La sete di Infinito non viene dalle condizioni culturali, non proviene dall’esterno. Non si uccide, perché siamo noi. Una straordinaria catechesi del cardinale Angelo Bagnasco agli scout d’Europa
Gli appunti che presentiamo nascono dall’ascolto della viva voce della catechesi pronunciata in S. Rufino ad Assisi da S. Em. il cardinale Angelo Bagnasco e rivolta ai capi branco FSE d’Italia. Il testo non è la trascrizione dell’intervento, poiché nasce da appunti presi nel corso dell’intervento stesso. Non è stato rivisto dall’autore, pertanto ogni fraintendimento è da imputare al redattore degli appunti. Mettiamo lo stesso a disposizione queste righe nella convinzione che possano essere fruttuose, nonostante non siano assolutamente un testo ufficiale.
Il Centro culturale Gli scritti (18/4/2011)
«La prima domanda non è che cosa posso fare, ma chi sono io. Questo vuol dire che tutto deve essere colto come un'occasione di conversione. La conversione non riguarda gli altri, riguarda me. Sono in gioco io... Chi sono io per essere capo?».
Così il cardinale Angelo Bagnasco ha iniziato la sua catechesi, rivolgendosi nella cattedrale di San Rufino in Assisi ai capi branco degli scouts FSE, nel pomeriggio del sabato 9/4/2011. Il cardinale ha continuato poi la sua riflessione:
«Vorrei farvi quasi una confidenza a partire dall'esperienza che sto vivendo della visita pastorale nei diversi vicariati. Dopo averne visitati tanti posso dire che ci sono certamente tante varietà, ma anche denominatori comuni. E fra questi denominatori comuni vi è certamente la grande bontà e grande fedeltà che esiste tra la gente. Esiste l'eroismo tra la gente... Esiste, anche se non si vede spesso.
Non bisogna lasciarsi incantare da profeti di sventura che in modo intenzionale e interessato vogliono presentarci la fede come moritura, vogliono presentare il volto di un Italia nella quale la fede starebbe spegnendosi e diventando solo un ricordo del passato. Non è vero tutto questo! Stando con la gente ne tocchi con mano la bontà, la santità, il modo di vivere con dignità e grande bontà.
Certo esistono i pericoli, le questioni, ma tutto questo non deve oscurare il bene che c’è. In un intervento ufficiale ho definito l’Italia il Paese dei 100.000 campanili. Sono 100.000 campanili, 100.000 luoghi di vita, 100.000 segni della vicinanza di Dio e della Chiesa alla gente, caso unico nel mondo. In Italia la Chiesa è di popolo, non di gruppi o di élites.
Visitando tante parrocchie, tanti luoghi, tante case scopro che tanta gente è in ricerca e in attesa. Spera. Attende. Magari in modo oscuro, ma vero. Perché l’uomo è nella sua essenza un desiderio. L’uomo è una domanda, l’uomo è un paradosso, è un desiderio di bene, di felicità, di vita piena.
Ma la vita è come la sabbia tra le dita. La prendi e sfugge. E’ come l’acqua che ti scivola via fra le mani. Che senso ha il mio lottare, il mio gioire? Ognuno sa bene che non sono le cose che riempiono, ma l’anima.
L’uomo è anche una linea di confine fra il finito e l’Infinito, tra il tempo e l’eternità. E sente di appartenere all’uno e all’altro. Noi sentiamo di appartenere alla terra, ma anche di desiderare il cielo.
Maritain ha scritto una volta che l’uomo è un mendicante di Assoluto. L’uomo è un poveretto, cerca il cielo.
Noi dobbiamo semplicemente non soffocare, lasciarla parlare, lasciarla emergere questa sete di Infinto. Il mondo di oggi vuole soffocarla, metterla a tacere. Ma non si può. Perché questa “cosa” siamo noi. E’ la nostra carne, il nostro cuore! La sete di Infinito non viene dalle condizioni culturali, non proviene dall’esterno. Non si uccide, perché siamo noi. Ucciderla sarebbe uccidere noi stessi.
Mi torna in mente un’opera teatrale di Samuel Beckett, Aspettando Godot. I due protagonisti attendono una salvezza. E si interrogano: “E se non venisse? Potremmo impiccarci”. Ma non c’è la corda. E si ripetono: “Allora andiamo, andiamo”. E non si muovono.
Quanta gente aspetta!
Ma oltre a questa sete di Infinito, incontro anche che l’alfabeto umano qua e là sta scomparendo. Penso alla vita, che spesso dimentica di essere vita. Penso alla morte. Qualcuno si interroga sulla morte, quella morte che ci ripugna. Anche a Gesù la morte ripugnava. Ma per molti sembra non essere più una questione.
Penso alla libertà. Incontro una falsa idea di libertà talvolta: fare ciò che ci pare senza disturbare il vicino. E’ falsa questa idea della libertà, è almeno incompleta. Incontro un’idea di amore che si identifica con la sensazione.
Vedete queste quattro grandi categorie: vita, amore, morte, libertà. Sono quattro categorie fondamentali per vivere in una società di persone. Una parte della nostra società, quella pubblicata spesso, più che quella reale, dice un sacco di bugie su queste quattro realtà. Martin Heidegger ha scritto una volta che nessuna epoca meno della nostra ha saputo cos’è l’uomo. Conosce il corpo, ma si perde nel frammento, non riconosce il tutto.
Quando parlo con alcuni non credenti, io so che loro mi provocano, ma anch’io provoco loro. Non bisogna andare in ritirata, bensì giocare sempre all’attacco! L’uomo viene talvolta considerato come un individuo, non come una persona, Viene visto come una monade, con incontri e rapporti solo funzionali. Invece un mucchio di uomini deve fare una società, non un mucchio di uomini.
Un esempio telegrafico. Si sente dire spesso: “La vita è mia!”. E invece la vita non è solo mia, la mia vita è anche vostra! Il mucchio è il presupposto del cinismo.
Vorrei ora passare ad un altro punto della mia riflessione, partendo da una domanda: qual è la differenza fra la professione di fede e la verità?
Pietro dicendo quella verità, che Gesù è il Cristo, si mette nelle sue mani e si consegna. Credere vuol dire certamente dire la verità, ma dirla consegnandosi nelle mani della Verità, consegnandosi a Lui che è la verità. Vuol dire fidarsi, fino ad affidarsi.
Noi vogliamo essere padroni assoluti, gli unici timonieri della nostra barca. Cedere il timone non ci è congeniale. Adamo non l’ha ceduto, Adamo non l’ha fatto. Gesù l’ha fatto. E così, a differenza di Adamo, ci ha salvato.
Ciò che ci salva non è il sangue sparso. E’ il sangue come il segno dell’assoluta fiducia al Padre. E in Lui noi siamo figli.
Credere vuol dire vivere riferiti a Cristo, non dentro ad una conoscenza, ma dentro a una relazione. E la relazione si ha solo con una persona: non si possono avere relazioni con delle cose.
Credere significa sapere che io vivo perché Lui esiste.
I nostri genitori non hanno voluto noi, hanno voluto dei figli. Poi hanno imparato ad amare proprio noi. Dio invece ci ha scelti uno per uno, con i nostri nomi. I nostri genitori hanno preso quello che gli è venuto, hanno imparato ad amarci.
Credere è ancora quello che dice Pascal, è scommettere. Chi scommette, gioca, gioca se stesso, rischia. Gide diceva che credeva in Gesù perché la sua parola era così bella che non poteva non credere che era Dio. Credere è giocarsi nel rapporto con Cristo e con la Chiesa. Non è sfogliare la margherita. Abbiamo paura di credere... siamo così equilibrati!
Pascal affermava: se ti giochi nel rapporto con Cristo, poi scopri la corrispondenza con te stesso. Ditelo ai ragazzi: “Fai una prova!” “Sei incerto sulla purezza, sulla fedeltà, sulla messa domenicale? Prova e vedrai che non te ne pentirai”. Certo la prova deve durare. Non basta dire “io credo...”, “io penso...”. No!
Provaci sul serio per un tempo vero, con tutto il cuore. Se la vivi la vita cristiana, ne impari la bellezza. La vita cristiana non la impari a tavolino. Il pane bisogna mangiarlo. Voi scout dite che la strada ti entra nei piedi - sono stato 25 anni assistente dell'AGESCI e l'ho capito bene. Ancor più la fede. Tu prova... e vedrai!
Ma dobbiamo anche coltivare la fede. Essendo una cosa viva, non è che la puoi mettere in un cassetto e la ritrovi lì così come l’hai lasciata. O la coltivi o muore. A volte sentiamo dire: “Avevo la fede... ma ora?”. Così può avvenire di una pianta che muore, che è morta: cosa hai fatto per coltivarla?
Hai mangiato la Scrittura? Hai mangiato il Catechismo della Chiesa Cattolica? Cristo ci parla nella parola scritta ed in quella orale, nella Scrittura e nella chiesa. Dobbiamo frequentare i santi, i teologi, quelli buoni.
Fuori da questa struttura dinamica noi non conosciamo il volto di Dio e la fede rimane fragile.
Mangia la Scrittura, mangia il Catechismo della Chiesa Cattolica, mangia il magistero! Oppure la fede la andrai a leggere distorta su qualche quotidiano.
Tu devi incontrare Cristo. Se volete bene a qualcuno vi basta conoscerlo o volete incontrarlo? Vi basta la fotografia? E dove incontriamo Cristo se non nei sacramenti e nella chiesa? Ecco perché l’eucarestia, la preghiera, la liturgia, i sacramenti, soprattutto la confessione e l’eucarestia.
Se siete senza peccato... beati voi! Ma Dio la da raramente la grazia di vivere senza peccati. In un rapporto di amore quanta polvere si deposita, si accumula. Non solo i tradimenti, ma anche le trascuratezze. Ecco il valore della Confessione.
Ma pensiamo anche alla Messa. Non parlo della Messa domenicale. Non ci penso nemmeno che vi possa balenare in mente di non partecipare alla messa domenicale. Penso alla Messa quotidiana. La tiepidezza è lo stato peggiore. Non soddisfa, non piace. Dobbiamo puntare alla messa quotidiana. C’è gente che va a messa tutti i giorni a 20 anni, non ad 80! Ricordo un giovane militare che cominciò a venire a messa perché la Cappella era l’unico luogo riscaldato della caserma. Poi è arrivata l’estate... ed ha continuato a venire per un altro motivo! Ed ora è diventato prete.
Mi torna in mente un episodio del Curato d’Ars. Raccontava di un contadino che si sedeva sempre in fondo alla chiesa. Quando gli chiese: “Cosa fai sempre qui!”, lui ripose: “Non faccio niente. Io Lo guardo e Lui mi guarda”.
Bisogna vivere con gli occhi di Gesù. Quali sono questo occhi? Sono quelli della Pasqua. Credere vuol dire guardare le cose con gli occhi della Pasqua. Nietzsche diceva: i preti, i cristiani, “migliori canzoni mi dovrebbero cantare, più credenti mi dovrebbero apparire i suoi discepoli”. Questo vuol dire che noi dobbiamo vivere “nella gioia”. Anche se si è sulla croce.
Gesù ci insegna che si può essere sulla croce ed essere nella gioia. Voglio ricordare il segreto della gioia, della strada di Gesù. Non dobbiamo essere perdenti, ma vincitori. La vita è unica. O si perde o si vince. Non c’è rivincita. Non si rigioca. Ebbene questo è il segreto di Gesù: “Chi perde la vita per me la troverà”. Come dice il Concilio, nella Gaudium et spes: “L’uomo si compie solo quando fa della propria vita un dono”. Questo significa uscire da sé. Il dono è qualcosa di cui io mi privo. Ma in realtà noi conserviamo solo ciò che doniamo. Noi invece spesso facciamo una vita da ragionieri. Noi facciamo i nostri conti. Facciamo una vita da ragionieri – con tutto il rispetto per i ragionieri.
Solo se siete in rapporto con Dio potete servire i ragazzi. Altrimenti il servizio vi svuoterà. Come avviene a noi preti.
Dobbiamo restare appesi come in parete. Appesi ad un chiodo. Quel chiodo è Gesù. Avete scelto come motto di questa Rupe di Assisi “Vedere il Tutto in tutte le cose”. Questo Tutto è Cristo, è Dio. Tutte le cose non sono parte di Dio. Noi non siamo panteisti. “Vedere il Tutto in tutte le cose” vuol dire che tutte le cose sono amate da Dio. E fra le cose soprattutto gli uomini.
Sembra difficile seguire Cristo e vederlo in tutte le cose. Difficile, ma non impossibile. Come diceva Claudel: “La gioventù non è fatta per il piacere, ma per l’eroismo”. Pablo Picasso diceva similmente: “Si impiega tanto tempo per diventare giovani”. Non basta cioè avere pochi anni per essere giovani. C’è chi ha pochi anni, ma è morto dentro, è vecchio dentro. Ed, all’opposto, ci sono vecchi che sono giovani. Io correggerei la frase di Picasso: “Ci vuole pochissimo tempo per diventare giovani e restare giovani”. Basta lasciarsi amare da Dio. Allora si diventa giovani e si resta tali. Ma bisogna arrendersi a Dio».