Constant riscoperto. Intervista a Stefano De Luca sulla traduzione italiana dei Principi di politica (1806), di Stefania Pietroforte

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 19 /05 /2011 - 22:59 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un’intervista di Stefania Pietroforte a Stefano De Luca sulla figura e l’opera di Benjamin Constant. L’intervista è stata pubblicata nell’ottobre 2007 sull’edizione on-line del Giornaledifilosofia.net sul sito www.filosofiaitaliana.it. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi di Stefano De Luca vedi su questo stesso sito la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (19/15/2011)

D. Prof. De Luca, vorrei parlare con Lei della traduzione fatta insieme a Chiara Bemporad dei Principi di politica del 1806 di Benjamin Constant, edita da Rubettino nel 2006. E’ una pubblicazione importante per quel che riguarda la conoscenza del pensiero di Constant, quindi è importante per la storia delle dottrine politiche e, più in generale, per la filosofia politica. Nell’Introduzione Lei accenna allo scopo di questa edizione italiana, che è duplice: da una parte, far conoscere meglio Constant, dall’altra mettere a fuoco un tornante decisivo della storia del pensiero politico. Questa traduzione è importante perché rende disponibile in Italia un’opera, un documento fondamentale per la ricostruzione filologica del pensiero di Constant. Ci potrebbe dire in che modo i Principi di politica assolvono a questa funzione? Inoltre, per quali aspetti il pensiero di Constant, secondo Lei, può contribuire positivamente ad arricchire oggi il pensiero politico?

R. La prima cosa da dire è che ci troviamo di fronte alla prima traduzione italiana dei Principi di politica. Esiste un’altra opera di Constant che ha lo stesso titolo: si tratta dei Principi di politica pubblicati da Constant nel 1815 e tradotti in Italia per la prima volta nel 1965 da Umberto Cerroni (e già questo è un dato significativo: bisogna arrivare al 1965 perché venga tradotto nella nostra lingua un testo di uno dei massimi pensatori del liberalismo moderno). Ma i Principi di politica del 1815 (un’agile sintesi del pensiero politico-costituzionale di Constant) hanno ben poco a che fare con i Principi di politica del 1806, che Constant terminò per l’appunto mentre era in ‘esilio’ in Svizzera e che non poté pubblicare per motivi di opportunità politica (l’opera era fortemente antinapoleonica). L’opera del 1806, che è riemersa dai manoscritti di Constant nel 1961 ed è stata pubblicata per la prima volta nel 1980, è un grande trattato sistematico di filosofia politica, il vero e proprio opus magnum di Constant.

D. Non è facile orientarsi nella produzione constantiana, tra opere edite e inedite.

R. Sì, non è facile. Si tratta di una storia complessa, fortemente intrecciata alle vicende storiche del suo tempo, ma anche molto interessante. L’elaborazione del pensiero politico di Constant può essere scandita in tre fasi, che non a caso corrispondono a tre grandi periodi storici: il periodo termidoriano-direttoriale, l’epoca napoleonica e l’età della Restaurazione. Constant, che giunge a Parigi nel 1795, partecipa in prima persona alla tormentata vicenda del Direttorio, insieme a Madame De Staël (figlia di Jacques Necker, ultimo primo ministro liberale di Luigi XVI: entrambi sono nati in Svizzera e si sono conosciuti nel castello di Coppet nel 1794). Tanto Furet quanto Lefebvre, due storici che offrono letture per molti aspetti opposte della Rivoluzione francese, riconoscono in lui e in Madame De Staël gli intellettuali termidoriani per eccellenza, cioè coloro che si battono per distinguere la Rivoluzione dal Terrore, per salvare l’89 dal ‘94.

Il giovane Constant scrive tra il 1795 e il 1799 dei brillanti pamphlets d’intonazione repubblicana e filo-rivoluzionaria: il suo scopo è riportare la rivoluzione nell’alveo dell’89, dopo il dérapage terroristico del periodo giacobino, e a tempo stesso tutelarne le conquiste contro le tendenze controrivoluzionarie sempre più forti nell’opinione pubblica. Sul finire dell’età direttoriale, dopo il colpo di Stato napoleonico, Constant entrerà a far parte del Tribunato, dal quale verrà espulso dopo due anni perché sarà uno dei pochi a fare opposizione al crescente dispotismo di Bonaparte. Espulso dal Tribunato, costretto ad una sorta di esilio nella natìa Svizzera, Constant si trova – a soli 35 anni – con un brillante passato alle spalle e nessuna prospettiva di fronte a sé. Egli si dedica allora alla stesura di quell’opera complessiva sui principi di politica che aveva sempre annunciato nei pamphlets del periodo direttoriale, ma alla quale non si era potuto dedicare perché l’urgenza della lotta politica non lo permetteva.

Durante il Direttorio c’era sempre un’elezione incombente (si votava una volta all’anno), nella quale la sopravvivenza della repubblica o della libertà era in pericolo a causa dei controrivoluzionari o dei giacobini; c’era sempre un argomento sul quale intervenire, ad esempio un pericoloso elogio del Terrore fatto da uno scrittore filorepubblicano: in questo contesto Constant incarnò il prototipo dell’intellettuale militante, che interviene a caldo sulle questioni politiche urgenti, cercando sempre di raccordare i principi alle circostanze. La sua non era una riflessione accademica o dottrinaria, anche se questi pamphlets (che negli anni Ottanta del Novecento sono stati rivalutati da Furet e Gauchet) contengono importanti riflessioni politiche, ovviamente non di tipo sistematico. Negli anni dell’esilio (cioè dal 1802 in poi) Constant può invece dedicarsi ad una riflessione sistematica sui princìpi della politica alla luce del terremoto rivoluzionario e dei suoi esiti inaspettati. E’ il ‘mistero’ del 1789, di questa rivoluzione fatta per conquistare i diritti di libertà e che diede luogo dapprima alla dittatura giacobina, cioè alla prima dittatura assembleare della storia (con il connesso fenomeno del Terrore), e infine al cesarismo napoleonico (annunciando in tal modo le nuove forme di dispotismo del XX secolo).

La Rivoluzione francese è un po’ il crogiolo della nostra identità politico-istituzionale, per lo meno sul continente europeo: in pochi anni vengono sperimentate per la prima volta forme istituzionali, linguaggi politici e anche nuove forme di dispotismo. Boissy d’Anglas disse, nel 1795: abbiamo alle spalle sei anni che sembrano sei secoli. Quelle nuove forme di dispotismo si riveleranno, peraltro, più pericolose di quelle ante-1789, perché la loro novità è il richiamo (strumentale) alla sovranità popolare. Tanto i giacobini (che si autoproclamano interpreti autentici della volontà del popolo), quanto Bonaparte (con i suoi plebisciti) fanno appello al consenso, quindi a un principio che ovviamente non faceva parte dell’armamentario dell’ancien régime. Ora, Constant ha vissuto in prima persona questa straordinaria esperienza, questo terremoto che ha completamente alterato i dati del problema politico, e comprende che è necessaria una riflessione sistematica alla luce di questa ‘accelerazione’ che ha improvvisamente ‘invecchiato’ le riflessioni di Rousseau e di Montesquieu (ossia, dei massimi pensatori politici del Settecento).

Si dedica quindi alla stesura di questo grande trattato, che doveva avere (come lui stesso racconta) una parte dedicata ai principi politici e una parte dedicata ai mezzi costituzionali. Lo termina nel 1803, ma lo mette nel cassetto perché i riferimenti antinapoleonici (l’anno prima Napoleone lo aveva espulso dal Tribunato) non gli permettono di pubblicarlo. Tre anni dopo, però, nel 1806, lo ritira fuori dal cassetto, perché è apparso un pamphlet controrivoluzionario (di un certo conte Molé) che lo irrita particolarmente. Constant vuole replicare a questo pamphlet e pensa di estrarre dal suo trattato del 1803 un’operetta polemica, utilizzandone alcune parti.

Questo ‘estratto’ – nell’arco di nove mesi – lievita sino a diventare un grande trattato autonomo, articolato in 18 libri, 131 capitoli, più una serie di corpose ‘aggiunte’. Si tratta di un’opera sistematica, nella quale Constant affronta tutti gli snodi della teoria politica: il problema della sovranità, il rapporto tra autorità e libertà, i diritti civili e politici, le tematiche economiche e fiscali (è un’attenzione senza precedenti, nel pensiero politico: un quarto di quest’opera è dedicato alla riflessione sui problemi economici e fiscali: Constant conosce di prima mano Adam Smith, Say, Stewart, gli economisti scozzesi, si serve di documenti sull’economia dello Stato francese, di analisi sui neonati Stati Uniti d’America). In esso troviamo anche tutta la tematica della differenza tra libertà degli antichi e libertà dei moderni, che nel 1819 Constant si limiterà a riprendere nella sua opera più nota, il Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni (questa celeberrima differenza deve molto, peraltro, a Madame de Staël, che nel 1798 scrisse un’opera di straordinario interesse – il Des circonstances actuelles, anch’esso rimasto inedito per quasi due secoli – alla quale Constant probabilmente collaborò e di cui si fece una copia parziale: lì troviamo la prima formulazione della distinzione tra libertà antica e moderna).

Nell’ottobre del 1806 i Principi di politica sono finiti, ma anche stavolta Constant non può pubblicarli, perché attirerebbe su di sé i fulmini di Bonaparte. Ancora una volta, quindi, l’opera finisce nel cassetto, dove rimarrà per un secolo e mezzo. Alcuni si sono chiesti perché non l’abbia pubblicata quando Bonaparte uscì di scena e perché, invece, abbia pubblicato altre opere, spesso nella forma del pamphlet o del saggio breve. In questa scelta emerge, a mio parere, un tratto tipicamente constantiano. Constant non è un dottrinario, un professore universitario alla tedesca: a lui non interessa scrivere l’opera sistematica, ma incidere nel vivo delle questioni politiche più urgenti e importanti. E allora cosa fa? Comincia a usare il suo grande trattato come un réservoir. Ne estrae le parti che gli servono sul momento. Si discute della responsabilità dei ministri, e allora lui estrae una parte del suo trattato e la pubblica sotto forma di saggio sulla responsabilità dei ministri. Insomma, Constant pubblica una serie di ‘tasselli’ della sua riflessione politica (il più famoso è il Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni), che ne faranno il maggiore teorico liberale dell’età della Restaurazione. Ma in realtà, tutto quello che pubblica dal 1814 al 1830 lo ‘estrae’ dai Principi di politica del 1806, che lascia inedito.

Ora, così facendo Constant – se mi si perdona l’espressione – si è un po’ dato la zappa sui piedi da solo: ha infatti pubblicato prevalentemente quelle che si chiamano ‘opere di circostanza’, acute e brillanti, ma pur sempre opere di circostanza. E siccome noi siamo figli di una certa tradizione, di un certo pregiudizio per cui o c’è la grande opera sistematica o non c’è il grande pensatore, si è sempre sostenuto che Constant fosse sì un teorico molto brillante e capace di straordinarie intuizioni, ma non un grande pensatore. In realtà, le grandi opere sistematiche c’erano (i grandi trattati sono due: uno di filosofia politica, per l’appunto i Principi di politica del 1806, e l’altro di dottrina costituzionale), solo che Constant li lasciò nel cassetto.

D. Quindi per lui era importante avercelo in testa, il sistema…

R. Sì, avere in testa il ‘sistema’ e intervenire sulle questioni politiche qui e ora. Il problema di tutta la sua vicenda politico-culturale (dal 1795 al 1830) è stato trapiantare istituti di libertà sul terreno francese e difenderli dagli attacchi che provenivano dai ‘profeti del passato’ (i controrivoluzionari) e dagli ‘apostoli del futuro’ (gli ultrarivoluzionari). Ci ha provato sotto il Direttorio e ci ha provato (in parte riuscendoci) durante la Restaurazione. Ci ha provato perfino con l’odiatissimo Napoleone, durante i Cento Giorni, quando l’Imperatore – con una mossa di straordinaria intelligenza – gli offrì la possibilità di scrivere la nuova costituzione dell’Impero, ovviamente garantendo le libertà civili e politiche. Constant ‘cedette’, accettando l’incarico offertogli da Bonaparte: e questo è stato l’episodio che più ha nuociuto alla sua reputazione. Pochi mesi prima, nello Spirito di conquista e di usurpazione, aveva infatti sferrato un attacco durissimo a Napoleone, paragonandolo ad Attila e facendone l’incarnazione del moderno ‘despota’ (quest’opera aveva avuto, tra l’altro, un grandissimo successo).

Ma attenzione: sul piano dei principi Constant non cedette di una virgola, giacché la costituzione che elaborò (e di cui gli snelli Principi di politica pubblicati nel 1815 rappresentano il ‘commento’) era pienamente liberale, nei princìpi e nelle strutture istituzionali.

D. In quali circostanze riemersero i manoscritti dei Principi di politica del 1806?

R. Riemersero per la prima volta nel 1961 a Parigi, ossia a 130 anni dalla morte di Constant, e vennero acquistati dalla Biblioteca Nazionale di Francia. Nel 1974 – quando un erede della famiglia Constant morì e si svincolarono alcune carte – si scoprì che esisteva a Losanna (in Svizzera, dove era nato Constant) un altro manoscritto dei Principi di politica del 1806 e che quello di Parigi era una copia fatta fare da Constant nel 1810. L’unico manoscritto ad essere andato perso è il trattato del 1803 (quello che Constant chiamava il ‘mio grande trattato di politica’). Ma in realtà, i materiali di quel trattato sono stati presi e rifusi da Constant in due opere: i Principi di politica del 1806 nascono dalla parte dedicata ai principi del trattato del 1803 (anche se poi lievitano sino a diventare un grande trattato autonomo); e a quel che resta di questo trattato (cioè alla parte dedicata alle strutture costituzionali) Constant dà il titolo di Frammenti di un’opera abbandonata sulla possibilità di una costituzione repubblicana in un grande paese. L’opera, quindi, non è affatto frammentaria, bensì sistematica: anche questa rimase inedita. Nel 1810 fa fare una copia di queste opere manoscritte, per sicurezza, e sono quelle attualmente conservate alla Biblioteca Nazionale di Parigi con il nome di Opere manoscritte del 1810.

I due grandi trattati rimasti inediti – i Principi di politica del 1806 e La costituzione repubblicana in un grande paese – sarebbero stati pubblicati, per la prima volta, nel 1980 (a Ginevra, dalla casa editrice Droz) e nel 1991 (a Parigi, dalla casa editrice Aubier). Così le grandi opere di Constant appaiono, per la prima volta, a un secolo e mezzo dalla sua morte. Recentemente, sul Corriere della Sera, Giovanni Belardelli ha scritto che è un po’ come se noi conoscessimo vari saggi di Tocqueville su questo o quell’aspetto della società americana e improvvisamente, a 150 anni dalla sua morte, fosse venuta alla luce La democrazia in America, cioè la sua opera fondamentale. Nel caso di Constant disponevamo dei ‘tasselli’, ma ci mancava il mosaico nel suo insieme, ossia la teoria politica come un tutto articolato nelle sue differenti parti. A questo va aggiunto il fatto che il contesto storico era differente: Constant non ha scritto il suo opus magnum di filosofia politica dopo che Napoleone è stato sconfitto, ma mentre era all’apogeo della sua potenza. Le sue idee non sono giunte a maturazione durante la Restaurazione, ma nel cono d’ombra dell’avventura napoleonica, tra il 1803 e il 1806, quando era impensabile vederne la fine. Constant era fuori dalla scena pubblica, privo di qualsiasi prospettiva, e il regime napoleonico sembrava più solido che mai: quindi, i Principi di politica del 1806 hanno anche il valore di una grande testimonianza etico-politica. Non sono il ‘commento’ di una rivoluzione già fatta (l’abbattimento del dispotismo napoleonico), ma il manifesto per una rivoluzione da compiere (un po’ come i due trattati sul governo civile di Locke, che furono pubblicati nel 1690, ma scritti dieci anni prima: e questo conferisce loro un significato del tutto diverso).

Il pensiero politico di Constant non è quindi maturato durante la Restaurazione (come si è pensato fino agli anni Settanta), ma negli anni del Consolato e del primo Impero, a ridosso dell’esperienza direttoriale e rivoluzionaria.

Questo spostamento indietro di dieci anni nella ‘periodizzazione’ del pensiero constatiano ha profondamente alterato la sua fisionomia, dando luogo a nuove interpretazioni. Ecco perché i Principi di politica del 1806 sono un’opera fondamentale e doveva essere tradotta in italiano: come ha scritto Todorov, quest’opera è l’anello mancante tra lo Spirito delle leggi e il Contratto sociale da un lato e La democrazia in America dall’altro. Ed è francamente stupefacente che in Italia si continuasse a proporre ennesime traduzioni del Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni e non si traducesse quest’opera. Il mio primo scopo è stato quindi quello di colmare una lacuna al tempo stesso culturale, storiografica, editoriale. Si trattava di mettere a disposizione degli studiosi, degli studenti e di chiunque abbia interesse per la politica un grande classico del pensiero politico. C’era poi una ragione più profonda: sono infatti convinto che i Principi di politica del 1806 siano un tornante decisivo nella storia del pensiero politico, perché si tratta della prima riflessione sistematica sul liberalismo alla luce della Rivoluzione francese, cioè alla luce della genesi convulsiva della democrazia contemporanea.

D. Per tutto quello che Lei ha fin qui detto è chiaro che è particolarmente significativo poter collocare cronologicamente quest’opera.

Constant, come Lei ricordava, l’ha concepita non al tramonto dell’intera parabola rivoluzionaria (includendo in essa l’era napoleonica), ma quando questa parabola stava ancora evolvendo. Si tratta pertanto di un lavoro che, a parte le venature polemiche antinapoleoniche, contiene una riflessione di vasta portata, incentrata sulla natura del potere e della sovranità in quanto tali (e non soltanto di quella sovranità ‘degenerata’ rappresentata da Napoleone). I Principi di politica del 1806 hanno dunque uno spessore filosofico. Lei prima anticipava la questione del consenso, ossia di una sovranità per la prima volta pensata concettualmente in termini di consenso, e per la prima volta pensata anche alla luce della teoria di Roussaeu, anche se Constant è fortemente critico verso il pensiero del Ginevrino. Oggi questo per noi è particolarmente interessante, perché ci fa riflettere sulla complessità di quei concetti filosofico-politici che riguardano le teorie liberali da una parte, e le teorie democratiche dall’altra, proprio per ciò che riguarda la definizione dei diritti individuali.

R. Sì, in effetti i Principi di politica del 1806 possono essere definiti una sorta di prologo alla contemporaneità. Non a caso, la monografia che ho dedicato nel 2003 al pensiero politico di Constant si intitolava Alle origini del liberalismo contemporaneo. Constant coglie il nuovo scenario che si determina con la Rivoluzione francese, la cui principale novità consiste nella genesi convulsiva della democrazia e nei rischi che questa comporta. Ed infatti Constant dedica pochissima attenzione ai ‘profeti del passato’, cioè ai pensatori che guardano con nostalgia al pre-1989, insomma ai controrivoluzionari come Maistre o Bonald, mentre si occupa degli ‘apostoli del futuro’, cioè di quei pensatori che, sulla scorta di Rousseau o Molé, immaginano un regime che strumentalizza il principio della sovranità popolare per imporre il dominio di un’élite (giacobinismo) o di un uomo (bonapartismo). Constant comprende per primo che il nuovo crinale della battaglia politica non passa più tra fautori della rivoluzione e controrivoluzionari, ma tra i diversi eredi dell’89, poiché nell’89 nascono le principali correnti politicoideologiche della modernità (per lo meno sul continente europeo), dai liberali ai democratici ai proto-socialisti o proto-comunisti (si pensi a Babeuf).

D. Ecco, su questo vorrei che Lei ci spiegasse meglio che cosa significa “strumentalizzare”, perché qui se non capisco male si tratta del fatto che Constant vedeva declinato il principio democratico in termini tali da risultare poi un sostanziale tradimento dell’originale ispirazione.

R. Io partirei dal discorso della novità del consenso a cui Lei faceva riferimento prima. Il consenso, in termini di filosofia politica, direi che non è una novità. La novità è la democrazia e le due cose non necessariamente coincidono. Mi spiego: per tutti i protagonisti del giusnaturalismo moderno, a cominciare da Hobbes, il principio di legittimazione del potere è il consenso, perché il potere nasce da un contratto, che invece manca nel modello aristotelico, predominante sino alle soglie del XVI secolo. Nel ‘modello aristotelico’ non c’è contratto – ossia, artificialità del potere politico e natura consensuale del suo fondamento – perché la socialità è qualcosa di naturale: la società, e le sue istituzioni, sorgono ‘per natura’.

D. Come sarà poi per Marx…

R. Beh, quello di Marx è un discorso molto complesso che per ora lascerei fuori, anche perché per Marx, come già per Hegel, lo sfondo non è la ‘natura’, ma la ‘storia’. Per Aristotele non c’è bisogno del consenso, ossia di una decisione volontaria da parte degli uomini, per far sorgere la società e lo Stato, perché il legame sociale è inscritto nella natura delle cose. L’uomo è naturalmente socievole e la società, per parte sua, è naturalmente gerarchica fin dal suo primo nucleo, che è la famiglia (per natura c’è chi è atto al comando – dice Aristotele – e chi è atto all’obbedienza). Non c’è quindi bisogno del contratto perché gli uomini sono naturalmente diseguali. La grande novità del pensiero politico moderno, da Hobbes in avanti, è che si parte dall’ipotesi (razionale) che gli uomini siano uguali nello stato di natura, ed è per questa ragione che si arriva al contratto: non si arriva al contratto se non si parte dall’ipotesi che gli uomini siano uguali, perché ci si accorda tra eguali. Persino in Hobbes, che poi dà un esito assolutistico al suo pensiero, il principio di legittimazione originario è il consenso: gli individui si accordano tra di loro per far sorgere lo Stato civile, il cui scopo è rimediare ai difetti dello stato di natura.

Il rimedio avrà natura diversa a seconda della rappresentazione dello stato di natura (ossia, della concezione antropologica): se i difetti dello stato naturale sono gravissimi ci vuole un’enorme concentrazione di potere (il Leviatano di Hobbes); se invece i difetti non sono così gravi è sufficiente uno Stato dai poteri limitati (lo Stato liberale di Locke). Nel Seicento e nel Settecento i più grandi filosofi politici immaginano ripetutamente la scena del contratto e contratto vuol dire consenso, vuol dire che lo Stato sorge da un accordo. Il potere non scende dall’alto, ma sale dal basso, da una società composta di individui eguali. Quindi il principio di legittimazione dello Stato moderno è il consenso, anche in autori come Hobbes, il quale si serve del consenso per far sorgere lo Stato (e soltanto per quello: dopo non resta che obbedire).

Dunque il principio del consenso, a livello teorico, esiste già. Ed ha operato così potentemente che la scena ripetutamente immaginata dai filosofi politici del Seicento e del Settecento si realizza a grandezza naturale nella Rivoluzione americana prima e nella Rivoluzione francese dopo. Il documento più celebre della Rivoluzione francese è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che è impensabile senza il giusnaturalismo, ossia senza l’idea dei diritti individuali, senza l’idea dell’eguaglianza degli uomini e così via. Il contratto sorge tramite un accordo: questa è la magnifica aurora di cui parlava Hegel, cioè lo Stato si fonda su un principio di razionalità. Questo principio era stato declinato in maniera diversa, e la declinazione più radicale (in termini di eguaglianza) era stata quella di Rousseau. Però, lo ribadisco, non era una novità. Quello che è nuovo, nel 1789, è l’entrata in scena delle grandi masse. Il principio del consenso e della libertà – che in Inghilterra si era affermato in modo graduale: prima nel parlamento e poi nella società, insomma prima in una sorta di élite e poi in gruppi sociali sempre più grandi – questo principio che era stato pensato dalle menti illuminate del Seicento e dell’epoca dei Lumi assume una forza travolgente e difficilmente controllabile perché viene realizzato, in Francia, dalla grande platea degli ‘esclusi’.

Quindi c’è una straordinaria esplosione di violenza, anche perché la platea degli ‘esclusi’ non si è formata sui testi dei grandi filosofi dei lumi: essa porta dentro di sé la mentalità arcaica del castigo, la concezione volontaristica dell’universo per cui in tutto quello che accade ci deve essere un colpevole, un responsabile, ed è caratterizzata dall’ossessione purificatrice della violenza. Sta di fatto che questo principio del consenso subisce una profonda alterazione durante la Rivoluzione francese: si vede in concreto che cosa significa, in quelle date circostanze, lanciare nella società il principio ‘astratto’ secondo cui ogni individuo è sovrano. Si produce un movimento magmatico, spesso incontrollabile, con improvvise e drammatiche esplosioni di violenza (le famose ‘giornate’), sino al culmine del Terrore. Noi non abbiamo più la percezione dell’effetto che il Terrore fece sui contemporanei: lo sgomento fu enorme, tanto è vero che molti pensatori cominciarono a guardare con sospetto la Rivoluzione francese proprio a partire dal Terrore, anche quelli che avevano guardato ad essa con occhio benevolo, per esempio Kant ed Hegel.

Il problema del consenso prende un significato tutto diverso dopo la Rivoluzione francese, perché la Rivoluzione l’hanno iniziata uomini di legge formatisi sui testi dei grandi filosofi illuministi, ma è stata portata avanti, lo ripeto, dalla grande platea degli esclusi. Non a caso la Rivoluzione francese non riesce a terminare: la Francia sussulta continuamente e non riesce a darsi, a differenza dell’Inghilterra o degli Stati Uniti, istituzioni stabili.

Questo in America non è successo: lì è nato un ordine politico straordinariamente stabile, perché la Costituzione che gli americani si danno undici anni dopo l’indipendenza (che è anche la prima costituzione federale che si conosca) è sostanzialmente ancora quella. In Francia invece il principio democratico (che come spiegherà Tocqueville non aveva radici nei costumi, nelle istituzioni, nella mentalità) viene strumentalizzato: i giacobini dicono di agire nel nome del popolo, ma non vi sono strumenti o istituzioni per verificare questa asserzione, non ci sono canali di verifica del consenso. C’è l’auto-identificazione con la volontà popolare e, come dire, il ‘sequestro’ della volontà popolare stessa (come spesso accade nei ‘movimenti’). In realtà il consenso non c’era, tanto è vero che persino Babeuf inneggiò alla caduta di Robespierre.

D. E’ qui che Constant chiama in causa Rousseau...

R. Sì. Secondo Constant le radici teoriche di una possibile strumentalizzazione del principio democratico della sovranità popolare stanno nel pensiero di Rousseau. Constant espone questa tesi (assai controversa) nei primi tre libri dei Principi di politica del 1806. A mio avviso, Constant è stato influenzato, su questo tema, dal giovane Sismondi. Questi, nel 1796, era in esilio a Pescia, in Italia, perché la Svizzera era stata invaso dalle truppe francesi e lì scrisse le Ricerche sui popoli liberi dell’antichità, che non riuscirà a pubblicare (di nuovo ci imbattiamo in un testo inedito di straordinario interesse). Sismondi aveva affidato questo suo manoscritto a Madame de Staël e quest’ultima lo aveva passato a Constant perché trovasse un editore. Constant non trovò l’editore, ma lesse il manoscritto di Sismondi, la cui originalità consisteva nel rifarsi, in polemica con la tradizione francese, alla tradizione politico-costituzionale anglo-americana. Sismondi distingueva tra libertà civile (oggi diremmo liberale) e libertà democratica: egli sosteneva che un certo modo di intendere la democrazia (quello teorizzato da Rousseau) portava all’oppressione degli individui. Io penso che Constant, grazie a questo testo, mise a fuoco la critica a Rousseau e questa idea si saldò alla distinzione (probabilmente elaborata insieme a Madame de Staël, come ho già detto) tra libertà antica e libertà moderna. E’ in questa fase che Constant cominciò a vedere in Rousseau il principale teorico di una libertà di tipo antico, arcaica e anacronistica, del tutto inadatta al mondo moderno.

D. La possibilità della strumentalizzazione è forse allora qualche cosa di più che una possibilità, sembrerebbe ciò che non può non accadere di questo principio democratico.

R. Rousseau pensava a una democrazia diretta: il suo modello ideale era la democrazia diretta. E infatti disprezzava il modello inglese, ossia quello che bene o male era all’epoca il sistema politico più libero d’Europa: Rousseau diceva che gli Inglesi erano liberi solo per pochi minuti all’anno (quando votavano, cioè) e usavano quella libertà per rinunciarvi (giacché delegavano la loro sovranità a dei rappresentanti).

D. Si però, tradotto in Francia e non a Ginevra, ovviamente era impraticabile l’idea di un’assemblea di cittadini permanente e quindi la volontà generale doveva prender corpo in istituzioni rappresentative di essa.

R. Non c’è dubbio, anche se, ribadisco, Rousseau era contrario al principio della rappresentanza. Per lui la vera democrazia presuppone l’autonomia, ossia l’esercizio di una libera volontà. Ma la volontà è libera solo se è propria: o è propria ed allora è libera, o non è propria e allora non è più libera perché è di qualcun altro.

Constant sostiene, in proposito, che Rousseau ha il ‘sentimento della libertà’, ma non la sua teoria: anzi, dal punto di vista teorico le sue idee sono pericolosamente esposte ad essere strumentalizzate da parte di élites che si impossessano del discorso della volontà generale. Constant dice che nel pensiero di Rousseau ci sono due principi fondamentali. Il primo è che la volontà generale deve emanare dal corpo dalla nazione: e qui Constant non ha nulla da obiettare, anzi condivide questo principio, nel senso che il potere dello Stato si basa sulla forza o si basa sul consenso. Queste sono le sole due possibili ipotesi.

Quindi, scartando la forza perché è illegittima (perché è la negazione del diritto), non rimane che il consenso: allora non c’è dubbio alcuno che, quanto alla titolarità del potere, sovrano legittimo è la società nel suo complesso, ragion per cui il potere deve derivare dal basso. Non è una cosa di poco conto questo riconoscimento da parte di Constant.

D. Quindi la legittimità del diritto affonda nella collettività intesa nel senso di tutti gli individui singolarmente intesi?

R. Sì, anche se per Constant la società non è, come per Rousseau, un tutto organico, ma un insieme composto di individui. Dicevo che non è riconoscimento di poco conto, quello del principio della sovranità popolare, perché ancora durante la Restaurazione i liberali come i Doctrinaires (Royer-Collard, ad esempio) cercavano una‘ terza via’ tra la sovranità popolare e il vecchio modello della sovranità per diritto divino e parlavano di sovranità della ragione.

La posizione di Constant, per l’epoca, era molto avanzata, anche perché l’espressione “volontà generale” riportava alla mente i giacobini e il Terrore. Va anche detto che quando Constant parlava di volontà generale intendeva una cosa diversa rispetto a Rousseau. La volontà generale a cui pensa Constant è molto simile alla volontà della maggioranza che noi conosciamo, cioè è la somma algebrica delle volontà particolari che si incontrano e si elidono, dando luogo ad una posizione di compromesso che fa capo alla maggioranza. Viceversa quando Rousseau pensa alla volontà generale non pensa affatto alla volontà della maggioranza e nemmeno alla volontà di tutti (ci sono dei paragrafi del Contratto sociale che lo dicono esplicitamente: la volontà generale non è la volontà di tutti, se per volontà di tutti s’intende la somma delle volontà particolari) ma pensa a quella volontà tesa all’interesse generale che esprime una società coesa, armonica e ‘sana’ (cioè non afflitta dal particolarismo e dai suoi ‘sintomi’: lunghe discussioni, conflitti, ecc.).

Se per Constant la volontà generale scaturisce dall’incontro-scontro delle volontà particolari, per Rousseau la volontà generale scaturisce dall’annullamento della volontà particolare: quando io nell’assemblea rousseauiana voto non sto esprimendo il mio parere su una legge, non è questo che mi viene chiesto di fare. Mi viene chiesto: questa legge è conforme all’interesse generale? Ed è a tale quesito che rispondo, spogliandomi della mia particolarità, dimenticandomi – per così dire – di essere un individuo e divenendo una cosa sola col corpo politico.

D. Si potrebbe dire che Constant abbia una visione più atomistico-empiristica …

R. Certamente, atomistica ed empiristica nel senso che si parte dall’idea che l’individuo non può dimenticare di essere tale, non può perdere (e non è bene che perda) la sua particolarità. Non vi è alcuna demonizzazione del particolarismo: mentre per Rousseau il particolarismo è il luogo della patologia sociale (tanto è vero che dice: là dove si discute troppo, il corpo sociale ha qualcosa che non va perché se è sano vede abbastanza velocemente qual è il bene comune, qual è l’interesse generale), in Constant dove c’è il dissenso non c’è patologia. Il dissenso è la condizione normale di una società umana in cui si formano opinioni differenti. Ma il dissenso non è soltanto una condizione normale e ineliminabile, cioè fisiologica; è anche una condizione auspicabile, cioè è la condizione di salute del corpo sociale, perché dal confronto tra le varie opinioni scaturisce poi la decisione migliore (o la meno peggiore).

D. Insomma, la volontà generale non è un universale presupposto ma è il risultato empirico di dati empirici.

R. Lei lo ha detto molto meglio di me, è così: questa è la differenza fondamentale. Quindi anche se Constant usa lo stesso termine (volontà generale) pensa a qualcosa di molto diverso. E tuttavia è comunque importante il riconoscimento dell’origine dal basso del potere, l’idea che il sovrano sia, in ultima istanza, la società.

Quello che invece Constant rifiuta fortemente in Rousseau è la clausola fondamentale del suo contratto sociale e cioè l’alienazione completa di ogni individuo, con tutti i suoi diritti e tutti i suoi beni, alla comunità. Rousseau aveva detto: non c’è nulla da temere, perché è vero che noi ci spogliamo come individui di tutti i nostri diritti, ma li riprendiamo in quanto cittadini, cioè in quanto membri perfettamente uguali di quel corpo coeso che è il sovrano. Ora, su questo punto Constant fa due obiezioni. La prima, di natura pratica, è la seguente: guarda che questo sovrano astratto di cui tu parli quando dovrà concretamente esercitare il suo potere dovrà per forza di cose delegarlo, e questo per ipotesi anche in un piccolissimo Stato. Per ipotesi, in un cantone svizzero si possono anche riunire in assemblea tutti i cittadini: tremila persone possono riunirsi insieme due volte all’anno e decidere le leggi, ma poi dovranno pur incaricare qualcuno di far rispettare l’ordine pubblico, qualcuno di riscuotere le tasse e così via. Ma gli Stati moderni non sono poleis, non sono città-Stato.

Sono Stati di grandi dimensioni, dove la democrazia diretta è praticamente impossibile. Si creerà quindi comunque una distinzione inevitabile tra governanti e governati e ci sarà qualcuno che è ‘più uguale’ degli altri, che ha più potere degli altri: non è vero che la condizione rimane uguale per tutti, perché la delega è indispensabile e allora rimarrà valido il principio di controllare e limitare il potere. Il fatto che in linea teorica, in democrazia, il potere appartenga a tutti non vuol dire che in linea pratica accada questo: una cosa è la sovranità astratta, dice Constant, un’altra cosa è il suo esercizio reale, che è sempre nelle mani di pochi, di una minoranza, e quindi dobbiamo stare attenti. Cosa accadrà se noi applichiamo il principio rousseauiano nella sua interezza? Accadranno due cose.

La prima è che gli individui risulteranno espropriati della libertà a vantaggio della società, nel senso che prevarrà sempre e comunque la volontà collettiva sulle volontà individuali: è la politicizzazione integrale dell’esistenza. Direbbe Rousseau: sono libero perché partecipo al dibattito e tramite il voto mi auto-determino. Certo, sono libero di partecipare al dibattito sull’ammissibilità di un determinato culto religioso; ma se poi quell’assemblea decide a stragrande maggioranza che quel culto religioso non è lecito, io partecipo liberamente al dibattito, voto liberamente come cittadino, come membro dell’assemblea, ma appena sciolta l’assemblea e tornato privato individuo, se provo a praticare quel culto subisco la coercizione. Quindi perché l’insieme sia libero, gli individui finiscono per risultare asserviti, cioè i diritti individuali scompaiono, vengono assorbiti, per così dire, dal corpo politico: e Constant non pensa affatto, come dirà qualcuno, che questa sia una “libertas maior”. Va poi detto che nelle grandi società moderne, caratterizzate dalle vaste dimensioni e da una popolazione molto grande (la Francia dell’epoca di Constant aveva 26 milioni di abitanti), non sarà la società nel suo complesso a esercitare il suo dominio sulle volontà individuali, ma lo eserciterà quella minoranza che detiene le concrete leve del potere e che si forma necessariamente, anche in un regime democratico.

Questa seconda espropriazione di libertà (non degli individui a vantaggio della società nel suo complesso, ma della società stessa a vantaggio di alcune élites) sarà nascosta, perché coloro che eserciteranno il potere diranno di esercitarlo nel nome della volontà popolare, diranno di essere i docili strumenti di quel che realmente vuole il popolo. E disporranno – dice Constant – dei mezzi di persuasione e di coercizione per far sì che la volontà generale si manifesti nel modo in cui loro vogliono. Qui Constant è straordinariamente acuto sui rischi che corre una democrazia quando voglia essere ‘pura’, ossia fondarsi esclusivamente sulla sovranità del popolo e non anche sull’esistenza di una sfera di diritti individuali.

Nel sistema a cui pensa Constant il popolo è sovrano, ma non su tutto. L’universalità dei cittadini è sovrana, dice Constant, ma questo non significa che disponga di un potere universale. E’ necessario stabilire cosa affidare alla decisione della società, della collettività nel suo complesso – il che implicherà sempre la formazione di una maggioranza e di una o più minoranze (e quindi quando farò parte della minoranza io non starò obbedendo a me stesso, come dice Rousseau, starò obbedendo alla maggioranza, che è un’altra cosa) – e stabilire cosa non bisogna affidare alla decisione collettiva, ma lasciare alle decisioni dei singoli individui (ad esempio, ciò che ha a che fare con il pensiero, con la religione).

D. Questo, secondo Lei, deriva da una concezione antropologica particolare di Constant, cioè dal convincimento di una particolare idea della natura umana, o deriva più propriamente da un modo molto rigoroso di concepire la libertà?

R. Questo è un presupposto tipicamente liberale: esiste una sfera sacra di indipendenza individuale. Questa riguarda in primo luogo la coscienza, cioè la libertà religiosa e la libertà del pensiero. E qui probabilmente in Constant agiscono anche le sue radici protestanti, poiché proveniva da una famiglia ugonotta fuggita dalla Francia ai tempi delle persecuzioni contro i protestanti e rifugiatasi in Svizzera. Ma riguarda anche la sfera della persona: pensiamo alla tematica fondamentale delle garanzie giudiziarie. Là dove lo Stato esercita uno dei suoi massimi poteri, quello di privarci della libertà personale e recluderci, lì ci devono essere delle garanzie peculiari a nostra difesa. Poi vi è anche la libertà di agire e soprattutto di agire in senso economico, al fine di procurarci quei mezzi che servono per realizzare i nostri fini: ma Constant colloca la libertà economica su un piano diverso. La motiva in termini di opportunità e non in termini assoluti. Beninteso, Constant difende con grande energia il principio della libertà economica e lo ritiene il vero motore del progresso, mentre è contrario ad ogni forma di egualitarismo. Ma la libertà economica non è motivata da lui in termini assoluti, come invece accade per le libertà relative alla coscienza e alla persona.

D. Mi domandavo se nel caso di Constant questo fosse coniugabile con una visione anche metafisica?

R. “Metafisica” è un po’ una parola grossa per Constant e probabilmente lui non l’avrebbe apprezzata. Constant non elabora una riflessione filosofica articolata, ma delinea – già negli scritti del periodo direttoriale – una filosofia della storia fondata su una concezione idealistico-progressiva dell’uomo, che poi rimarrà a fondamento del suo pensiero politico e delle sue analisi storiche.

D. Le facevo questa domanda perché mi veniva in mente che Hobbes, che Lei citava prima, scrive anche gli Elementi di legge naturale e politica dove la sua grandiosa visione politica ha anche uno sfondo metafisico.

R. Anche sotto questo profilo la riflessione di Constant rappresenta un momento di passaggio, nella storia del pensiero liberale. E’ nei suoi scritti che si può infatti osservare l’abbandono della fondazione giusnaturalistica, predominante nel liberalismo sei-settecentesco, e l’approdo ad una fondazione di tipo storicistico ed eticospiritualistico, che sarà prevalente nel liberalismo ottocentesco e novecentesco. Constant delinea, sin dagli scritti direttoriali, una filosofia della storia incentrata sul progresso delle idee (che presenta forti assonanze con quella kantiana), alla quale affiancherà in seguito una concezione della morale fondata sul sentimento religioso: queste due posizioni filosofiche permettono a Constant di cogliere la storicità (e dunque la relatività) dei fenomeni sociali e politici, ma al tempo stesso di affermare l’esistenza di valori assoluti quali la libertà e l’eguaglianza: questi ultimi nella storia si realizzano progressivamente, soltanto dopo che la ragione (facoltà del perfezionamento) li ha ‘dimostrati’, mentre sul piano etico sono sempre validi e vengono colti tramite il sentimento (facoltà che non varia). Tale concezione filosofica – per quanto non sistematica – è stata trascurata anche dagli interpreti più attenti, i quali hanno spesso compiuto una reductio ad politicum di tutto il pensiero constantiano, svalutando l’autonomia della sua riflessione filosofica e il ruolo fondativo che questa svolge nei confronti della teoria politica.

D. Ci vuole illustrare più in dettaglio la filosofia della storia elaborata da Constant?

R. Il primo celebre passo in cui Constant delinea una sua concezione filosofica generale è rintracciabile nel VII capitolo del De la force, ossia del suo primo pamphlet (1796). Constant sta svolgendo una serrata critica al principio ereditario, concepito come fulcro del governo monarchico; e per concluderla mette avanti quello che considera un argomento decisivo – ossia, il sistema ereditario è destinato a scomparire perché è storicamente superato. Esso è diventato infatti insostenibile sul piano delle idee e sono le idee, per Constant, a guidare la storia.

“Il dominio del mondo, egli scrive, è stato affidato alle sole idee. Sono le idee che creano la forza, trasformandosi in sentimenti, passioni, entusiasmi. Esse si formano e si elaborano nel silenzio, ma si incontrano e si accendono grazie agli scambi tra individui. E così, completatesi e rafforzatesi reciprocamente, ben presto si scatenano con impeto irresistibile”. Le idee costituiscono dunque la vera molla del processo storico: anche se noi, in superficie, vediamo operare forze materiali (il potere, la violenza, gli interessi), queste ultime in realtà sono generate dalle idee e stanno quindi ad esse come l’effetto sta alla causa.

Negli altri pamphlets direttoriali Constant non fa che ribadire tale tesi: egli parla di “princìpi” che si realizzano gradualmente ma inesorabilmente, conducendo al trionfo della verità (pacifica) sulle passioni (violente), di uno “spirito umano in marcia verso l’avvenire” che nessuna forza potrà arrestare, del “pensiero” che compie “attraverso i secoli, malgrado le rivoluzioni, e sulle tombe delle generazioni scomparse, il grande lavoro della ricerca della verità”. Al di là delle variazioni terminologiche (idee, princìpi, spirito, pensiero, lumi) il concetto è sempre il medesimo. Il ruolo determinante, nel processo storico, spetta a fattori di ordine ideale-culturale: ovunque, afferma Constant, noi vediamo il dominio delle idee.

D. Ma quale concezione ha delle idee Constant?

R. Quanto all’origine, ne ha una concezione essenzialmente empiristica: esse si formano a partire da sensazioni, esperienze, eventi, tutte circostanze esterne che secondo Constant non sono affatto in nostro potere. Egli pone quindi un chiaro limite alla spontanea attività della ragione, la quale non può non partire dai dati dell’esperienza; ciò non significa, tuttavia, che le idee si riducano a meri riflessi del mondo esterno. Una volta formatesi nell’intelletto esse subiscono infatti un duplice processo di maturazione, tanto a livello individuale (dove esse non solo “si formano”, ma si “elaborano”) quanto a livello sociale (dove, una volta formate ed elaborate, “si incontrano e si accendono grazie agli scambi tra individui”): ed è solo in virtù di questo processo che giungono a maturazione, assumendo la loro fisionomia completa. Esiste pertanto uno sviluppo delle idee, frutto dell’autonoma capacità elaborativa della ragione, sviluppo nel quale la ‘chimica’ del dibattito culturale svolge un ruolo decisivo.

Sulla base di tale concezione si può ben comprendere perché Constant attribuisca tanta importanza agli intellettuali. La discussione pubblica sulle idee è infatti essenzialmente affar loro: ed è tale discussione la ‘via regia’ alla maturazione delle idee e al loro divenire princìpi dotati di evidenza. Gli intellettuali sono lo strumento di cui il pensiero si serve per compiere il suo lavorìo secolare di ricerca della verità: essi non creano, ma scoprono i princìpi quando questi ultimi sono ancora nel grembo della storia o quando, venuti alla luce da poco, conducono un’esistenza insidiata da ogni lato; e il loro compito consiste nel dimostrarli e nel renderli concretamente applicabili.

Soltanto dopo tale processo di elaborazione i princìpi potranno sprigionare la forza dell’autoevidenza, trasformandosi in sentimenti, passioni ed entusiasmi, e avviando in tal modo un processo irresistibile di trasformazione della realtà. Un’idea messa in circolazione, scrive infatti Constant, “non è mai stata ritirata”, a meno che non fosse ancora immatura; ma, una volta raggiunta la sua fisionomia completa, essa è destinata a realizzarsi “con un impeto irresistibile”.

Le idee di cui parla Constant hanno dunque una natura ben precisa: esse sono il risultato di una complessa interazione storico-sociale e costituiscono la progressiva manifestazione di una ragione intrinseca al mondo storico. Sono idee che “esistono per necessità” e non vanno quindi confuse con quelle idee che, frutto di interessi contingenti o di aspirazioni utopisitiche, sono del tutto prive di efficacia storica. E’ impossibile – sostiene Constant in polemica con tutta la letteratura controrivoluzionaria e, in particolare, con Burke – stabilire idee che non scaturiscano dalla forza delle cose o far retrocedere quelle che la forza delle cose ha prodotto o, infine, restituire valore a quelle che hanno fatto il loro tempo. Questa necessità che opera nella storia è frutto della “suprema volontà della natura”, la quale mira al pieno dispiegamento della razionalità umana.

Qui la filosofia della storia constantiana prende un sapore nettamente kantiano: come il filosofo tedesco, Constant è convinto che nella storia si realizzi un disegno della natura e che tale disegno abbia come fine il dispiegamento delle più alte potenzialità umane. Mentre il filosofo di Königsberg, tuttavia, sottolinea il ruolo ‘inintenzionale’ ma positivo svolto dalle passioni in tale processo, facendo suo un tema tipico dell’Illuminismo scozzese, Constant sottolinea piuttosto la sconfitta delle passioni ad opera della ragione, rivelando in questo aspetto di essere più vicino alla mentalità dell’Illuminismo francese.

D. Quali sono i principi che, secondo Constant, si realizzano nella storia?

R. Si tratta sostanzialmente dei diritti individuali di libertà, i quali, affermandosi progressivamente contro tutte le forme di potere oppressivo ed abusivo e contro le diseguaglianze di principio, permettono al genere umano di elevarsi eguagliandosi. In altre parole, le idee o princìpi di cui parla Constant altro non sono che i princìpi della tradizione giusnaturalistico-liberale, sottratti alla loro atemporalità e immessi nel flusso storico quale veicolo di una loro progressiva realizzazione. Ma se la storia è il frutto di un disegno necessario, allora – osservando il suo sviluppo – sarà anche possibile coglierne la direzione e le tappe principali. Sugli inizi di tale processo Constant è assai prudente. L’origine della società, scrive nel De la force, è “un grande enigma” che non può essere risolto; ma se le origini sono avvolte in una “nube impenetrabile”, il successivo sviluppo è viceversa “semplice e uniforme”.

In poche righe il giovane Constant liquida un tema intorno al quale aveva ruotato la filosofia politica dei due secoli precedenti – la definizione dello stato di natura e delle sue caratteristiche – preannunciando contemporaneamente l’atteggiamento del secolo successivo: al ragionamento tramite la natura si sostituisce il ragionamento attraverso la storia. Di un preteso uomo naturale non sappiamo né possiamo sapere nulla; ma se osserviamo la storia, essa non lascia dubbi circa la meta verso cui si dirige il genere umano: “noi vediamo il genere umano avanzare verso l’eguaglianza, sulle rovine di istituzioni di ogni genere”. Dunque la storia ha un fine ben preciso: essa tende verso l’eguaglianza; e poiché “ogni passo compiuto in questo senso è stato irreversibile” e ogni movimento retrogrado non è che apparente o momentaneo, ne consegue che tale cammino è regolare e inarrestabile.

Constant non dice molto di più sulla mèta finale: ma sembra ragionevole escludere che possa trattarsi di un’eguaglianza di tipo sostanziale, dal momento che essa è il culmine di un sistema di princìpi i quali includono, a pieno titolo, tutte le libertà individuali, incluse quelle relative alla sfera economica. Individuati la molla, la direzione e il fine del processo storico Constant abbozza infine le tappe del suo sviluppo. Egli individua quattro fasi principali, caratterizzandole in base all’istituzione sociale predominante: sistema delle caste, schiavitù, feudalità, nobiltà. Ognuna di esse è stata distrutta da quella successiva, che ha comunque rappresentato un progresso; l’ultima è stata distrutta dalla Rivoluzione francese, che inaugura l’era delle “convenzioni legali”.

Come vede, la filosofia della storia di Constant è una delle molte versioni in cui trova realizzazione quella fede nel progresso che, nata nell’epoca dei Lumi, dominerà il secolo di Hegel, Marx e Comte, per poi venire irrimediabilmente erosa dai drammi del Novecento. La storia per Constant non è un casuale susseguirsi di eventi senza scopo e senza significato, né un semplice alternarsi di fasi di progresso e di regresso, bensì una trama unitaria retta da un disegno complessivo, consistente nell’inesorabile dispiegarsi della razionalità umana e, tramite essa, nella progressiva conquista della libertà, dell’eguaglianza e della pace. Essa è scandita da una serie di tappe, ognuna delle quali segna un passo in avanti verso la mèta ultima dell’eguaglianza nella libertà: e poiché tale mèta è concepita come supremo valore etico, il processo storico assume un ritmo ascendente.

La storia è il teatro della progressiva emancipazione umana – sotto la guida della ragione – dai pregiudizi, dalle passioni, dalla violenza, dall’oppressione, dalla diseguaglianza nei diritti. Quella di Constant è dunque una filosofia della storia razionalistica, progressista e ottimista; essa non è tuttavia priva di tragicità, perché il suo autore è consapevole del ruolo che la violenza svolge in questo processo e del costo dei movimenti retrogradi che si possono verificare (e che a lui toccò di sperimentare personalmente).

Il giudizio storico-politico e la libera azione umana devono essere collocati, secondo Constant, all’interno di questo quadro, se vogliono essere dotati di senso e di efficacia pratica e, soprattutto, se si vogliono evitare quegli errori che gli individui in carne ed ossa pagano a così caro prezzo: “Tutte le nostre sventure attuali, tutti gli sforzi inutili che disorganizzano ma non rallentano, provengono esclusivamente da un giudizio sbagliato sugli uomini, su ciò che sono e su ciò che possono diventare nella marcia della specie”. Come vede, la riflessione filosofica di Constant sulla storia – pur non essendo particolarmente originale, né ampiamente articolata – ha una sua indubbia autonomia teorica: lungi dall’essere asservita ad esigenze teoriche e pratiche di natura politica, essa ne costituisce piuttosto il fondamento e l’orizzonte ultimo di senso.

D. Torniamo al pensiero politico. Che ruolo ha la libertà politica in Constant?

R. Constant, come tutti i liberali, ha particolarmente a cuore la libertà individuale, la libertà come indipendenza dei singoli da tutte le forme di potere collettivo (in primis, quello dello Stato). Ma egli difende anche la libertà politica, cioè la libertà collettiva.

Nella seconda parte del Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni dice espressamente: attenzione, perché come esiste una patologia della libertà politica (ed è la riproposizione, in tempi moderni, della libertà antica, che era solo politica e postulava la risoluzione dell’uomo nel cittadino, la politicizzazione integrale dell’esistenza), così esiste anche una patologia delle libertà individuali (cioè della libertà moderna), consistente nel rinchiudersi dell’individuo all’interno della sua sfera privata e nell’abbandonare la dimensione pubblica. Ma dimenticare i diritti politici è cosa gravissima, perché se rinunciamo ai nostri diritti politici il potere politico, privo di controllo, prima o poi s’impossesserà anche della sfera civile. Quindi rinunciare alla partecipazione politica è pericoloso perché la libertà politica protegge le libertà private. Ma è pericoloso anche dal punto di vista etico, perché la libertà politica, oltre ad essere strumento per controllare il potere, è anche mezzo di elevazione morale: partecipando alla vita pubblica si esce dalla sfera degli interessi particolari (che non vanno demonizzati, ma nemmeno resi l’alfa e l’omega della vita) e ci si solleva a una considerazione più ampia di quello che ci unisce agli altri uomini, ci si apre ai grandi problemi.

La libertà politica è, in questo senso, una fonte di perfezionamento. Quindi c’è nel liberale Constant un richiamo ai rischi del privatismo, che è quello che sfruttò Napoleone: Constant è il primo a vedere i rischi simmetrici della politicizzazione integrale dell’esistenza (implicita nel modello giacobino) e della privatizzazione dell’esistenza (implicita nel modello bonapartista), entrambi fondati su una certa interpretazione/strumentalizzazione del principio democratico.

D. Quindi secondo Lei leggere oggi questo grande autore significa essere un po’ condotti per mano a riflettere su situazioni che caratterizzano ancora la nostra realtà sociale e politica.

R. Sì, ad avere una visione più complessa della democrazia. Constant non può essere definito un democratico, a mio parere. Su questo tema è in corso da ormai qualche decennio un dibattito nel quale spesso, peraltro, si pronunciano sentenze di esclusione o inclusione senza aver prima definito il concetto. La questione è che esistono varie versioni o concezioni della democrazia. Certo, se noi per democrazia intendiamo la ‘democrazia liberale’, si può sostenere che Constant abbia portato importanti contribuiti ad essa e che ne sia uno dei padri (come sostiene Todorov). Ma esistono anche altre concezioni della democrazia. Anzi, storicamente liberalismo e democrazia si sono scontrate per più di un secolo, per esempio sul tema del suffragio universale.

Su questo argomento, Constant era fautore di un sistema censitario. Questo ne fa un autore antidemocratico? Se identifichiamo la democrazia con una tecnica giuridico-istituzionale, che ha il suo fulcro nel suffragio universale, sì. Ma è una definizione molto astratta. Ad esempio, negli anni che vanno dal 1795 al 1830 praticamente nessuno chiedeva il suffragio universale e l’unico che realizzò una forma di suffragio universale fu Bonaparte con i suoi plebisciti, che chiaramente non erano un modello di democrazia così come la intendiamo noi oggi. Per converso, un allargamento molto grande del suffragio era voluto dagli ultras controrivoluzionari, perché sapevano che il popolo delle campagne avrebbe votato i candidati monarchici. Quindi in quel determinato contesto storico avveniva una sorta di inversione delle parti in commedia: chi non credeva al sistema delle libertà individuali e collettive voleva un suffragio molto ampio, mentre chi vi credeva voleva un suffragio ristretto.

Se per democrazia intendiamo la concezione ascendente del potere, il rispetto dei diritti individuali e delle minoranze, allora chi voleva tutto questo, nei primi decenni dell’Ottocento, era favorevole ad un suffragio ristretto. E’ fuorviante parlare di democrazia in astratto, senza tenere conto delle fasi storiche e delle diverse concezioni.

Peraltro, Constant non escludeva che col tempo si allargasse il diritto di voto, cioè non era affatto contrario, in linea di principio, all’estensione del diritto di voto: però riteneva che questo dovesse avvenire in maniera graduale e attraverso un miglioramento di tipo socio-economico, non in maniera astratta concedendo per legge questa eguaglianza di diritti. Di fatto, poi, il suffragio si è allargato – nel corso dell’Ottocento e per merito dei democratici – attraverso delle lotte che in qualche modo hanno anche educato i nuovi soggetti ad esercitare il diritto di voto. Constant sosteneva che nemmeno nella democrazia più pura il diritto di voto viene ceduto a chiunque risieda su un determinato territorio, perché per esempio non viene dato agli stranieri né ai minori.

Cosa voleva dire? Voleva dire che al contrario dei diritti civili, che spettano a tutti in quanto uomini, i diritti politici presuppongono dei prerequisiti per essere esercitati in un determinato modo: ora, se ci pensiamo bene, è tuttora così. Constant legava questi prerequisiti alla proprietà, perché all’epoca essere proprietari significava poter studiare e quindi acquisire cultura, capacità di giudizio; significava inoltre essere cointeressati in modo concreto alle sorti del proprio paese. Oggi noi non accetteremmo mai una cosa del genere, ma la società è profondamente cambiata e non vi è certo bisogno di essere ‘proprietari’ per avere istruzione e cultura. Ma ancora oggi noi fissiamo dei prerequisiti per esercitare i diritti politici, che sono la maggiore età e la cittadinanza.

Il criterio dell’età corrisponde a quello che gli autori del Settecento avrebbero chiamato i ‘lumi’: bisogna aver raggiunto la capacità di esercitare un giudizio autonomo, il che implica un certo grado di cultura, per esercitare i diritti politici. Quanto alla cittadinanza, corrisponde al vecchio criterio dell’interesse: in quanto cittadini siamo stabilmente cointeressati alle sorti del nostro Paese e quindi abbiamo diritto a determinarle (se andiamo a studiare in un altro Paese, e magari ci passiamo anche qualche anno, questo non ci consente affatto di votare alle elezioni politiche!). Dunque, esiste anzitutto un problema di ri-contestualizzazione storica. Va infine detto che se abbiamo una concezione sociale della democrazia, ossia una concezione nel quale l’accento cade sulla collettività nel suo complesso e non sui singoli individui e sull’eguaglianza più che sulla libertà, allora certamente non possiamo considerare Constant tra i suoi antenati.

D. La riscoperta e la pubblicazione dei Principi di politica del 1806, alla luce della quale è possibile avere di Constant un’idea di pensatore più sistematico, più organico di quanto non si fosse pensato finora, cambia sostanzialmente il giudizio che si dà di questo pensatore, o no?

R. Sì, in parte secondo me lo cambia perché tanto per cominciare è la prova definitiva che il suo status è lo status di un teorico politico di prima grandezza, come Montesquieu, Rousseau o Tocqueville. Constant non è, come si è a lungo pensato, un ‘minore’. Peraltro all’interno del pensiero liberale questa sottovalutazione è singolare, perché Constant anticipa per molti aspetti Tocqueville (il quale spesso non paga il suo debito nei suoi confronti).

Nei Principi di politica del 1806 ci sono delle pagine sul fatto che nei grandi Stati moderni è importante il principio federale e sono pagine che anticipano di cinquant’anni quelle molto più note della Democrazia in America; non solo, Constant cita il discorso di Jefferson di insediamento alla presidenza (1801) e addita la giovane repubblica americana (questo infante ancora in fasce che irritava il reazionario Maistre) come modello di libertà civile e politica, anche in virtù del suo federalismo. Io sono anche convinto che come teorico politico – e qui mi attirerò sicuramente delle critiche – Constant sia per certi aspetti anche più importante di Tocqueville. Mi spiego: Tocqueville ha delle intuizioni sociologiche straordinarie ed è un autore ovviamente di fondamentale importanza nel pensiero liberale; ma in Constant vi è una trattazione approfondita dei concetti specifici della teoria politica (sovranità, libertà, di autorità, diritti civili e politici, libertà economiche) che in Tocqueville non c’è. Senza contare la riflessione di tipo costituzionale: non va dimenticato che Constant è il padre del costituzionalismo liberale dell’Ottocento e la democrazia moderna è impensabile senza l’apparato di mezzi tecnico-giuridici attraverso i quali si deve realizzare.

Al di là di questo raffronto, spero con la pubblicazione di quest’opera si cominci, anche in Italia, a riconoscere a Constant il posto che gli spetta nella storia del pensiero politico. In Francia è già accaduto, da noi un po’ meno.

Spero che avendo finalmente a disposizione il suo opus magnum di teoria politica (e non l’ennesima traduzione del Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni o dell’Adolphe) si arrivi a un giudizio più equanime, ad una maggiore attenzione nei suoi confronti e soprattutto al superamento dei pregiudizi che per anni ne hanno intralciato la conoscenza. Constant è stato ‘vittima’ di molti pregiudizi. E’ stato vittima di un pregiudizio personale legato alla sua vita irrequieta, soprattutto al voltafaccia con Napoleone (di cui abbiamo già parlato); è stato vittima del pregiudizio testual-concettualista (non c’è la grande opera sistematica); è stato vittima di un pregiudizio storiografico, perché è stato protagonista di fasi storiche che a lungo sono state considerate minori, di passaggio (il Direttorio e l’età della Restaurazione). Io spero che tornando a leggere le opere, invece, gli si dia semplicemente il posto che deve avere: quello di un grande classico del pensiero politico.

D. Per venire, in conclusione, al testo da Lei curato e tradotto: che problemi ha presentato la traduzione?

R. Faccio una premessa: tradurre è anche sempre un po’ tradire, nel senso che bisogna trasformare in un’altra lingua. Una buona traduzione non è una versione, ma è la resa di un testo in un’altra lingua. I criteri che hanno guidato la traduzione sono stati quindi due: dal punto di vista del significato concettuale, la più stretta aderenza al testo francese; dal punto di vista stilistico, la migliore resa in lingua italiana. Si è tuttavia evitato di ‘modernizzare’ eccessivamente il linguaggio, lasciando alcuni termini fortemente connotati dal punto di vista storico-culturale nella loro accezione originaria.

D. Ci può fare l’esempio di qualche termine tecnico?

R. Il termine lumières, ad esempio, è stato quasi sempre tradotto con lumi: esso rimanda infatti ad una pluralità di significati e sfumature (cultura, istruzione, senso critico, consapevolezza critica, intelligenza) che è impossibile rendere con un altro termine nella nostra lingua. Anche il termine écrivains è stato di solito reso con scrittori, sebbene a volta corrisponda agli odierni intellettuali, studiosi e così via. In altri casi, invece, non è stato possibile conservare i termini nella loro accezione originaria, perché nel frattempo avevano assunto nuovi significati.

Esemplare, in questo senso, il termine classe, che a partire dalla metà dell’Ottocento, grazie a Marx, ha assunto uno specifico significato socio-economico, oggi di gran lunga prevalente, mentre all’epoca in cui lo usava Constant esso aveva un significato classificatorio, derivante dalle scienze naturali. Per questa ragione classe è stato reso, a seconda dei contesti, con ceto sociale, gruppo sociale, categoria e solo raramente con classe. Un altro termine di difficile resa, in italiano, è industrie, che Constant usa in un’ampia gamma di significati. Spesso è sinonimo di attività economica, perché include tanto la produzione (agricola, manifatturiera, industriale), quanto la distribuzione (il commercio); in altri casi è sinonimo di attività produttive, perché viene distinto dal commercio, o di impresa, perché fa riferimento all’attività economica, in senso lato, condotta dal singolo soggetto in competizione con altri. Solo in alcuni casi, infine, è sinonimo di industria così come noi oggi l’intendiamo.

D. Un’ultima informazione per i nostri lettori: questo volume è a Sua cura, la traduzione è fatta in collaborazione con Chiara Bemporad, ma come vi siete organizzati per questa traduzione? Vi siete divisi o invece avete lavorato insieme?

R. Abbiamo lavorato insieme, nel senso che ognuno di noi ha tradotto il testo e si è poi proceduto al raffronto e all’elaborazione di successive versioni ‘comuni’. Per ogni libro (l’opera consta di 18 libri) abbiamo fatto delle traduzioni parallele, che poi sono state messe a confronto: di qui è scaturita una terza versione, sulla quale poi venivano confrontati i dubbi, da cui scaturiva una quarta versione e in genere si arrivava ad una quinta o sesta versione.

E’ stato, naturalmente, un lavoro di anni. A dir poco prezioso, in questo lavoro a ‘ondate’ successive, è stato l’aiuto di Etienne Hofmann, che è anche l’autore della prima edizione critica (nonché prima edizione in assoluto, nel 1980) dei Principi di politica del 1806. A lui, per il tramite di Chiara Bemporad (che lavora all’Università di Losanna), ho potuto sottoporre una lunga serie di dubbi, chiarimenti, riflessioni terminologiche, problemi storici e così via. Il suo è stato un aiuto decisivo. Ed è Hofmann, peraltro, ad aver scritto la prefazione all’edizione italiana.

Quanto a me, oltre alla traduzione, ho scritto il saggio introduttivo e ho fatto la curatela del testo, ossia un nuovo apparato di note originali, nonché la scelta delle ‘aggiunte’ e delle note di Constant. E’ stato un lavoro molto faticoso, quello dell’apparato critico, ma secondo me necessario, affinché il lettore non specialista e soprattutto lo studente – ed io sono fermamente convinto che all’università si debbano leggere i classici – si possa orientare nel testo. Se ad un certo punto si parla di Carlo, lo studente deve sapere se è Carlo II d’Inghilterra o se è Carlo XIII di Svezia, e nel caso sia Carlo XIII di Svezia perché sia citato in quel contesto; se Constant parla di un determinato diritto caduto in disuso (ad esempio, il diritto di albinaggio), si deve spiegare che cos’era quel diritto.

Infine, tutte le citazioni che Constant fa di Machiavelli e Rousseau hanno nella nota il riferimento alla traduzione italiana, in modo che lo studente, se vuole, possa andarlo a vedere.

Infine, ho dovuto fare una scelta di carattere generale, rispetto alle altre edizioni di quest’opera. La prima edizione di quest’opera, come ho già detto, è quella curata da Hofmann per i tipi della Droz (Ginevra), che essendo un’edizione critica – oltre a contenere tutto il testo: i 18 libri, le note di Constant e le corpose ‘aggiunte’ – ha uno specifico apparato filologico: essa riporta direttamente all’interno del testo, tramite specifici indicatori, gli interventi presenti nel manoscritto (cancellazioni, correzioni e aggiunte a margine), la paternità della scrittura (se di Constant o del segretario-copista), il cambio di foglio; in tale edizione sono state inoltre segnalate, a piè di pagina, le varianti apportate al manoscritto nel 1810. Vi era poi un approfondito apparato di note a cura di Hofmann.

La versione francese uscita nel 1997 (B. Constant, Principes applicables à tous les gouvernements. Version de 1806-1810, Préface de Tzvetan Todorov. Texte etabli et introduit par Etienne Hofmann, Hachette Littératures, Paris 1997, rist. 2006) è invece in formato tascabile: essa non contiene né le note di Constant, né le aggiunte (tranne la prima), né un apparato di note del curatore. Vi è infine l’edizione statunitense, che consiste in una traduzione integrale dell’edizione critica del 1980, incluso l’apparato critico di Hofmann (B. Constant, Principles of Politics Applicable to All Governements. Translated by Dennis O’Keeffe. Introduction of Nicholas Capaldi, Liberty Fund, Indianapolis 2003). Nell’edizione italiana ho scelto una via intermedia: i 18 libri dei Principes de politique sono stati tradotti integralmente, mentre le note di Constant e le Aggiunte – per ragioni di carattere editoriale – sono state selezionate da me a seconda del rilievo e collocate a piè di pagina. Ho inoltre corredato il testo, come dicevo poco fa, con un nuovo e originale apparato di note esplicative, storiche e interpretative.