano proprio le azioni più quotidiane. Pur nella loro diversità esse mantengono ugualmente un carattere omogeneo: nate dalla stessa sorgente di ispirazione, tutte quante costituiscono, pur nella loro varietà, una testimonianza visibile di devozione e di amore per Dio. Esse hanno lo scopo di trasfigurare la banalità quotidiana attraverso la loro forza di evocazione, di edificazione e il loro potere emotivo»[4].
Le tzitziyoth (le frange)
E. Gugenheim, nel presentare le diverse norme osservate dal popolo ebraico, si sofferma innanzitutto sul valore delle tzitziyoth, le “frange”:
«Le tzitziyoth sono lunghe frange poste ai quattro angoli di uno scialle rettangolare, a sua volta munito di frange, che prende il nome di talleth e che in origine veniva indossato come abito. La Torà conferisce esplicitamente un valore simbolico alle tzitziyoth: “Il Signore parlò a Mosè dicendo così: Parla ai figli di Israele e dì loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti in tutte le loro generazioni e mettano sulla grangia dell’angolo un filo di lana azzurra. Esse saranno per voi delle frange, e, quando voi le vedrete, ricorderete tutti i precetti del Signore e li eseguirete e non devierete seguendo il vostro cuore e i vostri occhi perché seguendoli voi diverrete infedeli. Affinché vi ricordiate ed eseguiate tutti i Miei precetti e siate santi al vostro Dio. Io, il Signore Dio vostro, che vi feci uscire dalla terra d’Egitto per esservi Iddio, Io, il Signore, sono Dio vostro” (Num. 15,37-41).
I Maestri commentano questo passo così: “La contemplazione delle tzitziyoth suscita il ricordo e il ricordo l’azione” (Menachoth 43b). Un altro versetto aggiunge: “Ti farai dei fili intrecciati ai quattro angoli del vestito con il quale ti coprirai” (Deut. 22,12).
Solo i vestiti con quattro angoli possono avere le tzitziyoth, e gli ebrei, avendo adottato nel corso del tempo l’abbigliamento in uso nei loro paesi di residenza, non potevano più applicarvi le tzitziyoth. L’uso del talleth fu allora limitato essenzialmente al momento della recitazione della preghiera del mattino. Tuttavia, per conformarsi alla prescrizione della Torà, durante la giornata devono indossare un “piccolo talleth”, il talleth katan, chiamato anche arba’ kanfoth (quattro angoli). È un pezzo di stoffa rettangolare con le tzitziyoth ai quattro angoli e al centro un’apertura per poterlo indossare»[5].
I tefillin (i filatteri)
Il secondo segno ricordato da Gugenheim è quello dei tefillin:
«“E tu le legherai (le parole divine) come segno sul tuo braccio e saranno come frontali fra i tuoi occhi” (Deut. 6,8). Questo precetto dei tefillin è ripetuto per quattro volte nella Torà e tuttavia il precetto in tutti i dettagli è stato trasmesso attraverso la Tradizione orale in quanto Halakhà le Moshé mi Sinai, Legge data a Mosè sul Sinai.
I tefillin (sing. tefillà) si presentano come due astucci quadrati, battim, di cuoio tinto di nero fatto con la pelle di un animale kasher, «puro», e muniti su un lato di cinghie, sempre di cuoio, per fissarli sulla fronte e sul braccio al momento della preghiera.
All’interno, manoscritti su pergamena, ci sono quattro passi della Torà che menzionano i tefillin (Es. 13,1-10; 13,11-16; Deut. 6,4-9; 11,13-21). Nella tefillà shel rosh, quella che deve essere messa sulla fronte, i versetti sono scritti in quattro diversi foglietti di pergamena posti nei quattro scomparti interni. La tefillà shel yad, quella del braccio, non ha invece scomparti interni e i quattro passi sono scritti su un unico foglio di pergamena»[6].
La mezuzà
Il terzo segno che Gugenheim ricorda è quello della mezuzà, che contiene lo Shema Israel:
«E tu le scriverai (le parole di Dio) sugli stipiti della tua casa e sulle porte della città (Deut. 6,9). La circoncisione, le tzitziyoth, i tefillin sono segni che l’ebreo porta nella sua carne e nei suoi abiti con i quali esprime il suo amore per Dio e che gli ricordano i suoi doveri; anche la mezuzà è un segno che lo rende consapevole ogni volta che entra o esce di casa: è il segno che in quella casa regna il timore del Signore»[7].
L'obbligo dello studio della Torà
Alla radice di ogni precetto vi è l’obbligo dello studio della Torà, dal quale tutti gli altri dipendono. Esiste un vero e proprio obbligo dello studio, perché l’ignoranza in materia di fede impedisce la fedeltà a Dio ed è segno di mancanza di amore:
«La Torà è l’essenza, la sostanza stessa della vita di Israele, custode vivente della parola divina e dalla parola divina sempre guidato.
Molte sono le scienze talmudiche con le quali i rabbini hanno cercato di ispirare ai fedeli la coscienza dell’importanza fondamentale dello studio. Per quanto siano fondamentali i doveri che impongono di salvare la vita del prossimo, di partecipare alla ricostruzione del Tempio, di rispettare i genitori, lo studio della Torà li supera tutti quanti (Meghillà 16b). Essa è superiore alla preghiera, superiore ai sacrifici; la corona della legge è al di sopra della corona della Regalità e del Sacerdozio (Avoth 4,13). Questa concezione è riassunta nel passo di Maimonide riportato qui di seguito:
Ogni uomo in Israele è obbligato allo studio della Torà, sia egli ricco o povero, in buona salute o malato, giovane o vecchio; anche se è talmente povero da dover ricorrere alla pubblica carità, anche se è il padre di una famiglia numerosa, deve fissare per sé un tempo per lo studio della Torà, durante il giorno e durante la notte... Tra i grandi Maestri di Israele ci sono stati taglialegna e acquaioli, ci sono stati persino dei ciechi che tuttavia erano occupati giorno e notte nello studio della Torà ed hanno un posto tra i Maestri della Tradizione la cui catena risale, di generazione in generazione, a Mosè nostro Maestro. Fino a quando uno è obbligato a studiare la Torà? Fino al giorno della sua morte poiché è detto: “Fai attenzione che queste parole non si allontanino dal tuo cuore, né di giorno, né di notte” (Hilkhoth Talmud Torà)»[8].
Nella formulazione medioevale dei 613 precetti – tipica, ma non unica quella di Maimonide – l’ultimo appunto, il 613esimo (ma anche il 18esimo dei precetti positivi) prescrive che ogni ebreo trascriva di sua mano l’intera Torà, cioè i primi cinque libri biblici, a partire dal versetto di Dt 31,19: Scrivete per voi questo canto.[9]
La kippà: coprirsi il capo
Gugenheim ricorda come anche l’abbigliamento sia segno rituale per l’uomo della presenza di Dio, come è evidente nell’uso della kippà e del capo coperto per le donne sposate:
«È da notare che, anche tra gli osservanti, l’usanza basata su un versetto biblico (Num. 5,18) e menzionata nel Talmud, che vuole che la donna sposata nasconda i capelli, non sempre è rispettata.
Per lottare contro l’assimilazione e testimoniare di fronte agli altri che Dio è sopra di lui e che di fronte a Dio è “infinitamente piccolo”, l’ebreo osservante resta invece fermamente fedele all’uso del copricapo sia nell’adempimento di un precetto divino sia per essere pronto in ogni istante a obbedire alla volontà del suo Creatore e a meditare la sua Legge e a mantenere vive ad ogni costo, in casa, in sinagoga, nel lavoro, le tre virtù sociali tradizionali: l’umiltà (baishanuth), la bontà (rachamanuth) e l’ospitalità (ghemiluth chasadim)»[10].
Per gli ebrei ortodossi anche il divieto del taglio delle basette è prescritto, come afferma Cohn-Sherbok, nella voce Peyes (yiddish, corrispondente all’ebraico pe’ot, plur. di pe’ah) del suo dizionario:
«Letteralmente “estremità”. Lunghi riccioli che gli ortodossi si lasciano crescere sulle tempie, in ottemperanza al precetto contenuto nel Levitico 19,27»[11]. Il versetto in questione recita: Non vi taglierete in tondo il margine dei capelli, né deturperai ai margini la tua barba.
La kasherut
Anche il modo di cucinare viene rivestito di un analogo significato, indicando innanzitutto quali animali siano commestibili e quali impuri, secondo la legge della kasherut (la purità alimentare):
«La Torà, nel Levitico e nel Deuteronomio, dedica numerosi versetti alla definizione e all’elencazione degli animali che devono essere considerati impuri. Procede invece solo per allusioni riguardo al modo corretto di macellare gli animali, riguardo al metodo da seguire per eliminare il sangue e per quanto concerne la proibizione di mescolare carne e latte. È la Legge orale che interviene allora per spiegare dettagliatamente i procedimenti da seguire»[12].
Ma anche la combinazione dei diversi alimenti nella confezione del cibo è regolata, come insegna la proibizione di mescolare prodotti derivanti dalla carne con prodotti derivanti dal latte:
«Nella Torà per ben tre volte è ripetuto: “Non farai cuocere il capretto nel latte di sua madre” (Es. 23,19; 34,26; Deut. 14,21). Il versetto viene interpretato come una proibizione di ordine molto più generale che si estende a tutti i tipi di carne: pertanto niente bistecche al burro, né al latte; e ne è proibita non solo la consumazione, ma anche la preparazione. Per accentuare questa separazione, carne e latticini vengono mangiati durante pasti diversi, e diversi devono essere stoviglie, tovaglie e tovaglioli. In realtà è permesso mangiare la carne immediatamente dopo aver bevuto una tazza di latte, a condizione di essersi pulita la bocca con un po’ di pane o di acqua, poiché l’assorbimento del latte è rapido e non lascia scorie nella bocca. Invece tra un piatto a base di carne e uno a base di latte devono passare, a seconda dei vari usi, una, tre o sei ore. Lo stesso vale per il tempo che deve trascorrere tra l’ingerimento del formaggio e quello della carne.
Naturalmente il latte deve provenire da un animale puro, da una vacca, da una capra, da una pecora; è proibito quello della cavalla e dell’asina. Gli ebrei osservanti più scrupolosi, per avere tutte le garanzie possibili, desiderano che un ebreo assista alla mungitura del latte che berranno»[13].
Ma, al di là delle mitzvoth qui ricordate, l’intero libro di Gugenheim si raccomanda per la precisione con cui descrive ogni norma con il suo significato, insieme all’intero ciclo delle feste liturgiche con le sue usanze specifiche.
Note al testo
[1] E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, pp. 11-12.
[2] E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, p. 13.
[3] Per una prima introduzione al valore della Torà orale, ricevuta al Sinai insieme alla Torà scritta, cfr. A.C. Avril – P. Lenhardt, La lettura ebraica della Scrittura, Qiqajon, Magnano, 1984, pp. 15-21.
[4] E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, p. 14.
[5] E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, pp. 21-22.
[6] E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, p. 23.
[7] E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, pp. 25-26.
[8] E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, pp. 41-42
[9] Cfr. M. Maimonide, Il libro dei Precetti, Carucci, Roma, 1980, pp. 106-107; in Maimonide il precetto è il 18esimo dei precetti positivi, ma esso si considera anche l’ultimo secondo l’ordine del testo biblico; cfr. Le 613 Mitzvot, D. Levy (a cura di), 1999, p. 154 e J. Simcha Cohen, The 613th Commandment. An analysis of the Mitzvah to Write a Sefer Torah, Northvale-London, 1994.
[10] E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, p. 49.
[11] D. Cohn-Sherbok, Ebraismo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, p. 431.
[12] E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, p. 53.
[13] E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Giuntina, Firenze, 1994, pp. 56-57.