Il contributo dei cattolici al processo di unificazione. Come la Chiesa si reinventò dopo l'unità d'Italia, di Lucetta Scaraffia
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 21-22/3/2011 un articolo scritto da Lucetta Scaraffia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti vedi la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (22/3/2011)
Sarà dal 24 marzo in libreria la raccolta di saggi, curata da Lucetta Scaraffia, I cattolici che hanno fatto l'Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all'Unità d'Italia (Torino, Lindau, 2011, pagine 251, euro 23). Anticipiamo ampi stralci dell'ultimo capitolo scritto dalla curatrice. Allo stesso tema è dedicata la mostra "Un'amicizia all'opera. La santità piemontese nella Torino dell'Unità" promossa dal centro culturale Pier Giorgio Frassati, in collaborazione con il consorzio Beni culturali Italia, e aperta dal 21 marzo al 10 maggio a Torino, a Palazzo Barolo.
Nel settembre 1860 le monache del monastero delle clarisse di Monteluce di Perugia vedono la loro vita tranquilla sconvolta dall'arrivo dei piemontesi, e lo narrano spaventate nel loro Memoriale: "Tornato il sullodato padre quasi correndo dal Vescovado ci annunziò che a momenti si doveva partire per andare in altro monastero dovendo in breve arrivare l'armata piemontese che si sarebbe qui accampata. Immagini ognuno il disturbo, la confusione, lo sbigottimento di tutte noi".
Altre clarisse entrate successivamente nello stesso monastero, il 24 maggio 1915, al momento dell'entrata in guerra dell'Italia scrivono sempre sul Memoriale: "L'ora terribile è suonata e la guerra tanto temuta e scongiurata con tante preghiere fatte dì e notte è stata dichiarata dal nostro re Vittorio Emanuele III all'Austria (...) mentre un esercito si batte per la patria, noi pregheremo per essi e la preghiera affilerà le armi loro e le renderà robuste".
È una testimonianza, questa, del cambiamento di atteggiamento dei religiosi cattolici in poco più di cinquant'anni nei confronti della nuova nazione italiana, una prova di come, in un tempo relativamente breve, sia avvenuto un capovolgimento della situazione: da una forte contrapposizione iniziale a una sostanziale condivisione. È stato solo un adeguarsi alla realtà per ragioni di forza maggiore, oppure, fin dall'inizio, il rapporto così conflittuale fra nuovo Stato e Chiesa cattolica ha conosciuto una storia più complessa e in fondo più positiva di quella a cui spesso è stata ridotta?
I problemi da affrontare erano di due tipi, entrambi gravi e complicati: da una parte la Chiesa, con la sua realtà di Stato territoriale che occupava il centro della penisola, si opponeva di fatto alla sua unificazione, dall'altra le condizioni di assoluto privilegio di cui il clero e tutte le istituzioni ecclesiastiche godevano all'interno degli Stati peninsulari erano incompatibili con i principi liberali, e ancor di più con quelli democratico-mazziniani che animavano il movimento risorgimentale.
Il problema è stato affrontato dagli storici cattolici solo nella seconda metà del Novecento, con un atteggiamento sostanzialmente comprensivo verso le esigenze di formazione del nuovo Stato e la necessità della modernizzazione liberale: storici come Traniello, Scoppola, Rumi, Martina, hanno preferito guardare al cattolicesimo più favorevole alla modernizzazione, più vicino alla nuova entità nazionale, dimenticando l'intransigenza e la separazione che hanno segnato - se pure con intensità diversa - gli anni che vanno dall'Unità alla prima guerra mondiale.
Ma nel frattempo la storiografia cattolica, spesso anche interna alle stesse congregazioni religiose, ha avviato un interessante allargamento degli studi alla storia delle congregazioni di vita attiva nate nell'Ottocento, protagoniste di importanti interventi sociali nell'Italia appena riunificata, che hanno permesso di guardare al problema da un punto di visto più informale e positivo di quello del rapporto fra le istituzioni.
Inoltre, negli ultimi decenni, è nata anche una storiografia cattolica tesa a recuperare in positivo le ragioni dell'intransigenza, descrivendo però il processo unitario in modo piuttosto unilaterale e negativo, cioè come una dura e violenta sopraffazione delle ragioni della Chiesa e dei cattolici da parte del nuovo Regno. Non si deve dimenticare, però, che il contributo di questo gruppo di storici è stato determinante per riaprire il dibattito e far conoscere la realtà di un processo storico in gran parte rimosso.
Certo, nei confronti della Chiesa lo Stato sabaudo fu ingiusto e prevaricatore, negandole la libertà proprio quando la concedeva a tutti, ma oggi studi recenti offrono la possibilità di una nuova sintesi interpretativa più equilibrata, come quella avviata da Andrea Riccardi, che pure ha riconosciuto che "l'intransigenza è stata qualcosa di più che una serie di battaglie contro nemici esterni: ha realizzato una ricomposizione profonda della Chiesa dopo la sua emarginazione dai quadri istituzionali". La Chiesa si ricentra su Roma e sul papato, e così si ricostruisce e si rafforza in una dimensione mondiale invece di spezzarsi in segmenti nazionali.
Quasi sempre, questi studi hanno mantenuto una prospettiva strettamente nazionale, senza prendere in considerazione il fatto che la costituzione del nuovo Regno d'Italia, con la fine del potere temporale della Chiesa, ha determinato un cambiamento sostanziale di una istituzione universale, che avrebbe poi coinvolto, nel giro di pochi anni, il cattolicesimo mondiale.
In sostanza, si può affermare che lo stretto legame fra Italia e sede del Papa provocò un positivo effetto di modernizzazione e di spiritualizzazione della struttura ecclesiastica che ebbe benefici effetti sullo stato del cattolicesimo nel mondo. Un vero esempio di eterogenesi dei fini, dal momento che i molti nemici della Chiesa pensavano invece che, privata del potere temporale, la Chiesa sarebbe scomparsa.
Non è un caso che, nell'Inghilterra dell'inizio Novecento, esca per la penna di Robert Benson, intellettuale anglicano appena convertitosi al cattolicesimo, un romanzo che si può definire di fantascienza religiosa dove si immagina che Roma sia rimasta sotto il dominio del Papa, in un'Italia unificata. Il protagonista, un sacerdote cattolico inglese, arriva a Roma e la trova ferma a vent'anni prima: "Il mondo aveva camminato molto: ma Roma non si era mossa". Questa volontà di rimanere impermeabile alla modernizzazione sembra essere la condizione, secondo l'autore, per il mantenimento di una tradizione a cui lui stesso aderisce.
La storia ci insegna invece che non furono indispensabili queste condizioni per mantenere la trasmissione della tradizione cattolica, dal momento che tanto male si è volto in bene, nel giro di pochi decenni. Ma questo è accaduto anche perché, pure all'interno della Chiesa, i punti di vista erano molti e diversi tra loro, e c'erano cattolici pronti a cogliere anche la perdita di beni e di poteri come un'occasione per riformare la vita religiosa. E fra costoro, come vedremo, un posto particolare lo ebbero le donne.
Senza dubbio, a confermare l'interpretazione più pessimista circa le intenzioni distruttive dello Stato italiano nei confronti della Chiesa sono state le leggi di espropriazione delle proprietà ecclesiastiche, che però, proprio mentre sembravano distruggere la Chiesa, hanno contribuito a rinnovare la vita religiosa. E che il risultato finale fosse poi stato ben diverso da quello che si proponevano gli anticlericali fautori delle leggi lo rivela Crispi, in un discorso tenuto alla Camera nel 1895, in cui presenta i risultati di un'inchiesta sulle associazioni religiose: "Il movimento religioso è tale da doversi impensierire (...). In Francia le congregazioni religiose sono attualmente aumentate e vanno al di là di quante erano nel 1789; hanno rifatto la manomorta e la stanno rifacendo in Italia (...). La legge del 1866 e quella del 1873 per la soppressione delle corporazioni religiose furono impotenti. Noi abbiano negato alle corporazioni religiose la personalità giuridica, ma non abbiamo impedito alle medesime di potersi raccogliere. E si sono raccolte; e possiedono più liberamente di quello che possedevano prima del 1866 e del 1873".
Il risultato della politica economica antiecclesiastica, alla fine, fu poi una sorta di compromesso che permise alle congregazioni di vivere, rinnovando le loro forme di vita. Ed è importante sottolineare che "le leggi del 1866 e del 1873 non soppressero alcun Ordine religioso e nessun Ordine religioso scomparve a seguito di esse".
Le pressioni a ridurre la Chiesa all'interno del diritto comune, mettendo fine ai suoi privilegi, che non trovano voce esplicita nello Statuto albertino del 1848, sfoceranno invece nel 1850 nelle leggi Siccardi: la prima era rivolta a sopprimere l'autonomia del foro ecclesiastico, togliendo ogni privilegio al clero, e indirizzando così la legislazione successiva sulla strada dell'uguaglianza dei culti; la seconda invece toccava proprio la proprietà ecclesiastica, con l'intento di limitare la concentrazione di beni nella cosiddetta manomorta. Ma la legge più rilevante fu quella, presentata da Cavour e da Rattazzi, del 1854, oggetto di discussione intensa nel Parlamento: con questo provvedimento cessavano di esistere, quali enti morali, le case degli Ordini religiosi, tranne quelli socialmente utili. Gli Ordini soppressi furono 21 maschili e 13 femminili, per un complesso di 335 case e 5.489 persone nei soli Stati sardi. I beni incamerati, per il momento, furono mantenuti all'interno dei bisogni religiosi, ma ciò nonostante fu forte l'opposizione dei cittadini piemontesi: di loro infatti 69.000 firmarono una petizione contraria alla legge, un numero ben superiore a quello dei votanti.
In sostanza, il Piemonte cattolico aveva pagato questo prezzo all'anticlericale Rattazzi per trovare un punto in comune fra gruppi politici estremamente eterogenei che condividevano solo il desiderio di unificare la penisola e di darle un'autonomia politica dai Paesi stranieri: monarchici, repubblicani, liberali di destra e di sinistra, esuli politici di tutti gli Stati italiani che erano stati accolti in Piemonte. Questa scelta assicurava anche al Piemonte l'alleanza della classe politica inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell'imperatore Napoleone III. "Fu, dunque, la difficile gestione del rapporto con il movimento moderato del resto d'Italia e poi con Garibaldi e i democratici - ancora una volta i problemi della strategia principale di Cavour - a dominare il campo; e il problema del rapporto con la Chiesa ne restò, tutto sommato, strumento tattico, come era stato - secondo la nostra interpretazione - in partenza. È forse uno di quei casi in cui la creazione politica avviene a spese dell'aggravamento di problemi di cui dovranno farsi carico le generazioni future" scrive Cafagna.
Dopo l'unificazione, la legge piemontese di eversione dei beni ecclesiastici venne subito applicata al resto della penisola, mentre il Codice civile dichiarava che "i beni degli istituti ecclesiastici sono soggetti alle leggi civili". Il Sillabo - che segna l'inevitabile inasprirsi dei rapporti con il pontefice - ribadisce invece la tesi opposta, cioè la piena autonomia della Chiesa dal potere civile e il diritto di questa di acquistare e possedere.
La crisi finanziaria in cui versava il nuovo Stato, unito all'inasprirsi dei rapporti con la Chiesa, costituì quindi il terreno favorevole alla promulgazione delle leggi del 1866-1867, che negavano alle organizzazioni religiose la personalità giuridica, cioè la possibilità di possedere dei beni.
Nonostante questi provvedimenti drastici, che segnarono una forte diminuzione del numero dei religiosi, il mondo monastico e conventuale italiano sopravvisse, purificandosi e modernizzandosi.
L'espropriazione ebbe conseguenze soprattutto dal punto di vista amministrativo: gli istituti religiosi, infatti, cercarono di utilizzare al massimo le possibilità offerte dalle leggi civili per garantire la propria sussistenza e le proprie opere. Molti tentarono di salvarsi, optando per diverse soluzioni: "O intestando i beni a singoli religiosi o religiose, o costituendo società tontinarie - come fece don Bosco - cioè intestavano i beni a un gruppo di persone, il cui numero poteva essere sempre ricostituito, con il vantaggio di pagare meno al momento della successione. O vendendo gli immobili a secolari ed ecclesiastici di loro fiducia, oppure fondando società immobiliari, società per azioni, società cooperative, o chiedendo l'approvazione civile come enti morali".
Per operare queste strategie di sopravvivenza, i religiosi - in quanto fortemente limitati nelle loro attività economiche dal diritto canonico - avevano bisogno di apposite dispense, che la Santa Sede concesse rapidamente. In sostanza, alle congregazioni religiose fu chiesto un intervento nuovo, una rottura con la tradizione che rivelò spesso anche positivi effetti di modernizzazione.
Ma la via più moderna, battuta da molti istituti, fu quella della creazione di società anonime per azioni: la prima fu quella del Pontificio istituto missioni estere di Milano, nel 1866, e nello stesso anno la Società educativa delle Marcelline, di cui veniva nominata direttrice Marina Videmari, la fondatrice, che rimase in vita fino al 1940. Seguirono questa strada anche le suore di Carità fondate da Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, che costituirono l'associazione civile Sorelle della Carità in Milano. E l'elenco delle nuove società è lungo: Società anonima San Giuseppe, Società anonima San Pietro, Società anonima proprietà fondiarie, Istituto ligure dei beni stabili, Società ligure-emiliana di beni immobili, Società anonima per azioni San Paolo, La Immobiliare Valtellinese, e così via. Denominazioni che congiungono il nome di un santo antico con la moderna finanza capitalistica, creando spesso uno strano effetto di mescolanza di sacro e profano. Si tratta dunque di una forte spinta alla modernizzazione amministrativa, che conobbe parecchi successi, come cogliamo subito dal susseguirsi di nomi che ancora oggi ci richiamano l'esistenza di fiorenti società finanziarie.
A fine Ottocento, le innovazioni nella vita e nell'impegno religioso cominciano a coinvolgere anche le regioni meridionali. Un esempio interessante di questa commistione fra pietà popolare antica e nuove forme di vita religiosa assistenziale sviluppatosi negli ultimi decenni dell'Ottocento fu l'avvocato napoletano Bartolo Longo, a cui si deve l'"invenzione" di una nuova devozione di grande e duraturo successo - quella alla Madonna di Pompei, dove costruì un santuario - che seppe diffondere in tutta Italia, anche presso gli emigrati, con nuovi sistemi di diffusione per mezzo stampa, spedendo cioè a moltissimi nominativi, anche sconosciuti, libretti di preghiera e pubblicazioni del santuario. Accanto a questa opera devozionale, Longo volle realizzare istituti caritativi finalizzati sia all'educazione dei ragazzi della valle di Pompei sia all'educazione dei figli dei carcerati.
Longo costruisce la sua impresa seguendo le orme di don Bosco, che si reca visitare a Torino nel 1885, per capire, nel corso del breve colloquio, come aveva fatto a "conquistare il mondo". La tradizione narra che il prete torinese gli avrebbe risposto "mando il mio giornale a chi lo vuole e a chi non lo vuole" e Bartolo Longo, così, avrebbe capito che "la forza propulsiva della sua grande idea di fede e di carità" doveva essere la stampa periodica, "diffusa più ampiamente possibile e inviata anche a coloro che non pagavano".
Significava superare modi di comportarsi tipici del cattolicesimo della restaurazione, ma anche usi collaudati nel mercato librario e giornalistico, e sperimentare un nuovo tipo di utilizzazione della stampa periodica. "In altre parole - scrive Stella, biografo di don Bosco - don Bosco aveva capito l'importanza dell'opinione pubblica in un mondo che elevava i propri livelli d'istruzione e ch'era traversato dai messaggi più diversi mediante la stampa. In chiave economica aveva capito l'importanza dell'investimento di capitali a scopo di propaganda, di consenso e di ulteriore sicura mobilitazione di capitali in favore di opere di cui si faceva percepire il bisogno e l'utilità".
Come il "Bollettino salesiano", che rifletteva l'euforia di una impresa attiva e in espansione, così Longo ottenne analogo successo con il proprio periodico "Il Rosario e la Nuova Pompei", conquistando offerte per le sue opere di assistenza, prima locali, poi rivolte ai figli dei carcerati di tutta la penisola con un'opera che mirava, oltre all'assistenza dei figli, anche alla conversione dei genitori.
Anche l'iniziativa di Longo aveva una forte valenza culturale intransigente: gli scienziati positivisti della Scuola antropologica criminale sostenevano l'"impossibilità di educare i nati delinquenti", e lo accusarono di creare a Pompei "un covo di belve", usando per di più metodi educativi inadeguati, se non addirittura dannosi.
Bartolo Longo rispose proponendo i suoi come "sperimenti di fatto" che avrebbero negato l'atavismo e l'innata delinquenza, a favore della libertà dell'essere umano. Molto simile fu la risposta che don Bosco diede nei fatti a chi, come Darwin, sosteneva che gli indigeni della Patagonia fossero più simili alle bestie che agli umani, mandando i suoi missionari a convertirli e quindi a trasformarli in persone civili.
Si possono senza dubbio trovare molti elementi comuni fra i due benefattori: sia don Bosco che Longo erano promotori di santuari mariani, additavano ai fedeli la Madre di Dio come aiuto ai cristiani in ogni momento della vita, e si proponevano di affiancarle opere di assistenza rivolte alla gioventù povera, ma una certa differenza era segnata anche dal differente livello di alfabetizzazione fra il Piemonte e la Campania. Anche l'avvocato meridionale, però, dovette affrontare il problema di come collocare le sue opere all'interno dei sistemi politici e giuridici dell'epoca liberale, proponendosi come unico responsabile legale.
Fra i cambiamenti nella direzione della modernizzazione provocati dall'eversione dei beni ecclesiastici il più vistoso - e forse inaspettato - fu, senza dubbio, quello delle religiose che, fino all'Ottocento, erano state costrette dal concilio di Trento alla clausura.
Dopo la Rivoluzione francese, e la conseguente brusca interruzione della continuità secolare nella vita dei monasteri, la ripresa della vita religiosa femminile era infatti avvenuta in modo nuovo: le comunità nascevano per iniziativa di una candidata alla vita religiosa - quasi mai per desiderio di un fondatore esterno - ed escludevano la clausura e la perennità dei voti. Questo nuovo corso fu rafforzato dalle leggi di soppressione del Regno sabaudo, che comportarono la chiusura di 527 case femminili di clausura su un totale di 9.700; rimasero in vita quelle in cui le religiose svolgevano compiti di assistenza sociale.
In questa fase di mutamento, durante la quale cominciò a manifestarsi un calo delle vocazioni maschili a cui corrispose un notevole aumento di quelle femminili, le religiose svolsero un ruolo particolarmente importante: fra il 1801 e il 1973 furono fondati quasi 350 nuovi istituti, di cui ben 185 nell'Ottocento e 162 nel Novecento. Norma pressoché comune di questi nuovi istituti fu la temporalità dei voti e la possibilità di conservare la proprietà dei beni, che fu chiamata "povertà semplice".
Le gerarchie ecclesiastiche hanno guardato a questo sviluppo con molto sospetto. Le primissime fondatrici, infatti, si appoggiavano sempre a un sacerdote, fingendo che egli fosse il fondatore o cofondatore, consapevoli che l'istituzione ecclesiastica non avrebbe mai accettato una fondazione solo femminile. Soprattutto, la gerarchia non accettava che ci fossero superiore generali sempre in viaggio, che cioè si comportavano come i superiori degli istituti maschili.
Le badesse, naturalmente, c'erano sempre state, ma appunto in un monastero, cioè stanziali, mentre la superiora generale di una congregazione di vita attiva, invece, doveva visitare tutti gli istituti e quindi viaggiare. Quando le suore parlavano di superiore generali, la Santa Sede rispondeva che, poiché le donne non potevano viaggiare, non poteva esistere una superiora donna. Contro questa tendenza ha combattuto una battaglia vittoriosa Teresa Eustochio Verzeri (1801-1852), nobildonna bergamasca che nel 1830 aveva fondato, dopo molte vicissitudini e con l'appoggio del canonico Benaglio, le Figlie del Sacro Cuore di Gesù, che realizzarono in pochi decenni una vera e propria catena di scuole inferiori e magistrali per le ragazze.
Teresa, di nobile famiglia, è stata una delle più ardenti fautrici dell'autonomia economica e organizzativa delle nuove congregazioni: è la prima fondatrice a chiedere esplicitamente la centralizzazione dei beni dell'istituto e la loro amministrazione diretta - "per quanto possibile", scrive, le donne "facciano da sé" - da parte della superiora generale, figura nuova e ancora molto controversa all'interno della Chiesa. L'intensa vita spirituale, testimoniata dai suoi numerosi scritti, non le impedisce di occuparsi con successo della gestione economica delle sue case e della loro espansione.
Le prime a richiedere di potersi organizzare con una superiora generale erano state, nel 1839, le suore della Carità di Lovere, che avevano incontrato in proposito un netto rifiuto. La Santa Sede temeva di diminuire l'autorità del vescovo, e mostrava preoccupazione per i viaggi che le superiore avrebbero necessariamente dovuto compiere per recarsi da un istituto all'altro. La Verzeri però procedette lo stesso nella sua richiesta, sicura del suo progetto - "questa libertà non è soltanto utile, è necessaria", scrive al Papa - forte anche dell'appoggio della sua famiglia di provenienza.
La nobile bergamasca avanzò così la richiesta direttamente a Pio IX nel 1847, dicendo che si trattava in realtà di un potere domestico, interno alla comunità, e riuscì a ottenere l'assenso, ma solo per il suo caso specifico. Però, rendendosi conto che il decreto di approvazione delle costituzioni del suo istituto non faceva menzione dell'abolizione della Quamvis justo - la costituzione di Benedetto XIV che impediva la superiora generale - la fondatrice non esitò a intervenire nuovamente presso la Curia romana, ottenendo che il breve pontificio contenesse quanto esplicitamente approvato, in modo che la possibilità di essere governate da una superiora generale fosse esteso a tutte le congregazioni femminili.
Volendo trarre qualche conclusione, che l'Italia fosse innanzi tutto una terra cattolica lo conferma il fatto che i due principali libri dell'Ottocento - prima di arrivare al libro Cuore di Edmondo De Amicis uscito nel 1886 - cioè Le mie prigioni e I promessi sposi, usciti nello stesso anno, 1832, siano due libri fortemente cattolici come i loro autori, Silvio Pellico e Alessandro Manzoni, entrambi convertiti dal liberalismo agnostico al cattolicesimo. In entrambe le opere, le ragioni della decadenza italiana seguita alle glorie del Rinascimento vengono spiegate con il dominio straniero, e questo costituirà un paradigma interpretativo condiviso almeno fino alle sconfitte delle rivoluzioni del 1848.
In realtà un'anticipazione delle polemiche anticattoliche risorgimentali era stata fatta dallo storico ed economista svizzero protestante Sismonde de Sismondi, autore di una Storia delle repubbliche italiane nel medioevo (1818), che aveva sostenuto che all'origine della decadenza italiana, della corruzione e superstizione delle sue plebi, stava la morale cattolica. Alessandro Manzoni, su suggerimento di Luigi Tosi, nel 1819 aveva confutato questi argomenti con il pacato ragionamento delle sue Osservazioni sopra la morale cattolica.
Ma soprattutto dopo il 1848 - dopo cioè la fine del progetto neoguelfo - nella individuazione delle cause che avevano fino a quel momento impedito il formarsi di uno Stato nazione la presenza dello straniero viene sostituita o affiancata sistematicamente da quella della Chiesa.
I cattolici italiani infatti sono messi sul banco degli imputati non solo per la marcia indietro di Pio IX nei confronti della prima guerra d'indipendenza, ma soprattutto come responsabili dell'arretratezza culturale e sociale del Paese: in una caccia di tutto quello che risulta estraneo ad un rigido parametro di modernità razionalistica, ambito nel quale viene compresa anche la Riforma protestante, viene attribuita "alla Chiesa la responsabilità di aver tenuto lontano le masse dal progresso e dalla modernità".
La cultura cattolica fa infatti molta fatica ad accettare il liberalismo, che consiste, ai suoi occhi, nel mettere l'errore e la verità sullo stesso piano, mettendo in pericolo la fede e l'anima dei meno culturalmente preparati. Proprio contro questa libertà, che viene percepita come una pericolosa confusione, si muove con creatività e coraggio la cultura intransigente. Tipico esempio ben riuscito di mobilitazione intransigente sono le attività editoriali di don Bosco, e in particolare i libretti inseriti in una collana periodica iniziata nel 1853 con il titolo Letture cattoliche, libretti modesti di prezzo molto accessibile, volevano essere di lettura amena con apertura ai problemi sociali e naturalmente fondate su una ortodossa morale cattolica. Già dopo il 1870 avevano oltrepassato la tiratura di dodicimila copie, ed erano servite da modelli ad altri periodici pubblicati altrove con lo stesso titolo.
L'interesse per la stampa, intesa come impresa moderna, capitalistica, era centrale nel progetto di don Bosco, come dimostra la partecipazione dei salesiani all'esposizione universale di Torino del 1884, in cui trovava posto un padiglione dove essi avevano rappresentato tutto il ciclo della produzione libraria - dalla fabbricazione della carta fino alla stampa, alla legatoria e al banco vendita - con l'intento di presentarsi all'avanguardia del progresso.
Ma il più profondo cambiamento che si è impresso nell'Ottocento all'interno della cultura cattolica è stato proprio nel modo di essere e sentirsi cattolici: l'identità di appartenenza non è più determinata da nascita e tradizione, ma si basa su una "appartenenza sempre più consapevole", e la presenza cattolica in Italia si fa così un'alterità sempre più consapevole, migliorando quindi di qualità.
Se si vuole tentare un bilancio del conflitto scatenatosi fra Stato e Chiesa in occasione dell'unificazione del Paese dopo 150 anni, si può concludere che, nonostante indubbie violenze e prevaricazioni nei confronti della Chiesa e dei cattolici, la Chiesa non è stata indebolita da questa battaglia, ma ne è uscita più forte e purificata, e anche fortemente modernizzata, processo che era inevitabile e che trovava però molte difficoltà a essere accettato al suo interno.
Un caso particolarmente significativo è quello delle religiose che, proprio a causa dell'eversione dei beni ecclesiastici, ottengono finalmente la possibilità di agire in campo sociale, dimostrando capacità e creatività tali da cambiare il posto delle donne nella Chiesa - basti pensare che quasi tutte le sante sono state canonizzate dopo l'Ottocento - e da proporre un modello interessante di emancipazione femminile: non attraverso la rivendicazione dei diritti, ma assumendosi le responsabilità e dimostrando di essere in grado di sostenerle.
Rimane comunque sempre aperto il problema che questa positiva metamorfosi è avvenuta sotto costrizione esterna, e non possiamo fare a meno di domandarci: "Perché la Chiesa del tempo subì anziché provocare essa stessa un mutamento che, alla lunga, si rivelò un guadagno? Perché non rinunciò essa stessa allo Stato temporale che già in occasione della guerra federale del 1848 era apparso un peso e una contraddizione?". Possiamo rispondere con le parole di Romanato che questo è un "nodo difficile e sempre riaffiorante del rapporto della Chiesa con il tempo e la storia, una storia che essa vorrebbe dominare e dalla quale invece, non infrequentemente, è dominata; e non sempre, aggiungo, ricevendone un danno".
(©L'Osservatore Romano 21-22 marzo 2011)