Ebrei in camicia nera: l’assurda alleanza, di Anna Foa
Riprendiamo da Avvenire del 5/5/2011 un articolo scritto da Anna Foa. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (5/5/2011)
Nel 1922, quando il fascismo prende il potere in Italia, gli ebrei – una piccolissima minoranza della popolazione, circa 45000, cioè l’uno su mille – erano profondamente integrati nel contesto sociale e culturale del Paese. Avevano appoggiato il processo risorgimentale, partecipando attivamente ai moti e alle guerre d’indipendenza e legando strettamente la loro emancipazione al processo di costruzione della nazione italiana. Erano stati protagonisti dell’irredentismo, avevano partecipato con entusiasmo, come gli ebrei tedeschi e quelli francesi, alla prima guerra mondiale, nella convinzione che i legami di appartenenza nazionale si sarebbero ulteriormente rinsaldati versando il proprio sangue per la patria italiana. Avevano dato alla politica italiana ministri come Luzzatti, sindaci come Nathan, alti funzionari dello Stato e dell’esercito. Erano, cioè, profondamente italiani. Anche il sionismo, che aveva in quegli anni profonde radici nel mondo ebraico dell’Europa orientale, rappresentava in Italia a quella data un movimento assai marginale, patrimonio di una piccola élite, e tale sarebbe rimasto anche negli anni seguenti, nonostante il crescere di gruppi che univano all’anelito per il ritorno a Sion quello di un profondo rinnovamento interiore dell’ebraismo. Quando per gli italiani l’adesione alla patria si identificherà con quella allo Stato fascista, quindi, anche gli ebrei italiani, come gli altri cittadini, aderiranno al fascismo. In che forma e in che misura rispetto al resto degli italiani, è una questione che merita di essere vista più da vicino.
Gli ebrei italiani iscritti al Partito Nazionale Fascista all’epoca della marcia su Roma erano, secondo dati desunti dal censimento degli ebrei del 1938, circa il 3 per mille degli iscritti complessivi. Una percentuale molto più alta di ebrei, oltre il 10%, si ritrova fra gli intellettuali antifascisti, fossero socialisti o liberali come quelli che aderirono al manifesto di Croce del 1925. Man mano che il regime si consolidava e acquistava consenso, evidentemente, la percentuale di ebrei con la tessera fascista era destinata a crescere, anche se diventava meno significativa di un’adesione sincera all’ideologia fascista. Forte restava comunque la presenza antifascista fra gli intellettuali, rivelata da alcuni segnali inequivocabili: quando nel 1931 il regime impose il giuramento di fedeltà al fascismo ai docenti universitari, ebrei erano ben 6 dei 14 professori ordinari che rifiutarono il giuramento, con il risultato di dover abbandonare la cattedra; una proporzione enorme rispetto al numero degli ebrei italiani e anche rispetto alla proporzione di ebrei fra i docenti universitari. Ugualmente alto fu il numero degli ebrei presenti fra gli arrestati torinesi del 1934 e del 1935, appartenenti al gruppo clandestino di «Giustizia e Libertà». Fu questo fra l’altro il primo momento in cui il regime sottolineò l’identità ebraica degli arrestati, iniziando quell’identificazione fra ebraismo e antifascismo che sarebbe ulteriormente stata incrementata dalla campagna antisionista iniziata nel 1937, volta ad identificare il sionismo con l’antifascismo e a perseguitarlo in quanto tale.
Se in genere quindi possiamo dire, con Michele Sarfatti, che gli ebrei furono fascisti come gli altri italiani, e più antifascisti degli altri italiani, resta un fatto che fra gli ebrei gli intellettuali dimostrarono un maggiore riluttanza al fascismo e un maggiore attaccamento ad una visione liberale e democratica della politica e della cultura, quale era stata del mondo ebraico italiana nel Risorgimento. Gli anni Trenta furono segnati da un netto conflitto all’interno degli organismi comunitari: da una parte i fascisti per convenienza o conformismo, che cercavano di convivere al meglio con il fascismo; dall’altra una tendenza più risolutamente fascista, che diede vita nel 1934 a Torino a un giornale, La nostra Bandiera, e ad un movimento, quello degli «Italiani di religione ebraica», che cercò di conquistare la direzione delle Comunità, ottenendo la maggioranza a Torino e Firenze. Era fortemente antisionista, tanto che nel 1938, nell’imminenza del varo delle leggi razziste, un gruppo di «bandieristi», su iniziativa di uno dei leader del movimento, Ettore Ovazza, compì un vero e proprio attacco squadristico alla sede fiorentina della rivista sionista Israel devastandola.
A pesare sulla situazione degli ebrei italiani e sulla loro adesione al fascismo era anche quanto succedeva agli ebrei tedeschi dopo il 1933, con l’avvento di Hitler al potere. Fino a che Mussolini distinse nettamente la sua politica da quella hitleriana, fu possibile al mondo ebraico italiano esprimere la sua preoccupazione per quanto succedeva in Germania e partecipare all’attività di aiuto e sostegno ai profughi senza entrare troppo in conflitto con il regime. È vero che nel 1936 Raffaele Cantoni, che dirigeva il gruppo milanese di questo Comitato di assistenza ai profughi, fu rimosso dal suo incarico, ma Cantoni, che poi sarebbe stato il maggior protagonista della ricostruzione dell’ebraismo italiano del dopoguerra, era antifascista e sionista. Dopo il novembre 1937, con la costituzione dell’Asse Roma-Berlino, ogni spazio per una convivenza degli ebrei con il fascismo si chiuse, tranne che per pochi tra i più accesi «bandieristi». Le comunità cercarono di salvare il salvabile, molti emigrarono, molti si convertirono, nella vana speranza di sottrarsi così alla persecuzione. Con il 1938 non si può più parlare di ebrei e fascismo, ma solo di fascismo contro gli ebrei.
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