A livello popolare alleanza per «fare gli italiani», di Gianpaolo Romanato, Combattenti e madri: il volto rosa dell’Unità, di Elisabetta Rasy e Al di là delle barricate, Chiesa protagonista nell’unificare lo spirito, di mons. Mariano Crociata
Riprendiamo da Avvenire del 13/3/2011 tre articoli sull’Unità d’Italia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi vedi la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2011)
Indice
- 1/ A livello popolare alleanza per «fare gli italiani», di Gianpaolo Romanato
- 2/ Combattenti e madri: il volto rosa dell’Unità, di Elisabetta Rasy
- 3/ Al di là delle barricate, Chiesa protagonista nell’unificare lo spirito, di mons. Mariano Crociata
1/ A livello popolare alleanza per «fare gli italiani», di Gianpaolo Romanato
Aprendo nello scorso dicembre il X Forum culturale della Cei dedicato al centocinquantenario dell’unità d’Italia il cardinal Bagnasco ha sorpreso non pochi ascoltatori e commentatori affermando che «i cattolici a giusto titolo si sentono soci fondatori di questo Paese».
Ma come, veniva da ribattere, e la Questione romana? E il non expedit? E le scomuniche di Pio IX? E le leggi 'eversive' del 1866-67? E la Conciliazione del ’29? Se non è esistito il conflitto, che conciliazione è stata, chi si è riconciliato con chi? Obiezioni legittime, perplessità giustificate. E tuttavia chi scrive è convinto che il presidente della Cei abbia detto una cosa non solo giusta politicamente ma anche giustificata storicamente. A patto di intendersi.
Il conflitto fra la Chiesa e lo Stato è esistito, e come se è esistito. E ha pesato enormemente sulla storia di tre o quattro generazioni di italiani, con non trascurabili riflessi anche sul piano internazionale. La Conciliazione ha posto termine a un dissidio vero, che aveva lacerato le coscienze non meno delle istituzioni. Ma la storia non si svolge soltanto ai piani alti. Si sviluppa anche (e molto di più) ai piani bassi. È a questo livello che si situa il contributo del cattolicesimo italiano alla costruzione della nazione. Mentre infatti Stato e Chiesa si guardavano in cagnesco e si ignoravano a vicenda, nell’Italia profonda un esercito di cattolici lavoravano indefessamente, benché forse non sempre consapevolmente, per 'fare gli italiani'. Chi?
Tutti quei filantropi che in silenzio, spesso misconosciuti, si inventavano istituzioni benefiche a vantaggio dell’Italia abbandonata e dimenticata rappresentata da orfani, ragazzi di campagna, handicappati, gente di periferia, classi sociali miserabili, cioè quei milioni di persone che socialmente e politicamente, vivendo ai margini, se non al di fuori del Paese (verrebbe quasi la tentazione di riutilizzare la distinzione dei cattolici intransigenti ottocenteschi tra Paese legale e Paese reale…) costituivano la massa degli italiani ancora da fare.
Parlo (e cito alla rinfusa) dei don Bosco, don Guanella, don Orione, don Nascimbeni, don Baldo, cioè di quei preti che constatando l’infinita miseria dell’Italia profonda, quella che in molto casi non aveva ancora superato il gradino di partenza, cioè la civilizzazione, dedicarono la vita alla redenzione del popolo. L’Italia ufficiale spesso neppure s’accorse di ciò che facevano. Benedetto Croce nella Storia d’Europa giunse a scrivere che la Chiesa era ormai «incapace di generare nuove forme e persino nuovi ordini religiosi». Ma nelle colonie agricole di Orione, negli oratori di Giovanni Bosco, nelle scuole professionali di Piamarta, negli istituti di assistenza di Guanella (tutti fondatori di nuovi ordini), negli innumerevoli asili delle suore (prodotto anch’esse delle inedite congregazioni femminili), nasceva un rinnovato associazionismo, una disciplina ecclesiastica le cui regole erano dettate soprattutto dai bisogni del popolo.
Bisogna rileggere le pagine dimenticate della commissione Jacini sullo stato del mondo rurale, oppure certe inchieste giornalistiche del tempo (sulle zolfare siciliane, sulle campagne padane, sulle periferie urbane) per rendersi conto dell’impressionante stato di degrado, civile e morale prima che politico e culturale, dell’Italia uscita dal processo di unificazione. È questo il Paese che la filantropia cattolica aiutò un po’ alla volta a redimersi, mentre l’Italia ufficiale, per tenerlo a freno, non esitava a fare ricorso all’esercito e ai tribunali militari. Per non parlare di quella vicenda penosa e troppo spesso rimossa che fu l’emigrazione. Milioni di italiani costretti a cercare lavoro all’estero, in Europa e nelle Americhe, con un viaggio che per molti, troppi, fu di sola andata. Come ha dimostrato l’ormai ricca bibliografia sull’argomento, l’Italia pensò a loro tardi e male, quando la grande fuga era già avvenuta da un pezzo.
Anche qui, furono i cattolici a darsi da fare. Con le opere di madre Cabrini, con le iniziative di Scalabrini e Bonomelli e di tanti altri meno noti. Se ne accorse Adolfo Rossi, giornalista di gran fama dopo essere stato egli stesso emigrante, che dal 1902 fu il primo ispettore viaggiante del neonato commissariato generale dell’Emigrazione.
Mandato nel 1904 a controllare lo stato dei nostri connazionali negli Stati Uniti scrisse sul 'Bollettino dell’emigrazione' (rivista governativa) giudizi impietosi. Impietosi sul governo italiano che tollerava in patria condizioni di vita subumane, costringeva la gente ad emigrare disinteressandosi poi della sua sorte e lasciandola in balia di se stessa, senza neppure rendersi conto che questi poveri emigranti sporchi, laceri e analfabeti, preda di raggiri e di irrisione, disprezzati da tutti, diventavano pessimi ambasciatori dell’Italia nel mondo, testimoni di un Paese che aveva più ragioni di provare vergogna che di andare fiero di se stesso. Gli unici elogi di Rossi (tutt’altro che un clericale) furono per la Società San Raffaele di Scalabrini e per le suore della Cabrini. «Il bene che esse fanno è veramente notevole», scrisse raccomandando che il governo le sovvenzionasse. E aggiunse: «Grazie a madre Cabrini e alle sue compagne, migliaia e migliaia di bambini imparano l’italiano e l’inglese; molti orfani di immigrati sono ricoverati, vestiti, nutriti ed educati; e parecchie centinaia di immigranti italiani vengono ogni anno curati gratuitamente».
La costruzione della nazione e l’unificazione degli italiani è passata insomma attraverso mille canali, si è servita di innumerevoli strumenti e quelli forniti dai cattolici non furono né meno efficaci né meno incisivi. Furono soltanto meno appariscenti.
Come meno appariscente ma non meno determinante fu il contributo che la struttura ecclesiastica fornì alla tenuta del Paese in occasione del drammatico tornante della Prima guerra mondiale. Lo scrisse fuori dai denti il vescovo di Vicenza Ferdinando Rodolfi in una lettera amara e tagliente spedita al presidente del Consiglio il 30 maggio 1918. Poiché nei confronti del clero erano frequenti le misure repressive delle autorità, il vescovo vicentino, che operava con i suoi sacerdoti in uno dei territori più martoriati e flagellati, pensò bene di mettere le cose in chiaro: «Ho settecento preti, duecento sotto le armi, cinquecento in cura d’anime [...]. Con essi stanno anche centotrenta allievi del mio seminario nei posti più difficili: aviatori, arditi, nelle trincee, molti ufficiali, molti premiati, parecchi feriti». Ebbene, nessuno «ha mai mancato al suo dovere, nessuno. Non uno è fuggito. Non uno m’ha chiesto un trasloco. Può il governo dir lo stesso dei suoi funzionari?».
Eppure, conclude amaramente Ridolfi, «contro questi intemerati cittadini, i quali nell’ora della prova, con coraggio singolare, stanno al loro posto e vi confortano le infelici popolazioni di questo lembo torturato d’Italia, esempio di quella resistenza vera, fatta di opere e di sacrifici, si ordisce tutta una trama di delazioni e di denunce da parte di coloro i quali, dalle vellutate società di una resistenza di paroloni e di proclami, non pensano che a sfogare lo spirito partigiano, sotto la comoda maschera dello zelo per la patria. Ed è singolare che a ciò si prestino i decreti luogotenenziali e i magistrati dei tribunali».
La partecipazione dei cattolici alla costruzione di questo Paese è passata dunque attraverso difficoltà, strettoie, fraintendimenti, dovendo risalire una marginalità che neppure la lunga stagione di governo democristiana è valsa a colmare del tutto. L’infelice conclusione della Prima repubblica ha steso un velo di oblio su tutto ciò che di positivo la cultura politica dei cattolici ha fornito all’Italia, nel secondo dopoguerra, durante quasi mezzo secolo di governo. Si è dimenticata così una stagione di pace, di progresso e di modernizzazione che ci ha definitivamente inseriti nel campo ristretto delle nazioni più civili e avanzate.
Ricordare tutto questo non significa promuovere o difendere una memoria di parte, ma ricomporre le tessere sparse di una memoria nazionale che esiste, ed è viva e feconda, solo se riconosciamo che si compone di diversità storiche, ideologiche, sociali, culturali e politiche. Sono queste diversità, ora componendosi e ora scomponendosi, talvolta integrandosi e più spesso scontrandosi, che hanno costruito lentamente l’Italia. Credo perciò che solo dal riconoscimento e dal rispetto delle diverse memorie che compongono il nostro passato – posto che gli eventi trascorsi sono oggettivi, irrevocabili, e il loro ricordo inevitabilmente soggettivo – sarà possibile guardare avanti e progettare un futuro di condivisione e non di ulteriori fratture.
2/ Combattenti e madri: il volto rosa dell’Unità, di Elisabetta Rasy
A Roma, sul colle del Gianicolo, tra tanti marmorei volti baffuti e barbuti c’è anche il volto di una donna giovane e dai tratti aggraziati: si chiama Colomba Porzi Antonietti e morì, armi alla mano, nella difesa della Repubblica Romana nel 1849.
La sua storia è particolarmente suggestiva: figlia di un fornaio, si era innamorata di un giovane ufficiale delle truppe pontificie, il conte Luigi Porzi, e lottando contro l’opposizione della propria famiglia e di quella di lui, nel 1846 riuscì a sposarlo. Quando il marito aderì alla Repubblica Romana, per combattere con lui Colomba si tagliò i capelli e si vestì da bersagliere. Ora le sue ossa, uniche ossa femminili, riposano nel mausoleo garibaldino sul Gianicolo.
Proprio sotto lo stesso colle romano, a Trastevere, c’è una scuola dedicata a Giuditta Tavani Arquati. Giuditta era una trasteverina che morì insieme al marito e al figlioletto, e incinta di un secondo figlio - nel 1867 mentre partecipava al terzo tentativo garibaldino di prendere Roma. Entrambe furono patriote che non vollero lasciare la battaglia solo agli uomini.
Molte altre donne combatterono con le armi della loro cultura e della loro posizione, come la celebre principessa di Belgioioso, o come un’italiana d’adozione, l’inglese di nascita Jessie White sposata con il mazziniano Alberto Mario di cui condivise gli ideali. Altre donne, invece, scesero in campo per la causa risorgimentale senza infrangere i confini domestici. Per esempio le tante poetesse che parteciparono con i loro versi alla nascita dell’Italia unita, dedicando alla poesia patriottica quel po’ di cultura che erano riuscite a mettere insieme e l’esigua libertà di cui godevano.
Alcune erano ragazze di buona famiglia, altre di origini modeste, ma tutte, senza molte pretese di gloria personale, hanno contribuito alla costruzione del discorso nazionale, come racconta bene Maria Teresa Mori in un libro che ne ricostruisce la vita, le vicende e le opere ( Figlie d’Italia , Carocci editore). Ma anche le cosiddette donne di casa parteciparono alla nascita della nostra nazione, dietro le quinte, come figlie, sorelle, mogli, madri: cucendo bandiere, mandando pacchi al fronte, accompagnando feretri al cimitero.
Alcune di loro sono conosciute o addirittura celebri, per esempio Adelaide Cairoli. Per lei gli anni decisivi del Risorgimento, dal 1859 al 1869, furono incessantemente listati a lutto: in quel decennio perse quattro figli, in differenti vicende di guerre e battaglie.
«Madre incomparabile», la definì Garibaldi, e lei accettò pubblicamente quel ruolo. Così come lo accettò Olimpia Rossi, dama del gran mondo torinese, che perse due figli per la patria futura tra il 1860 e il 1861, ricevendo con dignità omaggi dai patrioti. Ma in privato del suo ruolo non le importava granché, come scrive, straziata dal dolore, in una lettera all’amico Gino Capponi: «Come ho sentito in questi tempi la vanità e la nullaggine di tutto che dà il mondo, val più un giorno di fede, e m’ha dato più forza l’abbandono in Dio, che mai non potesse tutta quanta la sapienza dell’universo e le blandizie del mondo».
Lo sguardo sulla storia cambia di epoca in epoca, man mano che progrediscono le ricerche e mutano le mentalità. Durante l’epoca fascista grande enfasi era portata sulle madri eroiche che nel Risorgimento avevano donato i figli alla patria. Oggi, simmetricamente, si tende ad opporre all’immagine del sacrificio materno quella di un protagonismo attivo femminile, come se fosse possibile ribattere con un modello Belgioioso a un modello Cairoli.
Ma la storia concreta delle donne mal sopporta questo cambio di prospettiva: l’intreccio tra la vita privata e la vita pubblica è diverso e più forte rispetto al mondo maschile e la divisione tra prime donne della scena pubblica e anonime vestali delle quotidianità appartiene a un’iconografia che con la rivendicazione della soggettività e del valore femminili non ha nulla a che vedere.
Combattenti e madri appartengono alla storia risorgimentale allo stesso titolo.
3/ Al di là delle barricate, Chiesa protagonista nell’unificare lo spirito, di mons. Mariano Crociata
L’unità ha una data convenzionale, è cioè il 17 marzo 1861, giorno della proclamazione del Regno d’Italia; ma l’unificazione italiana è un processo che viene da lontano e presenta, senza interruzione, un dato strategico di fondo: la connessione strettissima con la presenza e l’impegno della Chiesa e dei cattolici italiani. Questa emerge con grande evidenza a metà degli anni quaranta dell’Ottocento, tra l’opera Del primato morale e civile degli italiani (1843) di Vincenzo Gioberti e l’elezione di Pio IX (16 giugno 1846), anni in cui confluisce un movimento di iniziativa cattolica, di clero e di laici, che mostrava con tutta evidenza la fede cattolica come collante ed elemento di fusione per una unità nazionale da realizzare in armonia con questa identità religiosamente plasmata.
Nonostante non dia esiti positivi nel breve periodo, tale movimento indica un dinamismo essenziale. Il Risorgimento, seppure attraversato da altre correnti, è segnato da quest’anima profonda; non a caso la stessa parola solo a partire dalla metà del Settecento comincia ad assumere una valenza storicopolitica, applicata poi al processo che porterà all’unità nazionale; prima essa, nella lingua italiana, significava semplicemente risurrezione. A partire dal convulso e a tratti drammatico conseguimento dell’unificazione, si avvia un lento processo di rielaborazione della presenza del cattolicesimo in Italia che assumerà una forma differenziata rispondente alle nuove circostanze storiche; in un certo senso esso crescerà come un organismo che si struttura in una dimensione innanzitutto sociale, e poi anche politica e istituzionale. Se è vero, infatti, che la Questione romana sarà chiusa solo con la Conciliazione, l’11 febbraio 1929, nondimeno già i primi decenni dell’unità, segnati dal non expedit , diventano il crogiuolo in cui fermenta l’iniziativa dei cattolici per una autonoma e incisiva partecipazione alla vita sociale e amministrativa, che avrà nella recezione dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII e nella situazione sociale determinatasi all’indomani della Prima guerra mondiale due fattori mobilitanti.
Alla lunga prevalgono le ragioni della realtà, della vita, della socialità. Nasce un movimento: lo spinge e lo motiva non l’esclusiva difesa degli interessi cattolici o del Papa, ma una visione del bene generale, del bene comune del Paese. Si sviluppa, così, un tessuto sociale, fatto di persone, di iniziative, di associazioni, di istituzioni, che accompagna la crescita dell’Italia, trasversalmente alle classi, dispiegandosi in una serie di opere che incidono efficacemente su tutta la società italiana. I grandi cambiamenti sociali e la necessità di venire incontro alle concrete necessità del popolo stimolano non solo la costruzione di una rete di opere, ma anche innumerevoli esperienze di testimonianza e di carità evangelica.
I santi e i beati dell’Ottocento, le innumerevoli congregazioni che sorgono in tutte le regioni, testimoniano di un fervore di vita evangelica profondamente inserito nella vita sociale. Sacerdoti, religiose e religiosi, insieme a tanti laici, uomini e donne, accompagnano lo sviluppo dell’Italia, ne leniscono le contraddizioni, suppliscono ai limiti dello Stato: basti citare l’impegno profetico nell’accompagnare l’emigrazione, grande faccia nascosta dell’Italia unita.
Tra queste figure di preti spicca Luigi Sturzo [...]. Il mutamento nel giudizio sull’unificazione da parte cattolica viene in qualche modo sancito nella ricorrenza del centenario (salvo precisare che il capovolgimento formale del giudizio, senza negare forzature, soprusi e usurpazioni, in realtà racchiude, con il distacco della distanza storica, il costante intendimento sostanzialmente costruttivo del popolo cattolico nella sua interezza verso l’unità del Paese). Giovanni XXIII constata, infatti, che l’anniversario «ci trova, sulle due rive del Tevere, partecipi di uno stesso sentimento di riconoscenza alla Provvidenza del Signore, che, pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi, come accade in tutti i tempi, ha guidato questa porzione elettissima d’Europa verso una sistemazione di rispetto e di onore nel concerto delle nazioni grazie a Dio depositarie, sì, oggi ancora, della civiltà che da Cristo prende nome e vita».
Anche il cardinale Giovanni Battista Montini in un discorso in Campidoglio nel 1962, proprio nella ricorrenza del 20 settembre, parlerà anch’egli della Provvidenza, che avrebbe ingannato tutti, credenti e non credenti, poiché creava le condizioni affinché il papato riprendesse «con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo». Il mutato scenario da circa venti anni a questa parte sembra sostanzialmente confermare lo schema interpretativo adottato. L’animazione sociale ispirata al Vangelo ha trovato nuove vie e forme di espressioni, tra le quali si segnala quella che in una certa fase è stata una vera e propria esplosione del volontariato. La dimensione istituzionale, a sua volta, ha trovato rinnovato vigore grazie all’Accordo di revisione del Concordato del 1984.
Sembra tramontata invece la forma partitica dell’unità politica dei cattolici e serve una capacità nuova di rappresentare le esigenze imprescindibili della visione cristiana della realtà, consegnata all’insegnamento sociale della Chiesa, nel dibattito pubblico per una loro traduzione nelle dinamiche della vita sociale e istituzionale [...]. La formazione della Stato unitario ha avuto un aspetto di contrapposizione all’istituzione ecclesiale, tuttavia si sposa con un’unitarietà spirituale nazionale che attendeva di trovare comunque espressione in corrispondenti istituzioni civili.
Di fatto, col tempo, tale intenzione profonda ha capovolto l’immagine distorta di una Chiesa contraria all’unità d’Italia, per far emergere le ragioni contingenti di una contrapposizione non all’unità ma al senso e alla presenza della Chiesa nel Paese, e per vedere crescere e quasi esplodere un protagonismo dei cattolici nella vita del Paese, spesso in maniera decisiva, comunque rilevante in tutti i passaggi significativi della sua storia unitaria.
Il prossimo anniversario – che, come ogni anniversario, offre spunto e occasione, ma certo non obbliga ad alcunché – segna, ancor più chiaramente di quello del centenario, il definitivo superamento di contrapposizioni ormai anacronistiche, ma fa emergere altri contrasti che provengono dall’evoluzione interna della società italiana e dal suo intreccio sociale, economico e culturale con i processi di globalizzazione in cui ormai siamo irreversibilmente inseriti. Nel riconoscimento e nel rispetto della pluralità sociale culturale ed etica, e nella rilevazione del singolare impasto che è venuto a formarsi tra secolarizzazione e incomprimibile vitalità del religioso, la storia e la configurazione ancora attuale dell’Italia richiedono di fare del carattere popolare del cattolicesimo come il collante culturale, proprio perché in radice cristiano, del Paese, per affrontare la propria ricomposizione nella prospettiva delle sfide che vengono dal futuro.
Il testo che pubblichiamo è un estratto della prolusione del Segretario della Cei tenuta a Bologna il 15 dicembre 2010 alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna