L'umanesimo a Firenze (1350-1500): ascoltando il prof.Garfagnini (di A.L.)
Il prof.Gian Carlo Garfagnini, allievo di Eugenio Garin, ha tenuto una lezione sull’umanesimo fiorentino, durante l’incontro del Catecumenato europeo (Eurocat) che si è svolto dal 2 al 6 maggio 2007. Queste poche righe sono la trascrizione di alcuni appunti presi durante l’ascolto della relazione. Hanno l’unico scopo di conservare memoria di quell’incontro e non pretendono di esserne un resoconto esaustivo.
L’umanesimo – ha esordito Garfagnini - è un periodo della durata di 150/200 anni, a partire dalla metà del ‘300. Ci soffermeremo, per presentarlo, su tre passaggi salienti.
Il primo è caratterizzato dalla creazione dell’università e dalla concessione allo studium, in considerazione del tradizionale legame con Roma, della facoltà di teologia (su questo vedi G.C.Garfagnini, Città e Studio a Firenze nel XIV secolo: una difficile convivenza, in Critica storica 25, 1988, pp.182-201).
La repubblica di Firenze si dotò così di uno studio, di una università. Avere il riconoscimento di uno studium, voleva dire ottenere il riconoscimento di civitas regia, voleva dire allargare lo sguardo sul contado e poterlo pian piano dominare. Ci sono elementi nuovi nello studium fiorentino. Innanzitutto non si parlava solo in latino, ma anche in volgare. Inoltre non c’era una sede vera e propria, ma l’insegnamento era dislocato. La sede dello studio - che sorgeva dove è ora, appunto, via dello Studio - era un edificio preso in affitto e non di proprietà dell’università. Domenico Bandini – o de’ Bandini – solo per citare un esempio, venne autorizzato a tenere lezioni in casa propria. Inoltre, non si insegnavano solo autori antichi, ma anche Dante, attraverso la lectura Dantis (Boccaccio fu uno dei primi a ricevere questo incarico).
Le facoltà dell’università medioevale erano quattro: Arti (filosofia), Medicina, Diritto, Teologia. Si poteva accedere alla Teologia solo dopo essersi laureati in una delle altre tre facoltà. Pochissime università avevano la facoltà di insegnare teologia. A Firenze questo era possibile. E’ il riconoscimento della vocazione guelfa di Firenze. Remigio de’ Girolami fu uno dei primi maestri di teologia. Fu il teologo della repubblica e fu tenace assertore dell’autonomia della repubblica. Nel De bono communi e nel De bono pacis affermava che qualora sorgesse un contrasto civile fra repubblica e papato il cittadino avrebbe dovuto dare priorità al suo essere un bonus civis, un fedele cittadino della repubblica. E’ la tesi già espressa da Tommaso d’Aquino nel commento alla Politica di Aristotele. E’ la qualità del civis che emerge nell’opera dell’Aquinate, come in quella di Remigio de’ Girolami.
Hans Baron ed Eugenio Garin sono stati i sostenitori dell’umanesimo fiorentino come umanesimo civile. Secondo la loro lettura, l’umanesimo fiorentino ha avuto una precisa connotazione civile. Salutati, Bruni, Bracciolini erano umanisti ed erano presenti nella vita civile della città.
Nello studium ci fu una grande attenzione alle humanae litterae. Per prima Firenze bandì una cattedra di lingua e letteratura greca. Ci fu, inoltre, un forte legame dell’umanesimo con la spiritualità.
Il secondo episodio evidenziato dal prof. Garfagnini per introdurre alla comprensione dell’umanesimo fiorentino è la vicenda di Antonino Pierozzi, l’arcivescovo di Firenze più noto come sant’Antonino.
Sant’Antonino nacque nel 1389 e morì nel 1459. Fu discepolo di Giovanni Dominici, a sua volta seguace di Caterina da Siena. Figlio di un notaio venne accolto nell’ordine dei domenicani e divenne priore. Entrò nell’osservanza e fu fatto vicario per l’osservanza in Italia, viaggiando a Roma e Napoli. In veste di vicario tornò a Firenze ed ottenne il passaggio del Convento di San Marco in Firenze - che era dei monaci Silvestrini - ai domenicani. Il ritorno a Firenze di Antonino coincise con il ritorno dal breve esilio di Cosimo il Vecchio, dominatore non ufficiale della città, ma anche interessato ai fatti religiosi. Sono gli anni del concilio di Ferrara-Firenze, un’occasione stupenda per la cultura. Ambrogio Traversari, che fu una delle personalità più importanti del concilio, tradusse le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio. Aristotele era conosciuto all'epoca, ma gli altri filosofi greci lo erano solo attraverso di lui. Traversari li fece conoscere più direttamente, attraverso le Vite. Il Medioevo, in particolare, non aveva Platone. Conosceva solo la prima parte del Timeo, tradotto e commentato da Calcidio, un neo-platonico. Cosimo si innamorò di Platone. Affidaò il compito di tradurlo ad un giovane del contado – i funzionari più fedeli erano scelti dai Medici dal contado – cioè a Marsilio Ficino, di Figline Val d’Arno.
Sant’Antonino visse il tempo del concilio. Gli interessava governare con giustizia la diocesi, per ricostruire spiritualmente chiesa e città. Per questo scelse come punto di riferimento concreto il nuovo convento di San marco – per Savonarola, invece, il punto di riferimento sarà il Salone dei Cinquecento.
Vennero sfrattati i pochi Silvestrini rimasti in San Marco. Il convento venne ricostruito con le finanze di Cosimo il Vecchio. Sant’Antonino protesse ed incoraggiò il Beato Angelico. Accettò il progetto di Cosimo di una biblioteca per le conversazioni e le letture. E’ la prima biblioteca pubblica europea. Cosimo si fece carico dei debiti di Niccolò Niccoli e ne acquisì la biblioteca. Ancora in quegli anni l’unico modo per avere libri era quello di farseli prestare e di copiarli. La biblioteca del Niccoli più quella personale di Cosimo sono all’origine di quella di San Marco. Sant’Antonino comprese l’occasione e seppe sfruttarla. Nel convento di San Marco nascerà poi l’Accademia Marciana, nella quale si elaborerà il progetto dell’edizione trilingue della Bibbia, che non sarà poi realizzata. L’idea sarà ripresa e portata a compimento a Lovanio.
Antonino scrisse una Summa di teologia morale. Scrisse anche un Chronicon, nel quale la parte dedicata alla storia contemporanea mostra una grande capacità di penetrazione della società di allora, utilizzando le opere di Bruni e Bracciolini, suoi contemporanei.
Le quattro caratteristiche del governo di Antonino riconosciute dai contemporanei erano: giustizia, misericordia, preghiera, predicazione.
Già ai tempi di san Tommaso il discorso sull’economia si era andato allargando. Antonino parla dell’usura e si vede bene che conosce bene le banche. Affronta, come fa Bernardino da Siena, i problemi di etica economica e riconosce il valore del denaro in una economia mercantile (con il problema del credito e delle operazioni di banca, del lucro cessante e del danno emergente).
Ebbe un atteggiamento molto deciso verso il clero. Volle che i “servi del sacro” fossero veramente tali. Il suo biografo Vespasiano da Bisticci scrive: Ordinò tutta la corte sua, levando tutte le cose che avevano non solo simonia, ma ombra di simonia. Agli ordini si davano voleva essere lui alla esamina, et non dava gli ordini se non a chi egli conosceva lo meritassi, altrimenti no... Ordinò di poi il clero ch’era in grandissimo disordine... Andava ogni anno a vicitare tutto il vescovado... Voleva che ogni prete avessi uno breviario... Corresse et castigò molti preti disoluti, et contumaci, privò di loro benefici, per i loro cattivi comportamenti, quando conosceva erano incorrigibili... Autorità di persona appresso di lui non valeva, così amministrava ragione al povero come al rico, tutti gli mandava uguali, sanza farne diferenza ignuna. A munasteri di monache sottoposti alla sua diocesi gli castigò et ridusse alla vera via... Non voleva che le dote delle fanciulle, chi l’aveva a fare, facessi che, s’ella si morissi, il capitale si perdessi, altrimenti non voleva che il contratto fussi lecito.
L’opera di Antonino mirava, cioè, a togliere alle grandi famiglie la possibilità di ordinare i figli, di farli diventare preti. Si usava ancora, a quel tempo, mandare un figlio in seminario, per l’utilità della famiglia. Inoltre Antonino firmava i breviari, durante la visita pastorale, per controllare che ognuno avesse il proprio per poter pregare.
Cosimo fu il grande benefattore, anche se non il capo pubblico della repubblica.
A quel tempo si metteva al Monte la dote della figlia, ma alcune morivano prima di sposarsi (ci si sposava a 13/14 anni!). Per Antonino se la figlia moriva, lo Stato doveva restituire la dote.
Dopo il concilio alcuni intellettuali approfittarono del clima che si era ulteriormente creato. Marsilio Ficino, incaricato da Cosimo, tradusse tutto Platone, con una sua introduzione che accampognava i testi e li presentava, intrepretandoli. Tradusse anche le Enneadi di Plotino, oltre a testi a metà fra filosofia, teologia, magia ed astrologia. Hegel leggevrà ancora Platone nella traduzione di Ficino.
C’era, in Ficino, l’idea di una pia philosophia e di una docta religio, di una religione che concordasse con la ragione e di una filosofia che si riconciliasse con la religione. L'umanesimo di Ficino aveva la ferma convinzione della possibilità di questo incontro, fondato sulle possibilità della ragione umana.
Molte pagine di Ficino riprendevano la linea della Summa contra gentiles di Tommaso d’Aquino. Per Tommaso la ratio andava usata. Ognuno, prima di essere un fidelis, era uomo e lo era per l’uso della ratio.
Ficino elaborò l’idea che accanto alla ragione ed alla rivelazione ci fosse una catena di eletti che avevano ricevuto una più profonda rivelazione. Questi eletti trasmettevano tale rivelazione oralmente. Nel De vita coelitus comparanda almeno in un libro è al di là dell’ortodossia, quando afferma che l’uomo ha la possibilità di mettersi direttamente in sintonia con le potenze celesti, in una possibile deificatio. Assistiamo alla ripresa di temi avicennisti, con la presenza dell’idea di un intellectus propheticus che permettesse di entrare direttamente in contatto con le sfere celesti. Ficino accolse con entusiasmo Savonarola, ma presto se ne distaccò. Scrisse una lettera ai cardinali contro di lui, negli ultimi due anni, chiamandolo “architetto di Satana”. Per Ficino era ormai evidente che per Savonarola la ragione non aveva più un ruolo; Savonarola vedeva ormai solo la grazia e sosteneva che l’uomo non potesse far altro che disporsi ad essa, a tutto detrimento della ragione. Il tema della profezia spiega tutto Savonarola, senza bisogno della mediazione della ragione.
Alessandro VI offrì a Savonarola il cappello cardinalizio, purché non predicasse più. Si è ironizzato su questo, ma Alessandro Vi gli offrì veramente questa possiblità. Savonarola salì sul pergamo in duomo e disse: “Io desidero il cappello rosso del martirio”. Il 23 maggio 1498 fu impiccato e poi, già morto, bruciato - non fu bruciato vivo, cme alcuni affermano.
In mezzo a queste vicende troviamo la terza figura sulla quale Garfagnini si è soffermato: Giovanni Pico della Mirandola.
Egli rinunciò a tutti i suoi diritti – rovinando per sempre il casata dei Pico – per costruire una biblioteca.
Inviò le sue 900 tesi a Roma. Voleva mettere tutta la sua conoscenza a servizio di un incontro per la concordia delle religioni da tenersi a Roma. Era disposto a pagare il viaggio a tutti gli studiosi che fossero intervenuti a questo convegno da lui progettato.
Delle 900 tesi ne furono estrapolate 15/20 e 2 di esse condannate. Pico rispose con una Apologia che aggravò la sua posizione e fuggì in Francia. Era un principe, inseguito da una bolla di scomunica. Fu protetto dal re di Francia. Poi Lorenzo de’ Medici dette le garanzie per lui.
Pico poté così tornare in Italia. Scrisse l’Heptaplus, le Interpretazioni della Scrittura, tutte improntate alla spiritualità savonaroliana. E’ un altro Pico, rispetto al precedente. Morì nel 1494, al “fiorire dei gigli” come gli aveva preannunciato Savonarola (era il giorno nel quale il re di Francia entrò in Firenze).
Era divenuto un seguace dell’orazione interiore, vivendo una sua spiritualità, ma non partecipando più alla liturgia. La grande stagione dell’umanesimo fiorentino si avvia così alla conclusione, ma lascia le tracce artistiche di Leonardo, Michelangelo, ecc. ecc.
Nelle risposte alle domande rivoltegli Garfagnini ha spiegato che prima del sorgere delle università nel medioevo, c’erano le scuole cattedrali, intorno al capitolo delle cattedrali. C’era a capo di esse lo scolarca. Ma non c’era un corso regolare di studi. Poteva mancare l’una o l’altra materia per il trasferimento dei professori. Nel 1215 Roberto di Courzon firmò gli Statuti dell’Università di Parigi, i primi statuti universitari del'Europa. Da allora si affermò un corso di studi regolare. Gli studenti ricevevano degli attestati per i corsi seguiti e ricevevano i titoli necessari per poter insegnare a loro volta. Nel 1255, negli Statuti dell’Università di Parigi è specificato quanto tempo si deve dedicare ad un certo maestro, alla spiegazione di un certo passo della Scrittura, ecc. ecc. Insomma si codifica l’università.
Lo studium fiorentino venne fondato nel 1321. Il primo laureato in Sacra Pagina – cioè in teologia – concluse i suoi studi alla metà del ‘300. Suonarono le campane di Firenze a festa per quell’occasione che sanciva il riconoscimento pieno dell’università.. Parigi era allora la parens scientiarum, la madre degli studi, ma non aveva la facoltà di diritto. A Bologna mancava la teologia. Era Roma a concedere la facoltà di teologia. Le università avevano due bolle, quella della Chiesa e quella dell’Impero. Solo a Napoli, la prima bolla in ordine cronologico era stata quella dell’Impero (per la sua fondazione ad opera di Federico II). Firenze voleva lo studium, ma poi non voleva pagarne le spese. Da qui la necessità di una sede in affitto.
A differenza di Baron e di Garin, Kristeller sostiene che l’umanesimo fiorentino è innanzitutto letterario (e sono d’accordo con lui i francesi e gli anglosassoni).
Tommaso d’Aquino è modernissimo nella sua proposta politica. Il civis deve avere come primo obiettivo quello del bene del comune cui appartiene. Tommaso parla anche del consensus, della delega, ecc. ecc.
Boccaccio è, in parte, ancora medioevale, ed, in parte, nei suoi scritti in volgare, già appartenente all’umanesimo.
L’umanesimo – ha esordito Garfagnini - è un periodo della durata di 150/200 anni, a partire dalla metà del ‘300. Ci soffermeremo, per presentarlo, su tre passaggi salienti.
Il primo è caratterizzato dalla creazione dell’università e dalla concessione allo studium, in considerazione del tradizionale legame con Roma, della facoltà di teologia (su questo vedi G.C.Garfagnini, Città e Studio a Firenze nel XIV secolo: una difficile convivenza, in Critica storica 25, 1988, pp.182-201).
La repubblica di Firenze si dotò così di uno studio, di una università. Avere il riconoscimento di uno studium, voleva dire ottenere il riconoscimento di civitas regia, voleva dire allargare lo sguardo sul contado e poterlo pian piano dominare. Ci sono elementi nuovi nello studium fiorentino. Innanzitutto non si parlava solo in latino, ma anche in volgare. Inoltre non c’era una sede vera e propria, ma l’insegnamento era dislocato. La sede dello studio - che sorgeva dove è ora, appunto, via dello Studio - era un edificio preso in affitto e non di proprietà dell’università. Domenico Bandini – o de’ Bandini – solo per citare un esempio, venne autorizzato a tenere lezioni in casa propria. Inoltre, non si insegnavano solo autori antichi, ma anche Dante, attraverso la lectura Dantis (Boccaccio fu uno dei primi a ricevere questo incarico).
Le facoltà dell’università medioevale erano quattro: Arti (filosofia), Medicina, Diritto, Teologia. Si poteva accedere alla Teologia solo dopo essersi laureati in una delle altre tre facoltà. Pochissime università avevano la facoltà di insegnare teologia. A Firenze questo era possibile. E’ il riconoscimento della vocazione guelfa di Firenze. Remigio de’ Girolami fu uno dei primi maestri di teologia. Fu il teologo della repubblica e fu tenace assertore dell’autonomia della repubblica. Nel De bono communi e nel De bono pacis affermava che qualora sorgesse un contrasto civile fra repubblica e papato il cittadino avrebbe dovuto dare priorità al suo essere un bonus civis, un fedele cittadino della repubblica. E’ la tesi già espressa da Tommaso d’Aquino nel commento alla Politica di Aristotele. E’ la qualità del civis che emerge nell’opera dell’Aquinate, come in quella di Remigio de’ Girolami.
Hans Baron ed Eugenio Garin sono stati i sostenitori dell’umanesimo fiorentino come umanesimo civile. Secondo la loro lettura, l’umanesimo fiorentino ha avuto una precisa connotazione civile. Salutati, Bruni, Bracciolini erano umanisti ed erano presenti nella vita civile della città.
Nello studium ci fu una grande attenzione alle humanae litterae. Per prima Firenze bandì una cattedra di lingua e letteratura greca. Ci fu, inoltre, un forte legame dell’umanesimo con la spiritualità.
Il secondo episodio evidenziato dal prof. Garfagnini per introdurre alla comprensione dell’umanesimo fiorentino è la vicenda di Antonino Pierozzi, l’arcivescovo di Firenze più noto come sant’Antonino.
Sant’Antonino nacque nel 1389 e morì nel 1459. Fu discepolo di Giovanni Dominici, a sua volta seguace di Caterina da Siena. Figlio di un notaio venne accolto nell’ordine dei domenicani e divenne priore. Entrò nell’osservanza e fu fatto vicario per l’osservanza in Italia, viaggiando a Roma e Napoli. In veste di vicario tornò a Firenze ed ottenne il passaggio del Convento di San Marco in Firenze - che era dei monaci Silvestrini - ai domenicani. Il ritorno a Firenze di Antonino coincise con il ritorno dal breve esilio di Cosimo il Vecchio, dominatore non ufficiale della città, ma anche interessato ai fatti religiosi. Sono gli anni del concilio di Ferrara-Firenze, un’occasione stupenda per la cultura. Ambrogio Traversari, che fu una delle personalità più importanti del concilio, tradusse le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio. Aristotele era conosciuto all'epoca, ma gli altri filosofi greci lo erano solo attraverso di lui. Traversari li fece conoscere più direttamente, attraverso le Vite. Il Medioevo, in particolare, non aveva Platone. Conosceva solo la prima parte del Timeo, tradotto e commentato da Calcidio, un neo-platonico. Cosimo si innamorò di Platone. Affidaò il compito di tradurlo ad un giovane del contado – i funzionari più fedeli erano scelti dai Medici dal contado – cioè a Marsilio Ficino, di Figline Val d’Arno.
Sant’Antonino visse il tempo del concilio. Gli interessava governare con giustizia la diocesi, per ricostruire spiritualmente chiesa e città. Per questo scelse come punto di riferimento concreto il nuovo convento di San marco – per Savonarola, invece, il punto di riferimento sarà il Salone dei Cinquecento.
Vennero sfrattati i pochi Silvestrini rimasti in San Marco. Il convento venne ricostruito con le finanze di Cosimo il Vecchio. Sant’Antonino protesse ed incoraggiò il Beato Angelico. Accettò il progetto di Cosimo di una biblioteca per le conversazioni e le letture. E’ la prima biblioteca pubblica europea. Cosimo si fece carico dei debiti di Niccolò Niccoli e ne acquisì la biblioteca. Ancora in quegli anni l’unico modo per avere libri era quello di farseli prestare e di copiarli. La biblioteca del Niccoli più quella personale di Cosimo sono all’origine di quella di San Marco. Sant’Antonino comprese l’occasione e seppe sfruttarla. Nel convento di San Marco nascerà poi l’Accademia Marciana, nella quale si elaborerà il progetto dell’edizione trilingue della Bibbia, che non sarà poi realizzata. L’idea sarà ripresa e portata a compimento a Lovanio.
Antonino scrisse una Summa di teologia morale. Scrisse anche un Chronicon, nel quale la parte dedicata alla storia contemporanea mostra una grande capacità di penetrazione della società di allora, utilizzando le opere di Bruni e Bracciolini, suoi contemporanei.
Le quattro caratteristiche del governo di Antonino riconosciute dai contemporanei erano: giustizia, misericordia, preghiera, predicazione.
Già ai tempi di san Tommaso il discorso sull’economia si era andato allargando. Antonino parla dell’usura e si vede bene che conosce bene le banche. Affronta, come fa Bernardino da Siena, i problemi di etica economica e riconosce il valore del denaro in una economia mercantile (con il problema del credito e delle operazioni di banca, del lucro cessante e del danno emergente).
Ebbe un atteggiamento molto deciso verso il clero. Volle che i “servi del sacro” fossero veramente tali. Il suo biografo Vespasiano da Bisticci scrive: Ordinò tutta la corte sua, levando tutte le cose che avevano non solo simonia, ma ombra di simonia. Agli ordini si davano voleva essere lui alla esamina, et non dava gli ordini se non a chi egli conosceva lo meritassi, altrimenti no... Ordinò di poi il clero ch’era in grandissimo disordine... Andava ogni anno a vicitare tutto il vescovado... Voleva che ogni prete avessi uno breviario... Corresse et castigò molti preti disoluti, et contumaci, privò di loro benefici, per i loro cattivi comportamenti, quando conosceva erano incorrigibili... Autorità di persona appresso di lui non valeva, così amministrava ragione al povero come al rico, tutti gli mandava uguali, sanza farne diferenza ignuna. A munasteri di monache sottoposti alla sua diocesi gli castigò et ridusse alla vera via... Non voleva che le dote delle fanciulle, chi l’aveva a fare, facessi che, s’ella si morissi, il capitale si perdessi, altrimenti non voleva che il contratto fussi lecito.
L’opera di Antonino mirava, cioè, a togliere alle grandi famiglie la possibilità di ordinare i figli, di farli diventare preti. Si usava ancora, a quel tempo, mandare un figlio in seminario, per l’utilità della famiglia. Inoltre Antonino firmava i breviari, durante la visita pastorale, per controllare che ognuno avesse il proprio per poter pregare.
Cosimo fu il grande benefattore, anche se non il capo pubblico della repubblica.
A quel tempo si metteva al Monte la dote della figlia, ma alcune morivano prima di sposarsi (ci si sposava a 13/14 anni!). Per Antonino se la figlia moriva, lo Stato doveva restituire la dote.
Dopo il concilio alcuni intellettuali approfittarono del clima che si era ulteriormente creato. Marsilio Ficino, incaricato da Cosimo, tradusse tutto Platone, con una sua introduzione che accampognava i testi e li presentava, intrepretandoli. Tradusse anche le Enneadi di Plotino, oltre a testi a metà fra filosofia, teologia, magia ed astrologia. Hegel leggevrà ancora Platone nella traduzione di Ficino.
C’era, in Ficino, l’idea di una pia philosophia e di una docta religio, di una religione che concordasse con la ragione e di una filosofia che si riconciliasse con la religione. L'umanesimo di Ficino aveva la ferma convinzione della possibilità di questo incontro, fondato sulle possibilità della ragione umana.
Molte pagine di Ficino riprendevano la linea della Summa contra gentiles di Tommaso d’Aquino. Per Tommaso la ratio andava usata. Ognuno, prima di essere un fidelis, era uomo e lo era per l’uso della ratio.
Ficino elaborò l’idea che accanto alla ragione ed alla rivelazione ci fosse una catena di eletti che avevano ricevuto una più profonda rivelazione. Questi eletti trasmettevano tale rivelazione oralmente. Nel De vita coelitus comparanda almeno in un libro è al di là dell’ortodossia, quando afferma che l’uomo ha la possibilità di mettersi direttamente in sintonia con le potenze celesti, in una possibile deificatio. Assistiamo alla ripresa di temi avicennisti, con la presenza dell’idea di un intellectus propheticus che permettesse di entrare direttamente in contatto con le sfere celesti. Ficino accolse con entusiasmo Savonarola, ma presto se ne distaccò. Scrisse una lettera ai cardinali contro di lui, negli ultimi due anni, chiamandolo “architetto di Satana”. Per Ficino era ormai evidente che per Savonarola la ragione non aveva più un ruolo; Savonarola vedeva ormai solo la grazia e sosteneva che l’uomo non potesse far altro che disporsi ad essa, a tutto detrimento della ragione. Il tema della profezia spiega tutto Savonarola, senza bisogno della mediazione della ragione.
Alessandro VI offrì a Savonarola il cappello cardinalizio, purché non predicasse più. Si è ironizzato su questo, ma Alessandro Vi gli offrì veramente questa possiblità. Savonarola salì sul pergamo in duomo e disse: “Io desidero il cappello rosso del martirio”. Il 23 maggio 1498 fu impiccato e poi, già morto, bruciato - non fu bruciato vivo, cme alcuni affermano.
In mezzo a queste vicende troviamo la terza figura sulla quale Garfagnini si è soffermato: Giovanni Pico della Mirandola.
Egli rinunciò a tutti i suoi diritti – rovinando per sempre il casata dei Pico – per costruire una biblioteca.
Inviò le sue 900 tesi a Roma. Voleva mettere tutta la sua conoscenza a servizio di un incontro per la concordia delle religioni da tenersi a Roma. Era disposto a pagare il viaggio a tutti gli studiosi che fossero intervenuti a questo convegno da lui progettato.
Delle 900 tesi ne furono estrapolate 15/20 e 2 di esse condannate. Pico rispose con una Apologia che aggravò la sua posizione e fuggì in Francia. Era un principe, inseguito da una bolla di scomunica. Fu protetto dal re di Francia. Poi Lorenzo de’ Medici dette le garanzie per lui.
Pico poté così tornare in Italia. Scrisse l’Heptaplus, le Interpretazioni della Scrittura, tutte improntate alla spiritualità savonaroliana. E’ un altro Pico, rispetto al precedente. Morì nel 1494, al “fiorire dei gigli” come gli aveva preannunciato Savonarola (era il giorno nel quale il re di Francia entrò in Firenze).
Era divenuto un seguace dell’orazione interiore, vivendo una sua spiritualità, ma non partecipando più alla liturgia. La grande stagione dell’umanesimo fiorentino si avvia così alla conclusione, ma lascia le tracce artistiche di Leonardo, Michelangelo, ecc. ecc.
Nelle risposte alle domande rivoltegli Garfagnini ha spiegato che prima del sorgere delle università nel medioevo, c’erano le scuole cattedrali, intorno al capitolo delle cattedrali. C’era a capo di esse lo scolarca. Ma non c’era un corso regolare di studi. Poteva mancare l’una o l’altra materia per il trasferimento dei professori. Nel 1215 Roberto di Courzon firmò gli Statuti dell’Università di Parigi, i primi statuti universitari del'Europa. Da allora si affermò un corso di studi regolare. Gli studenti ricevevano degli attestati per i corsi seguiti e ricevevano i titoli necessari per poter insegnare a loro volta. Nel 1255, negli Statuti dell’Università di Parigi è specificato quanto tempo si deve dedicare ad un certo maestro, alla spiegazione di un certo passo della Scrittura, ecc. ecc. Insomma si codifica l’università.
Lo studium fiorentino venne fondato nel 1321. Il primo laureato in Sacra Pagina – cioè in teologia – concluse i suoi studi alla metà del ‘300. Suonarono le campane di Firenze a festa per quell’occasione che sanciva il riconoscimento pieno dell’università.. Parigi era allora la parens scientiarum, la madre degli studi, ma non aveva la facoltà di diritto. A Bologna mancava la teologia. Era Roma a concedere la facoltà di teologia. Le università avevano due bolle, quella della Chiesa e quella dell’Impero. Solo a Napoli, la prima bolla in ordine cronologico era stata quella dell’Impero (per la sua fondazione ad opera di Federico II). Firenze voleva lo studium, ma poi non voleva pagarne le spese. Da qui la necessità di una sede in affitto.
A differenza di Baron e di Garin, Kristeller sostiene che l’umanesimo fiorentino è innanzitutto letterario (e sono d’accordo con lui i francesi e gli anglosassoni).
Tommaso d’Aquino è modernissimo nella sua proposta politica. Il civis deve avere come primo obiettivo quello del bene del comune cui appartiene. Tommaso parla anche del consensus, della delega, ecc. ecc.
Boccaccio è, in parte, ancora medioevale, ed, in parte, nei suoi scritti in volgare, già appartenente all’umanesimo.