La vera vittoria contro la droga è liberarsi di lei, non renderla legale. Due articoli di Giuseppe Anzani e Carlo Bellieni
Riprendiamo da Avvenire del 4/6/2011 e da L’Osservatore Romano del 9/6/2011 due articoli di Giuseppe Anzani e Carlo Bellieni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/6/2011)
1/ La vera vittoria contro la droga è liberarsi di lei, non renderla legale, di Giuseppe Anzani
A sentire la Commissione mondiale sulle politiche della droga, la guerra contro la droga è perduta. A consegnare la brutale confessione alle Nazioni Unite è un rapporto di 24 pagine: 50 anni di lotta vana, un fallimento, un disastro. Tra i firmatari, l’ex segretario Onu Kofi Annan, e gli ex presidenti di Messico, Colombia, Brasile.
Questi nomi ci danno un fremito, perché il fallimento ci sembra, più che una denuncia e un allarme, un’ammissione anche della propria sconfitta; forse spettava pure a loro far qualcosa di meglio per evitarlo.
Il meglio, adesso, lo vogliono insegnare loro, ed è di lasciar perdere col 'proibizionismo', da cui dipenderebbero gli esiti funesti; ora ci vorrebbero politiche di legalizzazione delle droghe, almeno di quelle più diffuse. Minor lucro per i trafficanti, maggiore assistenza ai tossici, minor danno sociale.
Sembra di risentire una cantilena che in questi stessi 50 anni di lotta alla droga su scala mondiale ha accompagnato la repressione del turpe mercato, gestito da mafie, e in parallelo la dissuasione del consumo insieme con l’attività di recupero dei tossicodipendenti. La cantilena della droga legale, controllata, pulita, a richiesta, magari largita dal servizio sanitario; o la droga libera, quando leggera. Ma sentirla cantata di nuovo a quel livello, quando ci saremmo attesi programmi mondiali di macroeconomia (come la riconversione delle colture di papavero e di coca di grandi regioni geografiche), di intelligence e di cooperazione transnazionale, di diplomazia e se possibile di pedagogia mondiale, ci sembra una desolazione.
E vorremmo capire allora se vincere o perdere la lotta alla droga si riferisce alle galere piene o vuote, rispetto ai trafficanti acciuffati o a quelli imprendibili, o si riferisce alla libertà o schiavitù dei nostri figli esposti alla droga offerta e consumata. Perché quest’ultimo, la libertà dalla droga, è l’obiettivo essenziale. L’altro è strumentale. Noi non facciamo la guerra ai drogati, facciamo la guerra ai 'drogatori'. Non principalmente perché fanno soldi turpi, ma perché forniscono schiavitù e morte in cambio di soldi turpi. Ma se diventiamo noi stessi drogatori per le nostre leggi, diamo noi schiavitù e morte in luogo delle mafie.
Diremo che le abbiamo sconfitte perché siamo arrivati noi prima di loro, e dunque loro hanno perso. Ce l’avremmo fatta da soli, a distruggere i nostri figli. Perché l’eroina resta eroina, e la coca coca, comunque targata, mafia o Ssn.
E le droghe leggere? Gli ultimi rapporti scientifici sul possibile 'danno mentale' restano così inquietanti da togliere il sonno. Dunque, le politiche mondiali contro la droga dovranno cercare vittoria piuttosto nella libertà dalla droga. Essa vuol dire prima di tutto 'liberazione' per chi vi è incappato, schiavo dei trafficanti.
Mettendo al bando le crudeltà punitive per queste vittime, viste e amate come vittime sconfitte. E in Italia già lo facciamo da decenni, con modelli di volontariato dove la solidarietà civile s’intreccia (vedi caso, quanti cristiani sulla breccia) col vangelo.
Essa però vuol dire poi 'precauzione' contro le trappole tese a chi si lascia far preda dei trafficanti e dei messaggi seduttivi (ma ci pensano mai, quelli che si dicono pro-droga-legale e spinello-libero, che si fanno prosseneti potenziali di servitù?); costui va fortemente difeso, cioè duramente dissuaso. Per gli uni e per gli altri la sollecitudine non è sferza, ma dovere sociale. Illusoria follia sarebbe sostituire alla catena di ferro della droga criminale il guinzaglio di velluto della droga legale per dire d’aver vinto. Vinto, sì. Arrivati primi, a dar sventura invece di sventura, cambiandole nome. A dar morte invece di morte, cambiandole nome.
2/ Le campagne per la liberalizzazione della droga. La vera cura è la prevenzione, di Carlo Bellieni
I ragazzi che usano droga ben presto si rendono conto sulla loro pelle dei danni che ne derivano e li sanno descrivere con esattezza: è quanto emerge da uno studio svizzero appena pubblicato su "Swiss Medical Weekly", che analizza i disturbi di relazione o di ordine sessuale provocati dagli stupefacenti.
I giovani pagano, ma alcuni "maestri" predicano ancora la legalizzazione della droga, magari usandone in televisione l'immagine per attirare audience. Altri - come hanno sostenuto in un documento recenti ex capi di Stato, uomini politici e personalità pubbliche - pensano che liberalizzando si sottragga il mercato alla delinquenza.
Sbagliano entrambi: i primi perché speculano in malafede sulla debolezza dell'adolescenza, i secondi perché la liberalizzazione non ha, per esempio, fatto sparire il gioco d'azzardo clandestino e non ha ridotto l'uso dell'alcol. La droga infatti non è in primis un problema di delinquenza, ma di vuoto di speranza e di progettazione, colmato da una felicità artificiale che distrugge il cervello.
Già, perché la droga fa male. E lo mostra la scienza. Uno studio in uscita questo mese sul "British Journal of Psychiatry" mostra che prima si inizia a drogarsi e peggiori sono le conseguenze neurocognitive future. A conferma di quanto già era noto, e cioè che le capacità mnemoniche e di attenzione escono malconce dal contatto con la droga anche a distanza di anni ("Journal of Psychopharmachology", gennaio 2010). La conseguenza pratica è che per chi si droga non basta evitare di farlo durante il lavoro per non provocare gravi danni, come nel caso di autisti o di categorie simili.
Per non parlare poi dei legami della cannabis con l'insorgenza della schizofrenia, una psicosi gravissima, messa in relazione alla tanto decantata "droga leggera": il "Lancet" nel luglio 2007 mostrava che eliminando la marijuana, le psicosi nella popolazione diminuirebbero del 14 per cento. Per questi motivi, e per l'insuccesso delle politiche depenalizzanti, l'American Academy of Pediatrics si è pronunciata chiaramente contro la liberalizzazione della cannabis. A causa dei suoi effetti sui ragazzi, non ultimo il rischio di tumori, e contro l'idea di una cannabis terapeutica, che in ultima analisi si rivela solo una porta aperta alla liberalizzazione piuttosto che un'arma reale contro il dolore.
In questo scenario da emergenza sanitaria, è patetico il tentativo di intorbidare le acque mettendo nel calderone delle classificazioni delle droghe un po' di tutto - dal vino all'Lsd - per dire che in fondo nella droga basta sapersi regolare, senza evidentemente ricordare che il vino è un alimento, e che il tabacco non fa andare fuori di testa ma la marijuana sì. Siamo noi i primi a restare scandalizzati per l'accesso precoce dei ragazzi a tabacco e alcol, e chiediamo forti restrizioni per i giovani e chiare campagne di dissuasione contro il binge drinking o la nicotina; ma questo non significa che a due sciagure si deve aggiungere una terza, soprattutto in un momento in cui la lotta alle prime due sta riscuotendo successi.
La liberalizzazione di una sostanza nociva finisce col far sentire ingiusta la lotta alle altre. E può essere voluta solo da un'ideologia stantia, quella dei reduci degli anni della contestazione, che ancora predicano la mancanza di responsabilità. Trascurando i pianti delle vittime degli incidenti automobilistici causati da giovani drogati, i lamenti dei parenti dei suicidi o le lacrime degli intossicati finiti, quando va bene, in comunità di recupero.
È l'ideologia di chi, come scriveva Pier Paolo Pasolini, ha giocato a fare il rivoluzionario e, arrivato ormai alla vecchiaia, si accorge di "aver servito il mondo contro cui con zelo ha portato avanti la lotta" (Trasumanar e organizzar, 1971). E regala ai giovani solo solitudine, rimpianti e droga, cioè "folletti di vetro, che ti spiano davanti e ti ridono dietro", come Fabrizio De André scriveva, con immagine efficace nel Cantico dei drogati (1968).
È un'ideologia zoppa, che fallisce anche nella lotta allo spaccio, come sottolinea l'apposita task force dell'amministrazione statunitense, dalla quale apprendiamo che in Olanda, dall'apertura dei "marijuana bar" nel 1976, si è triplicato non solo l'uso di quella droga, ma anche dell'eroina. Senza parlare degli esperimenti svizzeri, miseramente falliti, dei parchi riservati ai tossicodipendenti. La sete di significato e di amore non si colma dando alcol e droga. Così si crea soltanto emarginazione.
(©L'Osservatore Romano 9 giugno 2011)