Tipicità evolutive nel bambino fra i 6 ed i 10 anni di età, di Giampaolo Nicolais
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito il testo di una relazione tenuta dal prof. Giampaolo Nicolais, oggi Associato di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, presso la Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma, il 6/3/2010, nell’ambito del Convegno”Progettare la vita. La Chiesa di Roma incontra la Città per un rinnovato impegno educativo” . Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Dello stesso autore vedi su questo stesso sito Alcune considerazioni in merito allo sviluppo delle virtù nei bambini. Per approfondimenti, vedi la sezione Psicoanalisi e psicologia.
Il Centro culturale Gli scritti (14/5/2011)
Mi è stato chiesto di illustrare le caratteristiche salienti dello sviluppo del cosiddetto “bambino scolare”. Per farlo, è necessario innanzitutto premettere come nel corso degli ultimi 30 anni la psicologia dello sviluppo abbia profondamente modificato l’immagine del bambino e la mappa delle sue competenze nelle diverse fasi di sviluppo.
Grazie ad importanti studi soprattutto di natura longitudinale ma al contempo accogliendo ed integrando apporti e dati di ricerca da discipline affini (dalle neuroscienze alla psicoanalisi relazionale), ciò che noi oggi sappiamo della psicologia dello sviluppo è per alcuni versi sorprendentemente diverso da ciò che sapevamo qualche decennio fa.
I cambiamenti cui mi riferisco riguardano tanto la psicologia infantile quanto quella adolescenziale. Vorrei sinteticamente illustrare queste sostanziali revisioni attraverso due esempi che hanno profonde implicazioni circa il discorso che oggi tentiamo di svolgere assieme:
Riguardo all’infanzia, da Freud la psicologia scientifica ha ereditato una concezione “individuale” dei primi processi di sviluppo. Nei primi 6 mesi di vita il bambino freudiano è sostanzialmente un apparato fisiologico che deve essere regolato dall’esterno. All’inizio, cioè, esiste in una dimensione “autistica”, che solo lentamente si apre alla relazione diadica. La teoria dell’attaccamento, e la mole di dati sperimentali raccolti in questo ambito dagli anni ’70 in poi, ci consegna l’immagine di un “neonato competente” e soprattutto fin dalle primissime ore attivamente ingaggiato nello sviluppare la relazione diadica in un processo bidirezionale.
Riguardo all’adolescenza, le classiche teorie sul “turmoil” adolescenziale (Erikson) descrivono questo come un periodo necessariamente di crisi a fronte della inevitabile messa in discussione della propria identità infantile. Ora sappiamo dalle neuroscienze che, oltre a questo dato squisitamente psicologico, bisogna tenere conto del fatto che la corteccia prefrontale (l’area del nostro cervello deputata al funzionamento cognitivo di più alto livello: dalla impostazione di strategie di ragionamento e risoluzione di problemi alla previsione delle conseguenze del nostro comportamento) matura molto più lentamente di quanto si ritenesse in precedenza, e tale processo non è completo fino alla tarda adolescenza (Steinberg). Ciò implica che i comportamenti adolescenziali appaiono e di fatto sono frequentemente incoerenti e impulsivi anche perché le strutture cerebrali che presiedono il controllo comportamentale non hanno ancora raggiunto una piena maturazione.
Se ora centriamo il nostro interesse sulle peculiarità della fascia di sviluppo 0-6, non vi è dubbio che qui la “novità” emergente dalla riscrittura delle mappe evolutive cui stiamo facendo riferimento sia relativa allo sviluppo morale.
Per Piaget, il bambino prescolare è un “essere premorale”. Dai 5 ai 9 anni sviluppa un “realismo morale” che è espressione diretta delle aumentate capacità cognitive del bambino (e quindi, ad esempio, un danno è grave in tanto in quanto determina conseguenze osservabili gravi. La sua valutazione è sganciata dall’intenzionalità di chi compie il danno stesso).
Freud fa coincidere l’abbozzo di uno sviluppo morale con la formazione del Super-Io, terza istanza psichica che si affianca all’Io e all’Es e che promana dall’interiorizzazione dei divieti genitoriali legati alla fase edipica. Attorno ai 3-4 anni, cioè, un “proto” senso morale del bambino si fa strada attraverso la progressiva accettazione di dover rinunciare all’esclusività del rapporto a due aprendosi alla triangolarità relazionale.
Questa enfasi sulla dimensione affettivo-emotiva della norma, in Freud legata come abbiamo ricordato alla dimensione del divieto e dell’interdizione, trova nella teoria dell’attaccamento una piena articolazione, con importanti indicazioni per il nostro discorso.
In breve: la teoria dell’attaccamento ci spiega come ciascuno di noi nasca biologicamente pre-programmato alla ricerca della vicinanza di un caregiver adulto che offra protezione e vicinanza fisica nei momenti di paura/stress/difficoltà. Tale disposizione, ereditata in termini evoluzionistici dai nostri progenitori che hanno sviluppato questo “comportamento di ricerca della base sicura” al fine di minimizzare la predazione dei piccoli da parte di altre specie, negli esseri umani ha implicazioni psicologiche formidabili.
Dalla nascita, infatti, il piccolo ricerca il caregiver per il drive biologico della protezione dalla difficoltà (in maniera prevalente la madre, anche se fin dall’inizio abbiamo diverse “figure di attaccamento”) e in questa dinamica ora sappiamo hanno luogo delicati processi di regolazione (assieme fisiologica ed emotiva) che costituiscono la base del “senso di sé” del bambino. La sua identità, così, è fin dall’inizio una “identità relazionale”.
In questo quadro, lo sviluppo morale ha avvio fin dalle primissime fasi dello sviluppo. Se, infatti, il comportamento morale è possibile dal momento in cui “standard interni” regolano aspetti del comportamento in assenza dell’adulto, essendo precoce l’avvio del loro processo di internalizzazione attraverso il rapporto diadico e la competenza interpersonale del bambino ne avremo evidenza già nel primo anno.
Ad esempio, è dimostrato che già tra i 7 e i 12 mesi sono osservabili precursori di questa internalizzazione (Emde): la compliance alle richieste del caregiver; l’inibizione di comportamenti precedentemente proibiti dal caregiver.
A 18 mesi (Kagan) il bambino si mostra consapevole degli standard ed aspettative altrui, come è evidente dalle sue reazioni emotive di fronte a degli oggetti di uso comune che vengono rotti in sua presenza. Sempre in questo periodo, l’uso semantico del “no” e la concettualizzazione di sé come “buono” o “cattivo” sono ulteriori indicatori.
Nel terzo anno l’interesse per sé comincia ad essere sistematicamente negoziato all’interno del contesto familiare e delle altre relazioni interpersonali, alternandosi alla propensione al comportamento di cooperazione. Assistiamo a vere e proprie “negoziazioni” che recano con sé tensioni conflittuali e veri e propri dilemmi morali.
I dati osservativi, perciò, ci confermano che prima dei 3 anni è già avviato e consistente lo sviluppo morale del bambino. A 3 anni i bambini sono in grado di rappresentare mentalmente e narrare tematiche di empatia, reciprocità, rispetto delle regole. Inoltre, se posti di fronte a dilemmi morali sono in grado di valutare e scegliere tra alternative di scelte prosociali.
Alla luce di una lettura derivata dalle processualità di sviluppo descritte nell’ambito della teoria dell’attaccamento, la propensione alla internalizzazione morale è biologicamente caratterizzata. Peraltro a questa acquisizione evolutiva concorrono anche fattori temperamentali specifici (si pensi all’importanza dei tratti caratteriali introversione/estroversione nel direzionare l’investimento ed il riconoscimento affettivo sull’altro).
E’ certo, e per chiunque facilmente evidente, che tale tensione richiede facilitazione e direzione all’interno della dinamica di rapporto con il/i caregiver/s. Si pensi al comportamento empatico, largamente influenzato dalla mediazione che l’adulto opera nel descrivere al bambino le proprie e altrui emozioni, rendendole via via comprensibili e confrontabili con le sue proprie.
Scrive il Santo Padre nella Sua Lettera alla Diocesi sul compito urgente dell’educazione: «Già in un piccolo bambino c’è inoltre un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domande riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita».
Ho provato ad indicare come questo “desiderio di sapere e capire” che Benedetto XVI così bene descrive nel bambino piccolo sia scientificamente descritto e dimostrato fin dal periodo prescolare. Come, quindi, possa essere gravemente riduttivo puntare, nel momento della scolarizzazione, ad un progetto educativo unicamente ancorato alla dimensione classica della “performance cognitiva”. Come, in sintesi, sia la natura stessa del bambino, con la sua precoce capacità di lettura e considerazione morale, ad esigere un’educazione all’altezza: il consolidamento dello sviluppo morale nel bambino è possibile laddove la relazione educativa significativa lo sostanzia ed indirizza.