Alcune considerazioni in merito allo sviluppo delle virtù nei bambini, di Giampaolo Nicolais

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 11 /05 /2011 - 17:58 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito il testo di una relazione pronunciata il 4 maggio 2011 dal prof. Giampaolo Nicolais, Associato di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, presso la Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Psicoanalisi e psicologia

Il Centro culturale Gli scritti (11/5/2011)

In occasione della “Settimana delle Scienze Educative” promossa dal Vicariato di Roma mi fa molto piacere che la nostra “neonata” Facoltà di Medicina e Psicologia si interroghi oggi in questo Convegno dal titolo: “Valori e virtù, tra psicologia scientifica e dimensione spirituale”. Un tema che sollecita diversi di noi a riflessioni forse anche diverse da quelle cui siamo abituati in questa sede, ed è per me quindi particolarmente piacevole tentare di riflettere assieme a voi sulle virtù dalla prospettiva della psicologia dello sviluppo. L’oggetto di questa relazione è molto sfidante, in particolar modo per due motivi.

Il primo è ben sintetizzabile nella descrizione di un paradosso: noi psicologi evolutivi disponiamo di una mole di dati ormai consolidata sullo sviluppo morale nei bambini, in particolare nella fascia prescolare, ma molto timidamente affrontiamo la questione delle virtù. Eppure sappiamo bene che non esiste virtù senza capacità di discernimento morale. E’ come se, conoscendo nel dettaglio il modo in cui dalla nascita ai 18 mesi emerge progressivamente nel bambino una intenzionalità comunicativa, decidessimo di arrestarci lì, non affrontando lo sviluppo del linguaggio verbale che emerge prepotentemente nel corso del secondo anno di vita. E’ un fatto facilmente constatabile: sfogliate un manuale di psicologia dello sviluppo, e non vi troverete alcun riferimento alle virtù nei bambini.

Il secondo motivo è relativo al fatto che trattare le virtù nei bambini mi porterà inevitabilmente a considerazioni circa la genitorialità e, attraverso questa, circa il ruolo della psicologia scientifico-accademica nel farsi promotrice di dibattito culturale che arrivi, sotto forma di conoscenze condivise, nelle case delle famiglie e dei bambini di cui ci occupiamo.

Partiamo perciò da una definizione operativa di virtù che possiamo cominciare a condividere. La società occidentale è debitrice alla cultura greca di una concettualizzazione della virtù come Areté: eccellenza, traducibile in una “tendenza al limite” che pone alla persona l’obiettivo, mai raggiungibile ma sempre da inseguire, di realizzare il suo più alto livello di sviluppo usando al meglio le proprie risorse e capacità. Diversamente dalla tradizione latina, che individua la quintessenza virtuosa nell’animo guerriero del “vir”, il concetto di areté offre ad una riflessione psicologica sulle virtù un terreno ideale nel quale leggere convergenze tra aspetti disposizionali e caratteriali della personalità (vedremo tra breve a cosa facciamo riferimento).

Delle virtù si è occupata e si occupa tradizionalmente l’etica, branca della filosofia che studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status deontico, distinguendoli in buoni, giusti, o moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente inappropriati. La domanda che la filosofia morale si pone è “che tipo di persona dovrei essere”? Come sappiamo, la domanda che, diversamente, si pone la psicologia in quanto scienza che studia il comportamento umano è: “che tipo di persona è ?”.

Qui risiede la divaricazione consolidata tra l’approccio alle virtù della filosofia morale da un lato e della psicologia dall’altro. La psicologia della personalità, infatti, non ritiene di “valutare” (il carattere) ma di “descrivere” (la personalità). Soprattutto a partire dalla seconda metà del ‘900 la psicologia della personalità ha trascurato le virtù ed i suoi correlati osservabili nel comportamento: dagli anni ’70 con Allport la psicologia della personalità, al fine di ottenere una validità scientifica ancorando i propri dati osservativi ad osservazioni replicabili, abbraccia definitivamente il concetto (moralmente neutro) di “personalità” a favore di quello (più ostico per la metodologia di studio propria della psicologia) di “carattere”.

La descrizione del carattere, infatti, implica termini valutativi del funzionamento di una persona (coscienzioso, temperante, coraggioso…) come pure descrive aspetti plasticamente attivi (ad esempio, “la capacità di uno sforzo sostenuto verso ostacoli”) che non trovano spazio nella descrizione dei “tratti” della personalità. Ciononostante, la distinzione personalità/carattere è rimasta e rimane in parte artificiosa e contraddittoria. Si pensi ad esempio che uno dei più usati costrutti di personalità, quello noto come il “modello dei Big Five” di Costa e McRae contempla descrittori evidentemente riferibili a “tratti” stabili della personalità (come per il costrutto di “introversione-estroversione”) assieme a descrittori di aspetti del funzionamento di personalità (“coscienzioso”, “onesto”, modesto”, ecc) che rimandano chiaramente al carattere e ad atteggiamenti moralmente determinati.

Come sempre più di frequente accade nell’ambito delle scienze psicologiche (si pensi, ad esempio, ai contributi seminali della infant research per una comprensione articolata delle psicopatologie adulte) è dalla psicologia dello sviluppo che, negli ultimi anni, giungono i contribuiti e i dati di ricerca più suggestivi in merito al tema che trattiamo. Possiamo infatti fin d’ora anticipare che gli studi degli ultimi 20 anni sullo sviluppo morale prescolare indicano non solo come in tenera età siano osservabili le precondizioni per un funzionamento virtuoso (ovvero precoci capacità di discernimento morale) ma come queste siano anche biologicamente predisposte.

Già nel 1990 Buchsbaum e Emde, due importanti studiosi dei processi di sviluppo e in particolar modo dello sviluppo morale nella prima infanzia, sulla base dei loro dati di ricerca circa l’applicabilità di un set di storie con cui avviare dei giochi con bambini di tre anni al fine di descriverne le capacità di risolvere dilemmi morali, scrivono circa la necessità di riconoscere che le propensioni per l’ interiorizazione morale sono fortemente biologiche.

Prima di descrivere alcuni studi che confermano tale prospettiva, vale la pensa ricordare in che modo la psicologia del ‘900 ha tradizionalmente descritto modalità, profili evolutivi e processualità dello sviluppo morale infantile. Possiamo riconoscere tre importanti cornici teorico-concettuali all’interno delle quali tali descrizioni si collocano.

Come noto, Freud fa coincidere l’abbozzo di uno sviluppo morale con la formazione del Super-Io, terza istanza psichica che si affianca all’Io e all’Es e che promana dall’interiorizzazione dei divieti genitoriali legati alla fase edipica. Attorno ai 3-4 anni, cioè, un “proto” senso morale del bambino si fa strada attraverso la progressiva accettazione di dover rinunciare all’esclusività del rapporto a due con il genitore del sesso opposto, aprendosi alla triangolarità relazionale e, più avanti, alla piena socializzazione. Vi è quindi un’enfasi sulla dimensione affettivo-emotiva della norma, che si lega al tabù dell’incesto, alla dimensione del divieto e dell’interdizione e al conseguente timore della ritorsione genitoriale.

In Piaget, diversamente, il bambino prescolare è un “essere premorale”. Solo a partire dai 5 anni si svilupperà un “realismo morale” in funzione delle sue maggiori capacità cognitive acquisite con l’ingresso nella cosiddetta fase di sviluppo delle operazioni concrete. Tale nuova capacità da al bambino la possibilità di cogliere cognitivamente che, ad esempio, un danno è grave in tanto in quanto determina conseguenze osservabili gravi. La sua valutazione è, quindi, sganciata dall’intenzionalità di chi compie il danno stesso. Processi psicologici relativi alla comprensione delle intenzioni e del mentalismo dell’altro tendono a rimanere fuori dal discorso piagetiano intorno allo sviluppo morale in questa fase evolutiva.

Circa i precoci processi di sviluppo morale, la teoria dell’attaccamento postulata da Bowlby fornisce un quadro teorico-concettuale e metodologie di studio che rendono insufficienti le due precedenti teorizzazioni. Postulando e dimostrando come ciascuno di noi nasca biologicamente pre-programmato alla ricerca della vicinanza di un caregiver adulto che offra protezione e vicinanza fisica nei momenti di paura/stress/difficoltà, la teoria dell’attaccamento infatti definisce il concetto di una “identità fin da subito relazionale” che porta con sé inevitabilmente una dimensione relazionale precoce della moralità. Questa, infatti, nasce dalla progressiva interiorizzazione delle identificazioni con i caregivers attraverso i Modelli Operativi Interni delle relazioni, che diventano così standard interiorizzati che guidano il comportamento (anche) in assenza dell’adulto. In questo quadro, perciò, diversamente da Piaget lo sviluppo morale ha avvio fin dalle primissime fasi dello sviluppo (certamente entro il primo anno) e non si giustifica prevalentemente in riferimento alle vicissitudini edipiche come in Freud.

La precocità dello sviluppo morale, come più volte anticipato, è oramai un dato acquisito nel campo della psicologia dello sviluppo.

Ad esempio, è dimostrato che già tra i 7 e i 12 mesi sono osservabili precursori della internalizzazione morale sotto forma di compliance alle richieste del genitore ed inibizione di comportamenti precedentemente proibiti dal genitore. A 18 mesi il bambino si mostra consapevole degli standard ed aspettative altrui, come è evidente dalle sue reazioni emotive registrate in laboratorio di fronte ad oggetti di uso comune che vengono rotti in sua presenza. Rimanendo in questa prima fascia di sviluppo, sappiamo bene come l’uso semantico del “no” e la concettualizzazione di sé come “buono” o “cattivo” siano ulteriori indicatori di consapevolezza morale.

Nell’ambito della psicologia evoluzionista Tomasello, con i suoi studi comparati sui comportamenti di bambini e scimpanzé ci spiega, citando il suo ultimo lavoro, che siamo “altruisti nati” – la psicologia di stampo evoluzionistico, cioè, porta un robusto sostegno empirico all’ipotesi che nasciamo predisposti a prestare aiuto, fornire e condividere informazioni con i nostri simili nella convergenza circa attività cooperative all’interno di una comune appartenenza gruppale e territoriale. Nel terzo anno di vita, l’interesse per sé comincia ad essere sistematicamente negoziato dai bambini all’interno del contesto familiare e delle altre relazioni interpersonali, alternandosi alla propensione al comportamento di cooperazione. Assistiamo a vere e proprie “negoziazioni” che recano con sé tensioni conflittuali e veri e propri dilemmi morali, di fronte ai quali i bambini di 3 anni sembrano avere notevoli capacità di orientarsi in senso morale. Ad esempio, nel lavoro di Buchsbaum e Emde che citavo in precedenza, l’84% dei bambini di 3 anni risolveva in maniera prosociale situazioni di gioco che presentavano dilemmi morali. I dati osservativi ci confermano, quindi, che prima dei 3 anni è già avviato e consistente lo sviluppo morale del bambino. A 3 anni i bambini sono in grado di rappresentare mentalmente e narrare tematiche di empatia, reciprocità, rispetto delle regole. Inoltre, se posti di fronte a dilemmi morali sono in grado di valutare e scegliere tra alternative di scelte prosociali.

In sintesi, sappiamo perciò che: a) già nel primo anno di vita sono presenti e osservabili capacità di discernimento morale; b) entro i tre anni è raggiunta la capacità di orientare il proprio comportamento in base a standard morali interni.

Da ciò ne consegue che nella prima fase prescolare il bambino è in grado di attivare comportamenti virtuosi. Ed è qui che, come premesso introducendo il mio intervento, vorrei chiamare in causa i genitori e la genitorialità.

Se chiedete ad un genitore cosa desidera per il futuro del suo bambino, cosa pensate vi verrà risposto? Da molti anni a me capita di porre questa domanda, usando in ambito clinico uno strumento (Adult Attachment Interview: Main & Goldwyn, 1998) volto ad indagare le rappresentazioni mentali degli adulti relative all’attaccamento. L’intervista termina con una fase di indagine sulla genitorialità, e si conclude con questa domanda: “immaginando suo figlio adulto, ad esempio tra 20 anni, potrebbe esprimere 3 desideri per il suo futuro?”. A occhio, ma non credo di sbagliarmi di molto, i desideri che vengono espressi sono prevalentemente due (difficilmente ne emerge un terzo) e sono così descrivibili percentualmente: circa i 2/3 desiderano “la salute”, la parte restante “la felicità”. Sacrosanti desideri, non vi è dubbio che salute e felicità siano ottimi desideri per la vita di un figlio. E su questi desideri io credo la “psicologia applicata” abbia inciso e stia incidendo molto: è sempre più conoscenza comune come, ad esempio, non solo stili di vita sani ma anche quello che chiamiamo “pensiero positivo”, la capacità di seguire e realizzare le proprie aspirazioni, la capacità di autorealizzazione, concorrano al benessere psicofisico e all’armonia personale. In questo la psicologia conta, e non poco, come vettore di conoscenze che diventano patrimonio culturale condiviso. E ciò detto: in tanti anni non mi è mai capitato di sentire un genitore desiderare che il proprio figlio potesse divenire una persona “prudente”, “coraggiosa” o “temperante”.

E’ ovvio sia così, mi sono chiesto?

Stanley Insler, professore di Filologia Comparata a Yale, ricorda – attraverso Erodoto – come la civiltà dei Persiani stimasse la verità sopra ogni altra cosa. La venerazione per questa virtù era tale che una parte cospicua dei nomi dati ai neonati conteneva la radice “verità”(colui che splende nella verità, colei che prospera nella verità…). Sappiamo bene come la scelta del nome da parte di un genitore si leghi esattamente a quel desiderio per il futuro del figlio di cui stiamo parlando, una sorta di viatico e benedizione per la vita futura. C’è stato un tempo in cui ci si augurava che i figli potessero essere virtuosi, dunque. Potremmo facilmente indulgere al mala tempora currunt, ma non è questo il punto. Ciò che mi interessa mostrarvi è piuttosto un paradosso che interessa molto da vicino il nostro discorso. In un tempo post-moderno in cui la società è, per dirla con Bauman (non a caso ininterrotto successo letterario) “liquida” e si articola in tante “morali” quante tendenzialmente sono le individualità che la compongono, la psicologia dell’età evolutiva ha robusti argomenti supportati da robuste evidenze che descrivono come, fin dalle prime fasi dello sviluppo e perciò in maniera almeno relativamente indipendentemente dai condizionamenti socio-culturali e genitoriali, il bambino abbia una forte tendenza allo sviluppo di capacità e discriminazione morale.

Karen Wynn, che dirige l’Infant Cognition Centre di Yale, ha dimostrato che le capacità di discriminazione morale sono presenti già a 5 mesi. In un recentissimo lavoro, infatti (Hamlin & Wynn, 2011), ha mostrato come a questa età i poco più che neonati siano non solo in grado di discriminare comportamenti prosociali e antisociali, ma anche di preferire i primi ai secondi. Grazyna Kochanska ed il suo laboratorio alla Iowa University studiano da diversi anni le conseguenze sullo sviluppo di quella che viene definita una “robusta coscienza” del bambino (interiorizzazione di norme + empatia verso i genitori + sé morale). La Kochanska (2010) ha dimostrato come questi “tradizionali” aspetti del funzionamento morale, rilevati in sequenza a 25, 38, 52 mesi, siano dei chiari predittori del funzionamento adattivo del bambino su molteplici dimensioni del comportamento rilevate a 7 anni di vita. Per quanto ciò possa suonare come un ritorno alla modernità che immaginavamo superata dalla post modernità “liquida”, la psicologia ci sta dicendo quindi che ha pienamente senso parlare della possibilità di sviluppo delle virtù nel bambino.

E i nostri genitori desideranti?

Oggi e in questa sede ci interessa ancora di più un’altra domanda, che ci riguarda direttamente come psicologi e sulle implicazioni della quale concluderei il mio intervento:

e la psicologia?

Le virtù sono potenzialità latenti, il cui sviluppo è possibile se esiste accanto al bambino un ambiente di accudimento interessato a sostenere ed indirizzarne lo sviluppo morale. La psicologia scientifica è interessata a non confinarsi nell’accademia e ad “applicarsi” in direzione di una operazione culturale (la nostra presenza qui è incoraggiante a questo riguardo) che sappia diffondere conoscenze circa lo sviluppo delle virtù nei bambini, conoscenze utili e utilizzabili dalle famiglie e dai genitori?

La storia della nostra disciplina ci insegna che quando la psicologia scientifica sa tradursi in psicologia applicata i frutti sono cospicui. I dati sullo sviluppo morale nei primi anni di vita ci chiedono non di indicare “che tipo di persona si debba essere”, ma “che tipo di persona si possa essere”: ci interessa un simile, virtuoso, obiettivo?

Bibliografia

  • Buchsbaum HK, Emde RN (1990), Play Narratives in 36-Month-Old Children. Psychoanalityc Study of the Child, 45,129-155.
  • Main M., Goldwyn R. (1998) Adult attachment scoring and classification systems, Unpublished manuscript, University of California at Berkeley.
  • Hamlin JK, Wynn K (2011), Young infants prefer prosocial to antisocial others. Cognitive Development, 26, 30-39.
  • Kochanska G, Koenig JL, Barry RA, Kim S, Yoon JE (2010), Children’s conscience during toddler and preschool years, moral self, and a competent, adaptive developmental trajectory. Developmental Psychology, 46(5), 1320-32.
  • Insler S (1990), The Love of Truth in Ancient Iran. In An Introduction to the Gathas of Zarathusthra", No. 7, April 1990.
  • Tomasello M (2010), Altruisti nati – perché cooperiamo fin da piccoli, Torino, Boringhieri.