«Il crocifisso in aula non discrimina». La Corte di Strasburgo assolve definitivamente l’Italia. Non una vittoria della chiesa... una vittoria della cultura e della storia che insieme nei secoli abbiamo costruito (di A.L., Carlo Cardia, Pier Luigi Fornari, Alessandro D'Avenia)
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Riprendiamo da Avvenire del 19/3/2011 tre articoli di Pier Luigi Fornari, Gianni Santamaria e Alessandro D’Avenia, cui premettiamo una breve nota. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito di questi testi o dell'immagine di M. Chagall non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2011)
Indice
- 1/ Una parola sul crocifisso, di A. L.
- 2/ «Il crocifisso in aula non discrimina». La Corte di Strasburgo assolve definitivamente l’Italia: mai violata la libertà di educazione, di Pier Luigi Fornari
- 3/ Un’intervista di Gianni Santamaria a Carlo Cardia: il più bel regalo per i 150 anni della nazione l’intervista. «La sentenza di primo grado era scandalosa Ora si sancisce che il simbolo religioso non è elemento di parte»
- 4/ Fare i conti con quei chiodi, di Alessandro D’Avenia
1/ Una parola sul crocifisso, di A. L.
M. Chagall, Messaggio biblico, Creazione
(Museo Chagall di Nizza)
Mi ha sempre colpito che M. Chagall, che pure non è mai divenuto cristiano, abbia posto spesso il crocifisso nei suoi quadri. A fianco degli sposi del Cantico dei cantici. E a fianco delle vittime della Shoah. Sì, perché quella “sua” croce, è l’unica che può stare vicino agli amanti e vicino ai morenti per l’odio omicida.
Anche il non credente, anche il non cristiano, riconosce che quella croce ha qualcosa da dire all’amore ed alla sofferenza, all’amore ed alla sofferenza dell’uomo di ieri e di oggi.
Per questo non è un simbolo che divide. E che non abbia diviso, ma generato unità lo dimostra la cultura e la storia della nostra Italia. Non per niente fu proprio Cavour – e non Mussolini 50 anni dopo – a volerla nelle classi della nuova scuola italiana.
La Corte Europea riconosce che è legittima la storia. Che non è un’ideologia moderna a poter far piazza pulita della storia, di quella storia che ha fatto sì che noi siamo quello che siamo.
Se si sale al Quirinale, si vede chiaramente che sulla torretta del Palazzo si erige una croce e, sotto, vi è una immagine della Vergine con il Bambino. La bandiera tricolore sventola appena più in alto.
E l’ingresso della “casa” del nostro Presidente della repubblica conserva le sculture vistosissime ancora della Madonna e del Bmabino e dei Santi Pietro e Paolo a destra ed a sinistra. E questo non solo perché quella era la “casa” del papa, fino a Pio IX, ma perché quei simboli sono su tutti i palazzi antichi della nostra magnifica Italia.
Nemmeno il Vittoriano, l’Altare della Patria, è riuscito a cancellarli. Se l’iconografia è apparentemente tutta risorgimentale – si pensi alle sei raffigurazioni, due in bronzo e quattro in pietra, dei valori degli italiani: la Forza, la Concordia, il Pensiero, l’Azione, il Sacrificio, il Diritto – basta recarsi alla base della statua equestre del re Vittorio Emanuele II, perno di tutta la costruzione, e vedere con attenzione le figure femminili che rappresentano le nostre città.
Venezia, con il leone di San Marco, simbolo dell’evangelista, Genova con lo scudo crociato dell’antica repubblica, Bologna con la toga dottorale della sua università fondata dalla chiesa nel medioevo, Firenze con l’alloro poetico che rinvia a Dante ed agli altri letterati, e così via.
Il crocifisso è conficcato nella nostra storia. Nella storia di tutti, non solo dei credenti. Nella storia della nostra magnifica Italia.
Così come nella storia delle altrettanto magnifiche nazioni che lo hanno nelle bandiere (vedi la Grecia o la Gran Bretagna), negli inni nazionali (God save the Queen), negli autori che studiano a scuola e che leggono nelle case, nelle opere d’arte che milioni di turisti si recano a visitare.
Solo nel confronto con le radici cresce rigoglioso un albero. E’ la storia. E la sentenza della Corte insegna a non privarcene.
2/ «Il crocifisso in aula non discrimina». La Corte di Strasburgo assolve definitivamente l’Italia: mai violata la libertà di educazione, di Pier Luigi Fornari
Decisiva ed emblematica correzione di rotta da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che con una sentenza definitiva della Grande Chambre ha assolto ieri lo Stato italiano dalla violazione del diritto di libertà di educazione attuato – questa era la tesi sconcertante del primo pronunciamento – con l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. I giudici che rappresentano il Consiglio d’Europa (47 Stati membri) chiudono così una vicenda avviata nella loro Corte con una condanna del nostro Paese il 3 novembre 2009 (un verdetto emesso all’unanimità da una camera di sette membri), ma proseguita poi con una udienza nel plenum di Strasburgo tenutasi il 30 giugno dello scorso anno. In quella seduta ben dieci Stati membri si erano pronunciati in difesa dell’Italia, e la sentenza emanata ieri ne tiene dettagliatamente conto.
Tant’è che la Grande Chambre afferma di non condividere la sentenza di primo grado, almeno per quanto riguarda l’equiparazione con un caso precedente: la vicenda Dahlab, nella quale si ratificò la decisione della Svizzera di proibire a una insegnante di portare il velo islamico. Significativo, dunque, che la Corte rovesci una decisione presa all’unanimità che sembrava aver irrimediabilmente piegato la giurisdizione europea in senso laicista.
I magistrati di Strasburgo hanno deciso con una maggioranza schiacciante (15 voti contro 2) che con l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane non c’è violazione dell’articolo 2 del primo protocollo aggiuntivo della Convenzione (la carta fondamentale della Corte) che impone agli Stati il dovere di rispettare il diritto dei genitori di assicurare l’educazione conforme al loro credo religioso e filosofico. Una clausola che è stata aggiunta evidentemente pensando a difendere le famiglie credenti allora viventi negli Stati comunisti.
Secondo la Corte non sussistono elementi che attestino l’influenza che il crocifisso possa avere sugli alunni («emotivamente conturbante », secondo la prima sentenza). Si riconosce poi che agli Stati è riservata una discrezionalità («margine di apprezzamento») nel conciliare le funzioni che loro competono in materia di istruzione con le convinzioni dei genitori. In sostanza i magistrati del Consiglio evidenziano l’importanza di rispettare il principio di sussidiarietà in materia religiosa. Anche perché sulla questione della presenza dei simboli religiosi nelle scuole statali non c’è una impostazione unica nei Paesi del vecchio continente.
Per la Corte, inoltre, il fatto che «la normativa italiana attribuisce alla religione maggioritaria una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico » non basta a costituire «un’opera di indottrinamento». Il concetto viene inoltre ribadito anche a proposito del fatto che al cristianesimo viene accordato nel programma scolastico uno spazio maggiore rispetto alle altre religioni. Anche sotto questo profilo «non c’è opera di indottrinamento».
In merito al caso specifico i magistrati europei osservano che «un crocifisso appeso su un muro è un simbolo essenzialmente passivo, e questo aspetto ha importanza agli occhi della Corte in riguardo in particolare al principio di neutralità ». Non gli si può «ovviamente attribuire un’influenza sugli alunni comparabile a quella che può avere un discorso didattico o la partecipazione a delle attività religiose». Si nota poi che lo spazio educativo delle scuole italiane «è aperto alle altre religioni». Non sussistono elementi che indichino «intolleranza». E poi il diritto della ricorrente contro il governo italiano di orientare i suoi figli «è rimasto intatto».
Secondo la sentenza, poi, non vi è motivo di affrontare la lamentata violazione dell’articolo 14 della Convenzione (non discriminazione) e del 9 (libertà di pensiero), perché, nel caso specifico, il problema si porrebbe solo se si fosse riscontrata la violazione dell’articolo 2 del protocollo 1. «Questa decisione è estremamente positiva per l’Europa poiché possiede una profonda 'portata unificatrice'», commenta il direttore dell’European Centre for Law and Justice, Grégor Puppinck, una delle terze parti intervenute davanti alla Grande Chambre.
Rifiutando di opporre artificialmente i diritti dell’uomo al cristianesimo, «la Corte ha inteso preservare l’unità profonda e l’interdipendenza che uniscono i valori spirituali e morali fondanti la società europea ». Puppinck, infatti, ricorda che di fronte al rischio di remissione in causa della loro identità profonda, «più di venti Paesi hanno preso pubblicamente posizione in favore della presenza pubblica del simbolo del Cristo nello spazio pubblico europeo».
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3/ Un’intervista di Gianni Santamaria a Carlo Cardia: il più bel regalo per i 150 anni della nazione l’intervista. «La sentenza di primo grado era scandalosa Ora si sancisce che il simbolo religioso non è elemento di parte»
«È il più bel regalo che potessimo ricevere per i 150 anni dell’unità d’Italia». Non nasconde la sua soddisfazione per la sentenza il giurista Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico a Roma Tre. Alla sentenza di primo grado della Corte europea dei diritti dell’uomo, ieri ribaltata, non si era rassegnato e aveva messo nero su bianco in un volume parecchie delle ragioni che ieri la Grande Chambre ha accolto (Identità religiosa e culturale europea. La questione del Crocifisso, Allemandi editore). Libro che è stato base teorica per il ricorso vincente dell’Italia.
Professore, si aspettava questo risultato? E una maggioranza di 15 a 2?
Voglio rivendicare di essere stato uno dei pochi che ci ha creduto fino in fondo. Perché, conoscendo la giurisprudenza precedente della Corte, la sentenza di un anno fa era scandalosa. Molti dicevano: ma è stata approvata da tutti e sette i giudici! Che significa, anche 2mila persone possono sbagliare insieme, ribattevo.
Cosa l’ha colpita in quest’ultimo verdetto?
La notazione, molto bella, che in Italia la scuola è aperta a tutti. Anzi qualche volta – pensi un po’ – fanno obiezione al vescovo. Da trent’anni abbiamo una scuola pluralista, e la corte ne ha tenuto conto. E si tratta di un riconoscimento della nostra laicità positiva, aperta, che non c’è mai stato prima in Europa.
Quali i cardini di questa sentenza?
Uno di principio e uno di merito. Il primo è il riconoscimento che ogni Paese ha il diritto di dare il giusto rilievo alla propria tradizione. E questo proprio in forza delle norme europee, della Convenzione per i diritti dell’uomo. Perciò la tradizione cristiana, che è qualcosa di vivo, ha un suo spazio e un suo ruolo da svolgere.
Passando al merito della questione?
Qui la Corte fa intravedere un elemento importante: il simbolo religioso in sé non comporta la lesione dei diritti del ragazzo o della famiglia, non è elemento di divisione. O addirittura di parte. Come, con un certo scandalo mio – ma non solo –, aveva affermato la sentenza di primo grado. Qui si afferma, invece, in modo sottile che esso non deve essere vissuto in maniera negativa, come se fosse ostile. Vale per la croce, ma anche per altri simboli.
Nessun indottrinamento o pressione, dunque.
Appunto. Il simbolo va visto in modo positivo, come integrazione della nostra identità italiana e – possiamo aggiungere – europea.
Quali effetti potrà avere la decisione dal punto di vista culturale oltre che giuridico, politico e sociale proprio sulla costruzione dell’Europa futura?
Innanzitutto ripara il torto fatto da quella precedente. Si badi bene, non solo all’Italia, ma alla stessa giurisprudenza trentennale della Corte. Inoltre lancia il messaggio che l’identità e la tradizione cristiane devono trovare il loro giusto posto – giusto, non esagerato, e ciò è positivo – ai livelli sociale, giuridico e giurisprudenziale. La tradizione integra i diritti di libertà. E ciò fa guardare positivamente al futuro. Perché finora c’è stato un certo atteggiamento restrittivo: si pensi all’obiezione di coscienza in materia di aborto e biotecnologie. E anche a una certa volontà di emarginare la religione, confinandola nel privato.
In pochi giorni il fronte anticrocifisso incassa due sonore sconfitte, se si possono mettere insieme la sentenza della Cassazione italiana sul giudice Tosti e ora quella di Strasburgo. Nessuna lesione della laicità, dicono entrambe le corti.
La Cassazione si è pronunciata su un caso particolare. Qui, invece, siamo a un caso generale, a una sentenza più ariosa, che soprattutto riguarda tutta l’Europa. Con l’Italia si sono schierati molti Stati di tradizione ortodossa. Il crocifisso sta quasi ovunque, tranne in Francia. Ed è importante la sottolineatura che le tradizioni vanno rispettate. In altre sentenze era prevalsa l’influenza della laicità alla francese. Stavolta viene riconosciuta la nostra concezione di laicità aperta.
4/ Fare i conti con quei chiodi, di Alessandro D’Avenia
L’ Italia è stata assolta dalla colpa di ledere i diritti umani per la presenza di un crocifisso su una parete, colpevole – per alcuni – di indottrinare con la sua presenza. Era necessaria l’assoluzione della Corte europea. Amen. Se togliamo il crocifisso dovremmo anche eliminare dal nostro calendario, se non le vacanze di Natale, almeno quelle di Pasqua, andare al lavoro anche la domenica, per non subire la violenza della risurrezione di quel crocifisso che ci obbliga a dormire fino a mezzogiorno, stare con la nostra famiglia e mangiare un dolce, senza avere ragioni particolari per festeggiare...
I crocifissi non ci sono sempre stati. Non già alle pareti delle scuole, ma delle chiese. Solo nel V secolo compaiono i primi. Non si può rappresentare Dio in croce: è scandaloso, sia per gli ebrei sia per i pagani, e quindi anche per i cristiani, che provenivano culturalmente da quelle file. Pochi sono i crocifissi, qualcuno in più in età carolingia, finché Francesco ne fa il baluardo della sua preghiera, a partire da San Damiano. Così fiorisce l’immagine del crocifisso nell’arte e nella devozione privata, e conquista anche le pareti degli edifici pubblici. Sono necessari?
Ogni luogo ha i suoi arredi. In chiesa voglio trovare un crocifisso, in classe una lavagna. Non si tratta di mettere crocifissi dove non è necessario che stiano, né toglierli da dove sono sempre stati. Lo scriveva già la Ginzburg, ebrea, negli anni ’80: «Il crocifisso non genera discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro destino. Prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini... A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola».
Va oltre Potok ne Il mio nome è Asher Lev, primo di due romanzi meravigliosi, in cui il protagonista è un ragazzo che ha talento per la pittura. La sua vocazione di artista è minacciata dall’appartenenza a una famiglia di ebrei osservanti. Nel chassidismo infatti le immagini sono un inaccettabile tentativo di scimmiottare la creazione divina, così il padre del ragazzo ostacola la vocazione artistica del figlio come fosse un peccato. Asher persegue ugualmente il suo talento e intanto scopre il nascosto dramma della madre. Così rappresenta nel suo dipinto più famoso la madre crocifissa e, ai suoi piedi, lui e suo padre. Viene allontanato dalla comunità, nonostante il suo tentativo di giustificarsi: «Per tutto il dolore che hai sofferto, mamma. Per il Padrone dell’Universo il cui mondo di sofferenza io non capisco. Io, un ebreo osservante che lavora su una crocifissione perché nella tradizione religiosa non esiste alcun modello estetico al quale far risalire un quadro di angoscia e tormento estremi».
Diceva Eliot che nessuna cultura può comparire e svilupparsi senza una religione e la cultura di un popolo è l’incarnazione della sua religione. Non sono i crocifissi appesi alle pareti, ma viceversa. In quella croce c’è la verticalità che collega cielo e terra, la fame di altezza e profondità che caratterizza persino la struttura del corpo umano rispetto a quella degli animali, e c’è l’orizzontalità che abbraccia tutto e tutti. Forse il crocifisso è tornato osceno come lo è stato nei primi secoli del cristianesimo. Forse lo toglieremo e ci colpirà ancor più la sua assenza, come mi ha detto un amico: «Chi toglie il crocifisso dai muri non può non fare i conti con il segno dei chiodi».