Caravaggio a Roma. Una vita dal vero: una mostra che sorprende (la mostra presso l’Archivio di Stato nel complesso di Sant’Ivo alla Sapienza), di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Per altri articoli su Caravaggio, vedi la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2011)
Si comincia con Giordano Bruno e si termina con l’attribuzione di un ritratto di papa Paolo V Borghese a Caravaggio, l’unica opera del maestro presentata nell’esposizione. Ed è proprio questo percorso ad essere estremamente interessante.
Il termine estremo, il ritratto del 1605. I curatori della mostra, dopo un attento restauro che ha permesso anche di analizzare i colori utilizzati, dichiarano che quel Paolo V è del Merisi. Alcune caratteristiche dell’opera rimandano chiaramente al suo pennello[1], anche se altri tratti sembrano meno persuasivi. Ma se anche l’opera esposta non fosse di sua mano, sono i biografi di Caravaggio ad attestare che egli dipinse dal vivo il neoeletto papa. Lo dichiara esplicitamente il Bellori: «Si compiacque il Cardinale [Scipione Borghese] di queste, e di altre opere, che gli fece il Caravaggio [...] l’introdusse avanti il Pontefice Paolo V, il quale fu da lui ritratto a sedere».
Dunque, Caravaggio non solo amico di monsignori e cardinali, ma ammesso a ritrarre lo stesso pontefice. Non che il dato debba sorprendere. È evidente che Caravaggio cita almeno due volte Michelangelo Buonarroti dei Palazzi Vaticani. Il dito del Cristo che chiama San Matteo nella Cappella Contarelli è il dito del Creatore nella volta della Sistina e l’iconografia di Paolo ed ancor più di Pietro nella Cappella Cerasi è chiaramente ispirata alla Cappella Paolina. Quindi Caravaggio frequentava dall’interno il Palazzo Apostolico ed era ammesso in Sistina ed in Paolina dove poteva ammirare le opere del grande maestro rinascimentale cui si sentiva evidentemente legato dall’ammirazione.
Gli stretti rapporti con il pontefice risultano evidenti anche dal fatto che, quando giunse da Malta la richiesta perché egli divenisse “frater” dell’Ordine di Malta, cioè cavaliere crociato, da Roma giunse l’assenso, nonostante l’esplicita controindicazione ricordata dalla petizione maltese che egli fosse reo di omicidio. La benevolenza che si nutriva verso di lui è ancor più evidente dalla grazia che Paolo V concesse poi al pittore e che, se non fosse avvenuto l’incidente di Palo e la conseguente morte all’argentario, avrebbe riportato a Roma Caravaggio. Solo la sventura ha impedito un secondo periodo artistico del Merisi a Roma.
Ma quella benevolenza doveva essere ricambiata dal Caravaggio. Era lui stesso a voler tornare nell’urbe, non solo i papi ed i cardinali a desiderarlo. Come dalla Lombardia era sceso a Roma per farvi carriera, così, dopo la fuga, era nell’urbe che il Merisi voleva ritrovarsi a vivere ed a dipingere.
Ecco allora il ritratto di Paolo V, che non aggiunge niente di nuovo a ciò che si sapeva, ma che presenta, come in un’icona, il legame del Caravaggio con il pontefice. Il ritratto sembra realizzato addirittura prima che il pontefice prenda possesso della sua sede. Come scrive Federica Papi nel Catalogo della mostra: «Che il ritratto sia stato realizzato al palazzo del Quirinale sembra suggerirlo [...] la sedia su cui è accomodato il pontefice che, corrisponde esattamente a quella di velluto rosso con fusto di canna d’india registrata negli inventari della Floreria “a Montecavallo nelle stanze di N.ro Sig.re [Paolo V]”. La circostanza che il papa non sia ritratto su quella pontificale con i classici emblemi araldici induce a ritenere che il dipinto sia stato eseguito pochissimo tempo dopo la nomina papale, quando la sedia ufficiale probabilmente non era ancora pronta. Anche la mancanza dell’anulus piscatoris che il papa avrebbe dovuto indossare sulla mano destra – quello a sinistra sembra infatti essere solo un prezioso gioiello di famiglia – comproverebbe un’esecuzione dell’opera nei primissimi mesi successivi all’elezione, comunque sicuramente entro il 6 novembre 1605, giorno della presa di possesso del Laterano» (in Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, De Luca, 2011, p. 226).
L’evidenza dei fatti presenta dunque il Merisi come un tipico rappresentante della Roma controriformistica del tempo. Questo appare anche dai contatti che Caravaggio ebbe con gli altri pittori del tempo, contatti che sono lungamente indagati dalla mostra di S. Ivo alla Sapienza.
Viene presentata, infatti, tutta la documentazione relativa alla querela di Giovanni Baglione contro il Merisi, ma anche contro Orazio Gentileschi, Onorio Longhi e Filippo Trisegni. Agli occhi del Baglione, insomma, Caravaggio non è un eccezione, bensì è uno del gruppo di coloro che scrissero i sonetti che lo dileggiavano.
I versi in questione sono acclusi agli atti e sono visibili nella mostra. Basta scorrerli rapidamente per percepire quale era il clima della Roma controriformistica di allora:
Gioan Bagaglia tu non sai un ah
le tue pitture sono pituresse
volo vedere con esse
che non guadagnarai
mai una patacca
che di cotanto panno
da farti un paro di bragesse
che ad ognun mostrarai
quel che fa la cacca
porta là adunque
i tuoi desegni e cartoni
che tu ai fatto a Andrea pizicarolo
o veramente forbetene il culo
o alla moglie di Mao turegli la potta
che [libelli] con quel suo cazzon da mulo più non la fott[e]
perdonami dipintore se io non ti adulo
che della collana che tu porti indegno sei
et della pittura vituperio.
In questo primo sonetto, la collana cui si fa riferimento è quella d’oro che il Baglione aveva ricevuto in dono dal cardinale Giustiniani e che evidentemente gli altri gli contestavano.
Anche il secondo sonetto è abbastanza esplicito – e prosegue il riferimento alla stessa catena:
Gian Coglion senza dubio dir si puole
quel che biasimar si mette altrui
che può cento anni esser mastro di lui.
Nella pittura intendo la mia prole
poi che pittor si vol chiamar colui
che non può star per macinar con lui.
I color non ha mastro nel numero
si sfaciatamente nominar si vole
si sa pur il proverbio che si dice
che chi lodar si vole si maledice.
Io non son uso lavarmi la bocca
né meno di inalzar quel che non merta
come fa l'idol suo che è cosa certa.
Se io mettermi volesse a ragionar
delle scaure fatte da questui
non bastarian interi un mese o dui.
Vieni un po' qua tu che vo' biasimar
l'altrui pitture et sai pur che le tue
si stano in casa tua a chiodi ancora
vergognandoti tu mostrarle fuora.
Infatti i’ vo' l'impresa abandonare
che sento che mi abonda tal materia
massime si intrassi ne la catena
d'oro che al collo indegnamente porta
che credo certo (meglio) se io non erro
a piè gli ne staria una di ferro.
Di tutto quel che a detto con passione
per certo gli è perché credo beuto
avesse certo come è suo doùto
altrimente ei saria un becco fotuto.
Anche nell’uccisione di Ranuccio Tomassoni – anche questo episodio è indagato dalla mostra – il Merisi non fu solo. L’unica incertezza riguarda il numero delle persone coinvolte nella rissa, poiché una fonte asserisce che fossero stati altri tre oltre all’indagato ed al morto a duellare, mentre una seconda fonte parla di due gruppi di quattro che si affrontarono.
Si aggiunga che – anche se il fatto non viene precisato nella mostra – il cavalier d’Arpino non conduceva una vita diversa. Fu, infatti, probabilmente lui a commissionare il ferimento di un altro pittore, il Roncalli, perché quest’ultimo gli era stato preferito per dipingere a Loreto.
Insomma la mostra lascia intravedere uno spaccato della Roma del tempo ben diverso da quello abitualmente presentato. Il termine “controriforma” è un cliché usato in maniera ideologica a descrivere una Roma che non è quella che appare a cavallo del secolo e che pure è chiaramente una Roma controriformista. La scoperta che il Merisi conduceva una vita non particolarmente dissimile da quella degli altri artisti di quella Roma controriformista – anch’essi coinvolti in storie non particolarmente edificanti – e che egli fosse intimamente legato non solo ai monsignori e ai cardinali della Curia del tempo, ma addirittura allo stesso papa, hanno alla fine l’effetto di illuminare non solo la vita del pittore, ma ancor più i connotati di una “controriforma” che esce dalla leggenda, per misurarsi finalmente con la storia.
Da questo punto di vista l’unico appunto che si può muovere all’esposizione è quella di presentare come primi due documenti i registri della Confraternita che assisteva i condannati a morte, aperti alle pagine che raccontano le tristi vicende di Giordano Bruno e di Beatrice Cenci, offrendo il destro a guide non attente ad iniziare il percorso con il cliché abituale: «Nella Roma controriformista che uccideva gli eretici, ecco l’eccezione, il gran Caravaggio»!
Il paragone, infatti, con documenti proveniente dal mondo protestante del tempo mostrerebbero immediatamente che la pena di morte era abituale in tutti gli stati anche lontani dalla riforma tridentina e che essa era comminata ad eretici e streghe anche nei paesi calvinisti o luterani. E che addirittura 50 anni dopo la condanna di Galilei e di Bruno, esattamente nel 1656, il consiglio della sinagoga di Amsterdam scomunica Baruch Spinoza con queste parole: «I Signori del ma'amad [consiglio degli anziani] comunicano alle vostre Grazie che, essendo venuti a conoscenza da qualche tempo delle cattive opinioni e della condotta di Baruch de Spinoza, si sforzarono in diversi modi e promesse di distoglierlo dalla cattiva strada. Non potendo porre rimedio a ciò e ricevendo per contro ogni giorno le più ampie informazioni sulle orribili eresie che praticava e sugli atti mostruosi che commetteva, e avendo di ciò numerosi testimoni degni di fede che deposero e testimoniarono soprattutto alla presenza del suddetto Spinoza, egli è stato riconosciuto colpevole; esaminato tutto ciò alla presenza dei Signori rabbini, i Signori del ma'amad hanno deciso, con l'accordo dei rabbini, che il suddetto Spinoza sia messo al bando ed escluso dalla Nazione d'Israele a seguito del cherem che pronunciamo ora in questi termini: Con l'aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, noi escludiamo, cacciamo, malediciamo ed esecriamo Baruch de Spinoza con il consenso di tutta la santa comunità, in presenza dei nostri libri sacri e dei seicentotredici precetti in essi racchiusi. Formuliamo questo cherem come Giosuè lo formulò contro Gerico. Lo malediciamo come Elia maledisse i figli e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno, che sia maledetto di notte; che egli sia maledetto durante il sonno e durante la veglia, che sia maledetto quando entra e che sia maledetto quando esce. Voglia l'Eterno accendere contro quest'uomo tutta la Sua collera e riversare su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge. E voi restiate legati all'Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con (Spinoza) alcuna relazione né scritta né verbale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno l'avvicini a meno di quattro cubiti. Che nessuno viva sotto lo stesso tetto con lui e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti».
Insomma “nuovo” sarebbe smettere di etichettare come “tipicamente controriformista” ciò che è piuttosto pienamente appartenente al tempo ben al di là dei territori legati ad un determinato influsso cattolico.
La mostra Caravaggio dal vero ha comunque il pregio di snodarsi veramente da luoghi comuni verso nuove vie.
Note al testo
[1] Così scrive Federica Papi, in Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, De Luca, 2011, p. 225: «La pulitura e il leggero restauro di cui dà conto Carla Mariani nella relazione tecnica posta in calce alla scheda, hanno infatti restituito al dipinto quelle qualità cromatiche e luministiche attribuibili solo al pennello del grande maestro lombardo. A Caravaggio rimanda innanzitutto la tecnica pittorica: la solida figura del papa è infatti costruita senza disegno, nessuna linea di contorno ma solo incisioni praticate sulla mestica ancora fresca. Il colore è steso a corpo e i pigmenti usati sono quelli tipici della tavolozza dell’ultimo periodo romano: biacca, terre bruciate, rosso cinabro ripassato con lacca rossa di Garanza. I molti pentimenti avvenuti in corso d’opera, visibili perfino ad occhio nudo, non solo provano che non stiamo di fronte a una copia, ma rivelano anche che, dopo una prima rapida stesura, l’artista è dovuto tornare più volte sui suoi passi. La fretta con cui Caravaggio dovette eseguire il ritratto, sensazione che si ha [ad un primo sguardo] e che ha condotto spesso la critica a esprimere su di esso un giudizio negativo, potrebbe spiegarsi, non tanto con il disinteresse per il soggetto, come propose a suo tempo Venturi, quanto con la poca disponibilità dell’autorevole modello a rimanere in posa».