Educare è... esplicitare la promessa contenuta nel generare, di Giuseppe Angelini
Riprendiamo da “Evangelizzare” XL (novembre 2010), pp. 184-188, un articolo del teologo Giuseppe Angelini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Catechesi e pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (27/6/2011)
L’emergenza educativa si accompagna oggi ad uno spiccato difetto di pensiero sull’educazione; si accompagna soprattutto alla rimozione di quel rapporto umano entro il quale soltanto il compito educativo trova la sua definizione originaria, il rapporto stabilito dall’atto della generazione. La pedagogia, che si è costituita come capitolo distinto della filosofia solo in epoca moderna, ha pensato l’educazione a partire dal rapporto didattico tra precettore e minore, o tra scuola e minore.
Il tratto intellettualistico di questa immagine dell’educazione è stato poi corretto, nel Novecento, ad opera delle varie correnti di attivismo pedagogico (J. Dewey, e soprattutto M. Montessori) che all’idea di educazione quale trasmissione dei saperi hanno sostituito quella di formazione di una personalità autonoma. Rimane peraltro operante, e anzi trova in tali indirizzi un’esasperazione, il "puerocentrismo", secondo cui gli obiettivi dell’opera educativa potrebbero (dovrebbero) essere definiti guardando soltanto al bambino mentre non sarebbe rilevante la figura dell’educatore - la sua visione della vita, la qualità della sua vita - e neppure la qualità delle relazioni tra adulto e minore. È un’immagine della relazione educativa che ne privilegia il tratto di "artificio".
Le cose che il buon senso “sa”
Il buon senso dovrebbe riconoscere con facilità che la relazione educativa si realizza molto prima rispetto al momento in cui essa è deliberatamente perseguita; gli obiettivi che il compito educativo persegue sono originariamente rivelati proprio dalle forme nelle quali quel compito si realizza a monte di ogni consapevolezza ed intenzione. Per comprendere quali siano gli obiettivi che l’educazione deve perseguire occorre procedere dalla considerazione dei processi attraverso i quali l’educazione si realizza in anticipo rispetto alle intenzioni.
Il buon senso riconosce poi anche che la relazione umana privilegiata, attraverso la quale l'educazione si realizza spontaneamente, in deciso anticipo rispetto ad ogni intenzione deliberata, è quella tra genitori e figli. Alcune voci autorevoli della ricerca sociologica (T. Parsons in specie) hanno evidenziato come, nelle società tardo moderne, la famiglia sia rimasta ormai l’unica agenzia che si occupa di educazione, o di "socializzazione primaria" dei minori.
Più in generale, riconoscono il deciso privilegio - rispetto agli approcci delle scienze umane - che la relazione parentale assume per il processo di formazione del minore.
A queste evidenze non corrisponde ancora una riflessione teorica adeguata. La teoria infatti non riconosce il principio generale, che dalla relazione tra genitori e figli occorre procedere per comprendere che cosa sia educazione; neppure riconosce che prima d’essere definita e consapevolmente perseguita l'educazione si realizza spontaneamente.
Il nodo: autorità e coscienza
Quando si consideri l’educazione che si realizza a monte rispetto ad ogni riflessione, appare con evidenza anche questo fatto: l’ingrediente essenziale del rapporto educativo è l’autorità. Uno dei canoni essenziali dell’attivismo pedagogico del Novecento invece, e prima ancora dell’illuminismo pedagogico e della concezione romantica della pedagogia, è proprio il tratto antiautoritario. L’ostracismo nei confronti della figura dell’autorità pare una costante della pedagogia contemporanea e pregiudica in radice la comprensione del rapporto educativo.
Nel caso dei bambini piccoli appare chiara la disposizione a concedere credito illimitato all’adulto, anzitutto alla madre, e poi al padre. Questa disposizione è tuttavia considerata come un riflesso dell’immaturità del piccolo, destinato a dissolversi a misura che il minore acquisisce conoscenze e abilità pratiche personali. È ignorata l’evidenza che il minore cresce esattamente grazie all’autorità della madre e del padre.
Il significato filologico del termine autorità è noto: il termine viene da auctor, autore, che a sua volta deriva da augére (far crescere); l’autorità dunque è l’attitudine a far crescere. Non basta ovviamente richiamare il significato etimologico per raccomandare il positivo e irrinunciabile compito al quale l’autorità provvede nell’educazione; occorre invece mostrare come nei fatti tale compito effettivamente si realizzi, e quali siano le circostanze che oggi lo minacciano.
La prima intuizione del nesso stretto che lega la coscienza del figlio alla figura del padre è di S. Freud. Egli si occupò dell’argomento in prospettiva clinica, dunque con attenzione alla patologia; l’istanza del Super lo è da lui descritta quasi corrispondesse all’introiezione di un’autorità ingiustificata. E tuttavia Freud sa bene che la coscienza morale non è un complesso patologico: di qualche cosa come un Super Io ha imprescindibile bisogno l’Io per governare il conflitto tra pulsione e realtà.
Prima ancora di Freud, testimone di questa irrisolta aporia è F. Nietzsche, che bene interpreta lo spirito della nostra epoca, e soprattutto il suo difetto di spirito. Sua è la definizione brutale della coscienza morale quale traccia lasciata sulla mente del minore dall’autorità dispotica del padre e delle altre figure autorevoli dell’infanzia:
“Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell’infanzia ci veniva regolarmente richiesto senza un motivo da persone che veneravamo o temevamo. Dalla coscienza viene dunque stimolato quel senso del dovere («questo lo debbo fare, e non fare quello») che non chiede: perché debbo? - In tutti i casi in cui una cosa viene fatta con un ‘perché’, l’uomo agisce senza coscienza; tuttavia non perciò contro di essa. - La fede nelle autorità è la fonte della coscienza; questa non è dunque la voce di Dio nel cuore dell’uomo, ma la voce di alcuni uomini nell’uomo” (Umano, troppo umano, II, § 52).
È qui suggerito un nesso stretto tra la voce della coscienza e le forme dell’esperienza infantile; in particolare tra quella voce e le richieste a noi rivolte da altri in età precoce. Il nesso è qui suggerito in termini generici. deliberatamente provocatori, quasi ad esorcizzare la sospetta sacralità della coscienza. Non è la voce di Dio in noi, si dice, ma di altri in noi. Ma come spiegare questa circostanza sorprendente, che il piccolo conceda al grande il credito dovuto all’autore? Come interpretare questa ricerca di autore? Non si deve riconoscere in essa una legge profonda della vita dello spirito?
Non si deve riconoscere che il destino libero di ogni creatura umana non può realizzarsi se non a condizione, di riconoscere l’intenzione che sta all’origine della nostra vita? La coscienza morale prende figura grazie a un dramma; non è una conoscenza innata dei primi principi dell’agire (la sinderesi della teologia medievale). Quel dramma però non può essere descritto nei termini banali coi quali Nietzsche lo propone.
Egli ironizza sulla visione morale della vita; e tuttavia in altri testi riconosce con franchezza la preferibilità di quella visione rispetto alla disperante sciocchezza degli “ultimi uomini”, “democratici”, che sostituiscono l’ammiccamento complice alle domande stratosferiche dei padri. «"Che cosa è amore? È creazione? È anelito? È stella?" - così domanda l'ultimo uomo e strizza l’occhio». Il sorriso complice dovrebbe attenuare il tratto inquietante che propongono le grandiose domande di un tempo. «Una volta erano tutti matti - dicono i più raffinati e ancora una volta strizzano l'occhio» ("Prologo", § 5, di Così parlò Zarathustra).
La figura della vita buona
In tale generale scetticismo a proposito delle grandi domande dei padri è coinvolta anche l’educazione. Nessuno si chiede più quale sia la figura della vita buona, che deve essere proposta ai figli. I genitori fanno come se i figli potessero scegliere da soli un senso per la loro vita; si esprimono anzi come se tale scelta fosse addirittura un loro diritto. I genitori fanno come se non ci fosse alcuna verità da registrare in quell’evidente fede che i figli mostrano di accordare alla loro autorità negli anni precoci della vita; come se quella fede fosse soltanto il riflesso di una provvisoria debolezza, che la successiva crescita da sé sola rimedierà.
La verità è un’altra. Il rapporto di generazione comporta per se stesso questa conseguenza inevitabile, che i genitori cioè facciano una promessa ai figli; appunto questa loro promessa precoce è destinata a divenire il fondamento della speranza dei figli. I genitori fanno una promessa molto prima di volerlo, molto più di quanto sappiano; appunto questa promessa “magica” diventa il fondamento dell’altrettanto magica autorità di cui si trovano a godere presso il figlio.
La verità iscritta in questa autorità potrà essere confermata unicamente a questa condizione, che essi rendano ragione di essa nelle forme più articolate che la successiva crescita dei figli richiederà. Appunto attraverso la loro responsabilità, e attraverso la corrispondente fedeltà dei figli all’originaria alleanza con loro, troverà conferma la promessa iscritta nell’origine.
Il senso più radicale dell’educazione è proprio questo: rendere ragione dell’origine, essere dunque fedeli alla promessa fatta fin dall’origine. L’urgenza maggiore che l’educazione propone nel presente alla cultura pubblica e anche alla coscienza cristiana è appunto questa, correggere le concezioni correnti, ingenuamente e irresponsabilmente puerocentriche.