Il rito ortodosso come sintesi delle arti, di Pavel Florenskij
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Riprendiamo da Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, N. Misler (a cura di), Gangemi editore, Roma, 1990, pp. 57-67, il testo di una conferenza tenuta nel 1918 dal grande pensatore russo. Florenskij cerca di mostrare, dinanzi all’emergente linea culturale portata avanti dai nuovi leader dell’Unione Sovietica comunista che pretendono di ridurre la dimensione religiosa ad arcaica memoria da museo, come solo la realtà viva della liturgia sia il contesto nel quale appare pienamente la bellezza dell’arte russa delle generazioni precedenti. Florenskij, che negli anni 1918-1919 era stato incaricato di organizzare la “Commissione per la salvaguardia dei monumenti di S. Sergio”, con intelligenza ed un pizzico di ingenuità, si oppone all’allontanamento della comunità monastica dal monastero di S. Sergio voluto dal regime socialista utilizzando argomentazioni estetico-artistiche e cercando di lasciare sullo sfondo la fede di cui il monastero è testimone, fede a motivo della quale se ne decretava la musealizzazione.
Proprio negli stessi anni una analoga difesa dell’arte di ispirazione cristiana venne portata avanti da Marcel Proust nell’articolo La morte delle cattedrali, disponibile su questo stesso sito nella traduzione di Cristina Campo. Lo studio di Proust apparve su Le Figaro del 16 agosto 1904, in occasione della legge di separazione della Chiesa dallo Stato francese.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (9/2/2011)
Queste note costituiscono una Conferenza per la Commissione per la salvaguardia dei monumenti e delle antichità del Monastero di S. Sergio. Essa, rifacendosi ad un caso assolutamente concreto, sfiora appena problemi di grande complessità ed importanza. L’autore li accenna e li abbozza appena nella forma della conferenza e ciò viene giustificato dal tono discorsivo del dibattito. Un'altra forma di esposizione avrebbe richiesto un intero trattato.
Vorrei cominciare ad esporvi alcune considerazioni di carattere generale. Tuttavia, idee staccate dal contesto vitale in cui nascono non vengono comprese in modo corretto, e perciò cercherò di trattenere il mio discorso sul caso concreto attraverso riflessioni «concretamente» teoriche, nella prospettiva, anche se non di primaria importanza, di un museo vivo della cultura russa in generale e dell'arte russa in particolare.
Ma, d'altra, parte solo sulla base di una corretta impostazione dei principi generali e, soprattutto, di un accordo ideologico e interpretativo sulle linee fondamentali di un lavoro culturale in generale e, nel caso specifico, artistico, è possibile realizzare sistematicamente i compiti che ci presenta la realtà storica. L'attività pratica deve assolutamente andare di pari passo con l'accurata preparazione teorica di coloro che collaborano ad un lavoro comune, ma oltre a ciò, anche con l'approfondimento sul posto, proprio nel vivo del lavoro, dei problemi teorici dell'arte. Proprio nel settore di cui noi ci occupiamo, cioè del problema dell'arte religiosa come sintesi superiore di attività artistiche eterogenee, bisogna riconoscere che le questioni teoriche dell'arte non sono quasi mai state sfiorate.
Se fosse concesso di lasciar correre la fantasia dai compiti più immediati alla sfera delle possibilità (possibilità che per altro non sono lontane), allora vi diventerebbe manifesta l'idea della necessità di organizzare in un sistema tutta una serie di istituzioni scientifiche e didattiche intorno al Monastero della Trinità di San Sergio[1], come monumento esemplare e tentativo storicamente realizzato di una superiore sintesi delle arti, sintesi che tanto vagheggia l'estetica più recente.
A me il Monastero appare come una specie di «stazione sperimentale» e di laboratorio per lo studio dei problemi basilari dell'estetica contemporanea, in parte simile, ad esempio, ad una Atene contemporanea, dove la discussione teorica dei problemi dell'arte religiosa non proceda in modo astratto dalla effettiva realizzazione di finalità artistiche di questo tipo, ma in presenza di un fenomeno estetico che controlli e alimenti delle discussioni teoriche. Più avanti, forse, verrà chiarito che un Museo (per sviluppare sino in fondo la mia idea), un Museo che esista autonomamente, è una cosa falsa e, in sostanza, dannosa per l'arte, poiché l'oggetto artistico, anche se viene chiamato «cosa», tuttavia non è affatto, per questo, una cosa, non è εργον, non è l'immobile, statica, morta mummia dell'attività artistica, ma dev'essere inteso come la sorgente della creazione stessa che scorre eternamente e mai si esaurisce, come viva, pulsante attività del creatore.
Essa anche se rimossa dal proprio tempo e dal proprio spazio, è tuttavia inscindibile da questo, ugualmente rende iridescenti e gioca con i colori della vita, continuamente agitata dell'ενεργεια dell'anima.
L'opera d'arte è viva e richiede particolari condizioni di vita, soprattutto - una particolare agiatezza al di fuori della quale, se viene assunta astrattamente dalle condizioni concrete della sua propria natura artistica, - specificamente artistica essa muore, o perlomeno passa allo stato di anabiosi, cessa d'essere compresa, e a volte anche di esistere come opera d'arte. Però scopo del Museo è proprio quello di portare via l'opera d'arte intesa, erroneamente, come una certa «cosa» che si può rimuovere, e trasportare dove si vuole, e collocare come si vuole. Scopo del Museo è, al limite, l'annullamento dell'oggetto artistico come cosa viva.
Metaforicamente parlando: il Museo sostituisce al quadro finito un suo abbozzo, e va già bene se non travisa l'originale.
Ma che diremmo noi di un ornitologo, che invece dell'osservazione degli uccelli, fatta per quanto è possibile nelle loro condizioni di vita naturali, si occupasse esclusivamente della collezione di bei piumaggi? I naturalisti del nostro tempo hanno capito chiaramente la fondamentale necessità di studiare la natura, per quanto è possibile, nelle concrete condizioni naturali, e gli stessi musei di scienze naturali, nei limiti del possibile, vengono trasformati in giardini zoologici e botanici, ma non con gabbie, bensì con le condizioni di vita più vicine alla natura che si riescono a realizzare: ricordo il famoso giardino zoologico di Amburgo.
Ma perché mai la stessa idea, infinitamente più importante in rapporto allo studio delle attività spirituali dell'uomo, viene accolta in maniera minima per quanto riguarda le discipline ad esse corrispondenti? Alcuni stracci da museo o il tamburello di uno sciamano sono proprio degli stracci e un tamburello, e nello studio dello sciamanismo hanno tanto poco valore, quanto uno sperone di Napoleone nella storia della guerra dell'epoca moderna.
Quanto più l'attività umana è elevata, quanto più vi interviene in modo determinante il momento del valore, tanto più si fa avanti il metodo funzionale di analisi e di studio, e tanto più inutilmente si realizza un mediocre collezionismo di rarità e mostri: le idee sono tanto indiscutibili quanto poco comprese, nel momento in cui è necessaria la loro applicazione. Ammetto che sto rubando la vostra attenzione con queste verità sin troppo semplici, ma sono costretto a ciò da quella incapacità o pigrizia che troppo spesso si incontrano nel considerare queste verità, da quella primitiva rapina artistico-archeologica, da quella rabies museica, che pare siano pronte ad asportare un pezzettino di quadro, pur di avere la possibilità di collocarlo proprio in una determinata strada in una determinata casa chiamata Museo; in verità lucus a non lucendo: le Muse non si possono costringere in un falpalà.
In nome degli interessi della cultura si deve protestare contro i tentativi di strappare alcuni raggi del sole della creazione e, appiccicatavi sopra un'etichetta, metterli sotto una campana di vetro. Questa protesta, bisogna sperare, non rimarrà senza eco, se non adesso, nel futuro, dal momento che la realtà del museo tende chiaramente alla possibilità di rendere concreto, di arricchire vitalmente, di riempire di vitalità l'ambiente in cui si trovano gli oggetti d'arte.
Tra le pagine di P. P. Muratov[2] ne trovo alcune che sono pronto a includere nel codice di una legislazione estetico-museale. «Forse non sono affatto da ricercarsi nella luce dei musei le fonti di un autentico entusiasmo per gli antichi» - scrive l'autore delle «Immagini d'Italia». - «Chi si risolverà a sostenere che ha realmente sentito la Grecia tra le quattro mura del ‘deposito londinese’ e ha serbato nell'anima la sua immagine, uscendo sullo Strand eternamente umido o addentrandosi nei boschi nebbiosi, romantici, nordicamente sognanti di Hyde Park? Il genio del luogo a Londra è nettamente estraneo al genio del luogo in cui hanno visto la luce per la prima volta i marmi del Partenone e della Demetra di Cnido. Non è forse più vicino all'aria che ha alimentato l'invisibile vita di queste creature del mondo antico, quell’aria che ciascuno di noi respira nell'ampio cortile del Romano Museo delle Terme, anche se non vi si trovano oggetti di così grande qualità (...) Il visitatore che qui osserva i rilievi antichi può sentire a volte il cadere di una pera matura o il battere alla finestra di un albero di fico dalle foglie digitate mosse dal vento. Presso i vecchi cipressi, in mezzo al cortile, zampilla una fontana, l'edera avvolge le bianche pile sacrificali. Vi si trovano anche, in gran quantità, frammenti e sarcofaghi inondati di sole, che rende il loro travertino azzurro e trasparente, il loro marmo caldo e vivo. Per la meravigliosa vitalità di queste cose si può cedere la perfezione di un capolavoro conservato con cura in una sorda stanza.
I petali di una rosa sfiorita rimasti sulle pieghe dell'abito di una donna, scolpita non si sa quando e da chi, la abbelliscono molto di più di qualsiasi lode dei conoscitori e di tutte le dispute degli studiosi. In questi petali, in queste ombre di foglie e di rami che scivolano sul marmo, nelle lucertole che vanno su e giù per i frammenti, c'è una specie di legame fra il mondo antico e il nostro, che da solo permette al cuore di riconoscerlo e di credere alla sua vita».
Lo stesso autore parla più avanti dell'eccellente idea degli organizzatori del British Museum di portare all'aria aperta e alla luce del sole una parte delle collezioni di antichità in esso custodite. «È più pernicioso per la scultura antica un museo che per la pittura del Rinascimento una Pinacoteca (...) La scultura ha bisogno di luce e ombra, dello spazio del cielo e del contrasto tonale della vegetazione, e forse anche delle macchie di pioggia e del movimento della vita che vi scorre accanto. Per quest'arte il museo sarà sempre una prigione o un cimitero». «Una grande commozione, - dice Muratov - si impadronisce del viaggiatore che si trova in un silenzioso angolo del Foro presso la fonte di Iuturna, a cui i Dioscuri abbeveravano i cavalli».
Ma, - ci chiediamo -, avrebbero così tanto valore le pietre di questa stessa fonte, trasferite al Museo di Berlino e disposte su scaffali, anche se lungo pareti perfettamente asciutte? Non è forse vitale lo sfondo di queste pietre, forse che l'osservarle nella loro funzione non commuove ed eleva l'anima? La cosa più terribile per me nell'attività della nostra Commissione e di tutte le commissioni e le associazioni di questo tipo, in qualsiasi paese esse operino, è la possibilità di commettere dei peccati contro la vita, di scivolare nel troppo facile, semplicistico cammino di un collezionismo che uccide e snatura. E non succede forse così quando un esteta o un archeologo esaminano la manifestazione della vita di un certo organismo, di un complesso funzionalmente unitario come se si trattasse di oggetti aventi una propria autonomia, staccati dallo spirito vitale, estraniati da una relazione funzionale con il tutto?
Nell'inventario della sagrestia del Monastero incontriamo già delle prove di questo delitto. Così, parlando del noto sudario di marmo venato di giallo, offerto in dono dal grande principe Vasilij Vasil’evič Temnyj, il compilatore dell'inventario fa una postilla: «È una certa quantità di libbre di marmo, corrispondenti a un costo di 3 rubli e 50 copeche in tutto». Non ci lasceremo ingannare dall'ingenua franchezza di questa postilla: nomine mutato de te fabula narratur. Anche se in una forma complessa e raffinata, la formula «marmo per 3 rubli e 50 copeche», è canonica, si può dire, per i fautori di un astratto collezionismo di cose che, al di fuori del complesso unitario di condizioni di vita conosciute, sono prive o quasi prive di senso. «Si può solo vagheggiare, - diciamo con P. P. Muratov, che prima o poi tutti i rilievi e le statue, rinvenuti nel Foro e sul Palatino, vi ritornino dai Musei di Roma e di Napoli. Prima o poi capiranno che per l'antichità è meglio un'onesta agonia ad opera del tempo e della mano della natura rispetto al sonno letargico in un museo ».
Decentralizzare i musei, portare il museo nella vita e la vita nel museo, il museo-vita per il popolo, quotidiano educatore delle masse che vi affluiscono, e non la raccolta di rarità solo per i buongustai dell'arte, la multiforme assimilazione vitale della creazione umana, che, per di più, è a disposizione di tutto il popolo e non di un gruppetto isolato di pochi specialisti
(specialisti che spesso sono quelli che meno comprendono la totalità di un oggetto artistico): ecco le parole d'ordine di una riforma del museo, che vanno contrapposte a ciò che vi è di peggio nella cultura del passato e che merita veramente l'epiteto di «spirito borghese».
Ma torniamo alla discussione teorica. In una delle sue conferenze, Ju. A. Olsuf’ev[3] definisce lo stile come il risultato dell'accumulazione di percezioni artistiche omogenee (io aggiungerei: creative, delle nostre reazioni) di una determinata epoca, e «perciò, - dice, - nell'accordo di stile e contenuto sta la garanzia dell'autentica artisticità, dell'autenticità dell'arte di un dato tempo». In questo modo, la vitalità dell'arte dipende dal grado di coesione delle impressioni e dei mezzi per la loro espressione. L'autentica arte è l'unità del contenuto e dei mezzi di espressione di questo contenuto, ma è facile intendere questi mezzi di espressione in modo semplicistico, staccando, dalla funzionale pienezza di contenuto dell'opera realizzata, una sola sfaccettatura. Allora quel lato, l'unico solo lato di un'unità organica, viene preso come qualcosa di autonomo che esiste isolatamente dalle altre sfaccettature della realizzazione, anche se nello stesso tempo esso è una funzione che non ha una realtà al di fuori del tutto, come, allo stesso modo, non è una realtà estetica il colore raschiato da un quadro, o i suoni di un'intera sinfonia suonati tutti insieme. E se l'esteta, sulla base di questa sua semplicistica mancanza di sensibilità, tenta di tagliare i fili o, più precisamente, le arterie sanguigne, che legano il lato esaminato dell'opera d'arte con gli altri, da lui, l'esteta, non notati, allora egli distrugge l'unità del contenuto e dei mezzi per esprimerlo, annulla lo stile dell'oggetto artistico, oppure lo travisa, ma travisando lo stile, indebolendo l'opera, la priva anche della sua autentica artisticità. L'opera d'arte, lo ripetiamo, dal punto di vista della artisticità, non esiste altro che nella pienezza delle condizioni necessarie per la sua esistenza, calcolando le quali e dentro le quali, essa è stata concepita.
L'eliminazione di una parte di queste condizioni, l'allontanamento e la sostituzione di alcune di esse, priva l'opera d'arte del suo gioco vitale, la deforma e addirittura la rende antiartistica. Spesso succede che elementi di stile non omogenei, introdotti in un'opera di stile ben preciso, siano orribili, se soltanto non viene prodotta una nuova sintesi creativa. Un'Afrodite in crinolina sarebbe tanto insostenibile, quanto una marchesa del XVII secolo in aeroplano. Ma se l'integrità dell'opera d'arte, in questa forma primitiva, è universalmente ammessa, non è affatto chiara a tutti la necessità, in generale, e l'ampiezza del presupposto dell'artisticità, qui enunciato. Naturalmente, ciascuno sa che per il fenomeno estetico «quadro» o «statua» c'è bisogno di luce, per la musica di silenzio, per l'architettura di spazio, ma non altrettanto chiaramente ciascuno ricorda che queste condizioni generali, inoltre, devono anche avere alcune qualità specifiche e che, per queste loro qualità, esse non hanno alcun merito particolare, né richiedono la benevolenza nei loro confronti da parte del fruitore, ma esse entrano in modo costitutivo nello stesso organismo dell'opera d'arte e, previste dal creatore, realizzano una continuità di questa, benché al di fuori dei limiti di ciò che, per brevità e semplificazione, chiamiamo opera d'arte in senso stretto.
Un quadro, ad esempio, deve essere illuminato da una luce ben precisa, diffusa, bianca, di intensità sufficiente, omogenea, e non colorata, senza ombre e così via. Al di fuori di questa necessaria illuminazione, esso non vive come oggetto d'arte, cioè come fenomeno estetico. Illuminare un quadro di luce rossa, se è stato dipinto per l'illuminazione bianca - questo significa uccidere il fenomeno estetico in quanto tale, poiché, cornice, tela e colori non costituiscono affatto l'opera d'arte. In modo simile collocare un'opera architettonica in uno spazio nebbioso, o ascoltare un'opera musicale in una sala con una cattiva acustica, significa di nuovo alterare o annullare il fenomeno estetico. Ma c'è dell'altro: ci sono delle condizioni di percezione dell'opera d'arte di carattere, per così dire, negativo. Non si può, ad esempio, ascoltare una sinfonia o guardare un quadro in ambiente saturo di gas insopportabilmente puzzolenti, e queste condizioni negative, se non vengono mantenute entro un certo grado definito, entrano di forza nello stile dell'opera, distruggono l'unità di forma e contenuto ed annullano così l'opera in quanto tale. Sia positivamente che negativamente, l'opera d'arte è il centro di un intero fascio di condizioni, e solo in presenza di queste, essa può esistere come oggetto artistico, ma al di fuori delle sue condizioni costitutive essa, come oggetto artistico, semplicemente non esiste.
Per un quadro a cavalletto noi scegliamo la cornice e lo sfondo, per una statua sistemiamo il drappeggio, per un edificio organizziamo l'insieme di ombre colorate e di spazi aperti che lo circondano, per una musica accordiamo il carattere generale delle impressioni ad essa omogenee. Più sono complesse le condizioni di vita di una data opera, più è facile travisarne lo stile, più è facile fare una mossa falsa, che allontani impercettibilmente dal piano dell'autentica artisticità e porti all'assenza di stile.
Questa tesi generale si riferisce in particolare all'arte religiosa. L'estetica, in un passato non lontano, si considerava in diritto di guardare dall'alto in basso l'icona russa; oggi gli occhi degli esteti si sono aperti su questo aspetto dell'arte religiosa. Ma questo primo passo, è per ora purtroppo soltanto il primo, infatti non di rado ci si trova di fronte all'ignoranza e all'insensibilità estetica, per cui l'icona viene percepita come una cosa indipendente, che si trova, di solito, in un tempio, che, per caso, è posta in un tempio, ma che può essere trasportata con successo in un'aula, in un museo, in un salone o chissà dove. Io mi sono permesso di chiamare ignoranza questo allontanamento di uno degli aspetti dell'arte religiosa dall'organismo compatto del rito religioso come sintesi delle arti, come l'ambiente artistico nel quale, e solo nel quale, l'icona ha il proprio autentico senso artistico e può essere fruita nella propria autentica artisticità.
Anche l'analisi più semplice di un qualsiasi aspetto dell'arte religiosa mostra il legame di questo aspetto con gli altri, (con tutti gli altri, come sono personalmente convinto); per ora ci basta sottolineare solo alcuni aspetti dell'arte religiosa, presi quasi a caso, che si condizionano reciprocamente.
Prendiamo, ad esempio, la stessa icona. Naturalmente, non è per nulla indifferente il modo in cui è illuminata, e naturalmente, per l'essenza artistica dell'icona, la sua illuminazione dev'essere proprio la stessa per cui essa è stata dipinta. Questa illuminazione, in questo caso, non è affatto la luce diffusa dell'atelier di un pittore o della sala di un museo, ma è la luce instabile e disuguale, ondeggiante, in parte, forse, vacillante, di una lampada. Destinata al gioco di una fiamma tremolante, agitata da ogni soffio di vento, calcolando in anticipo gli effetti dei riflessi colorati dei fasci di luce, che passano attraverso un vetro colorato, a volte sfaccettato, l'icona può essere fruita, come tale, solo in questo trascorrere, in questo tremolio della luce, frantumata, irregolare, come pulsante, ricca di caldi raggi prismatici, - di una luce che viene percepita da tutti come cosa viva, che riscalda l'anima, che emana una calda flagranza.
Dipinta più o meno in quelle stesse condizioni, in una cella semibuia, con un'angusta finestra, con un'illuminazione in parte artificiale, l'icona rivive solo in condizioni corrispondenti, e, al contrario, muore e si altera in condizioni che potrebbero, genericamente e astrattamente parlando, mostrarsi più favorevoli per un'opera di pennello. Mi riferisco all'eguale, tranquilla, fredda, e forte illuminazione di un museo. E molte particolarità delle icone, che eccitano lo sguardo sazio dei contemporanei: la parziale esagerazione delle proporzioni, l'accentuazione delle linee, la profusione di oro e pietre preziose, il rivestimento e le corone, i pendagli, i veli di broccato, di velluto, e ricamati con perle e pietre preziose - tutto ciò, nelle condizioni proprie all'icona, non esprime affatto la vitalità di un piccante esotismo, ma è vitalmente presente come il necessario, assoluto e inevitabile, unico modo di esprimere il contenuto spirituale dell'icona, cioè come unità di stile e contenuto o, in altri termini, come autentica artisticità.
L’oro, barbaro, pesante, futile nella luce diffusa del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille ora qui, ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste. L'oro, attributo convenzionale del mondo celeste, qualcosa di artificioso e allegorico in un museo, è un simbolo vivo, è «rappresentazione» in un tempio con lampade che ardono e infiniti raggi che si accendono. È proprio in questo modo che il primitivismo dell'icona, la sua colorazione, a volte chiara, quasi insopportabilmente vivace, la sua eccessiva ricchezza, la sua ostentazione, tengono sottilmente conto degli effetti dell'illuminazione della chiesa.
Qui nel tempio, tutta questa esagerazione, attenuandosi, le dà una forza non raggiungibile con gli abituali procedimenti figurativi, e nel volto dei santi noi allora vediamo, con la chiesa così illuminata, i volti, cioè i lineamenti celesti, i fenomeni vivi dell'altro mondo, i prototipi, gli Uhrphänomena, come potremmo dire con Goethe. In un tempio noi siamo faccia a faccia con il mondo platonico delle idee, mentre in un museo vediamo non le icone, ma solo le loro caricature.
Ma ora andiamo avanti, e dall'arte del fuoco, che rientra necessariamente nella sintesi del rito religioso, passiamo all'arte del fumo, senza di cui, di nuovo non esiste questa sintesi. C'è forse bisogno di dimostrare che la sottilissima cortina azzurra dell'incenso, diffuso nell'aria, introduce, nella fruizione delle icone e degli affreschi, quell'effetto di maggiore dolcezza e profondità di prospettiva aerea che un museo non conosce e non si sogna neppure?
C'è forse bisogno di ricordare che, attraverso questa atmosfera, un'atmosfera materializzata, in continuo movimento, un'atmosfera visibile allo sguardo, che è dotata, inoltre, di una certa sottilissima granulosità, negli affreschi e nelle icone vengono introdotti dei risultati completamente nuovi nell'«arte aerea», che sono nuovi tuttavia solo per un'arte laica, astratta, estraniata, ma, non essendo nuovi per nulla nell'arte religiosa, sono calcolati in anticipo dai suoi creatori, e di conseguenza, senza di essi, le loro opere non possono che alterarsi?
Nessuno vorrà mettere in discussione il fatto che la luce elettrica uccide il colore e turba l'equilibrio delle masse colorate; e se affermo che non si può esaminare un'icona con la luce elettrica ricca di raggi azzurri e violetti, è difficile che qualcuno si metta a discutere con me. Tutti sanno che la luce elettrica annulla, come una ustione, anche la ricettività psichica.
Questo è perciò un esempio di condizione negativa dell'artisticità nell'arte religiosa. Ma se ci sono condizioni negative, tanto più ce ne sono anche di positive, che nella loro totalità definiscono non solo il rito religioso, come qualcosa di unitario, ma anche ogni suo aspetto, come organicamente subordinato a tutti gli altri. Lo stile esige un'organicità conosciuta all'interno di condizioni date, una sorta di isolamento della totalità dell'oggetto artistico, come un mondo a sé. Perciò l'introduzione in esso di elementi di carattere diverso porta all'alterazione sia del complesso che delle singole parti, aventi nel complesso il proprio centro e principio di equilibrio. In un tempio, in linea di principio, tutto partecipa di tutto: l'architettura del tempio, ad esempio, calcola evidentemente anche il minimo effetto dei fasci di incenso azzurrognolo che si snodano lungo gli affreschi e avvolgono le colonne della cupola, e che con il loro muoversi e intrecciarsi ampliano, quasi all'infinito, gli spazi architettonici del tempio, attenuano la secchezza e la rigidità delle linee e, quasi fondendole, producono un movimento vitale.
Ma noi finora abbiamo parlato solo di una piccola parte del rito religioso e, inoltre, relativamente, molto omogeneo. Possiamo ricordare i plastici e ritmici movimenti degli addetti al servizio divino, ad esempio durante la consacrazione, il gioco e le iridescenze delle pieghe dei tessuti preziosi, i profumi, il particolare agitarsi di fiammelle nell'atmosfera, ionizzata da migliaia di fuochi ardenti, e ricordiamo ancora che la sintesi del rito religioso non si limita solo alla sfera delle arti figurative, ma coinvolge anche nella sua cerchia l'arte vocale e la poesia: poesia in tutti i sensi, dal momento che esso si presenta sul piano dell'estetica come un dramma musicale. Qui tutto è sottomesso ad un unico scopo, al supremo effetto catartico di questo dramma musicale, e perciò tutto qui è reciprocamente subordinato, e non esiste, (o perlomeno esiste in modo falso), se preso isolatamente. Perciò, lasciando da parte la mistica e la metafisica del culto e rivolgendosi esclusivamente alla sfera autonoma dell'arte, in quanto tale, io tuttavia non finisco di stupirmi quando mi capita di sentire dei discorsi sulla salvaguardia di un monumento di grande valore artistico come il Monastero, che restringono l'attenzione solo a un certo aspetto, mostrando un'anticulturale e antiartistica indifferenza verso un altro.
Se un amatore di musica vocale cominciasse a dimostrarmi che, nelle melodie religiose, così strettamente legate all'antichità, si esprime un'arte grandiosa, e anche, con molta probabilità, una eccelsa arte vocale, paragonabile in campo strumentale solo a Bach; se in nome di questo valore culturale egli cominciasse ad esigere la salvaguardia del momento corale del Servizio Divino, riferendosi in particolare ai salmi cantati, tipici del luogo, conservati dalla tradizione del Monastero, io, allora, senza dubbio gli stringerei la mano. Ma mi sarebbe difficile in questo caso trattenermi dall'amaro rimprovero: «Forse a voi è indifferente che vengano distrutti gli archi delle elevate strutture architettoniche, scrostati gli affreschi e imbrattate e rubate le icone?» In modo simile, a un amatore di canto e insieme intenditore di arti figurative, io non potrei contrapporre la mia cura per la salvaguardia dei monumenti dell'antica poesia ecclesiastica, che ha conservato fino ad oggi le caratteristiche dell'antico modo cantato di lettura, dell'antica recitazione, e per la salvaguardia dei manoscritti dei secoli passati, pieni di significato storico, che realizzano alla perfezione la struttura del libro come una totalità.
Ma a tutti loro, agli intenditori d'arte tutti insieme, io non potrei non rammentare quelle arti dimenticate, o semidimenticate, dalla contemporaneità, arti accessorie alla sostanza del rito religioso e tuttavia molto importanti nell’organizzazione del medesimo come totalità artistica, e che ne fanno sostanzialmente parte: l'arte del fuoco, l'arte del profumo, l'arte del fumo, l'arte dell'abbigliamento e così via, eccezionalmente sino ai pani eucaristici, unici al mondo, della Trinità del Monastero, con il misterioso segreto della loro cottura, e fino alla particolare coreografia che appare nella ritmicità dei gesti religiosi durante le entrate e le uscite degli officianti, nell'incrociarsi ed elevarsi dei volti, nei giri attorno all'altare e al tempio e nelle processioni religiose. Chi ha gustato gli incanti dell'antichità, sa bene sino a che punto tutto questo sia antico e viva come retaggio e unico ramo diretto del mondo antico, in particolare della tragedia sacra dell'Ellade.
Persino certi particolari, come lo specifico sfiorare diverse superfici, oggetti sacri di materiale diverso, icone unte e impregnate di olio, di profumi e di incenso, e inoltre lo sfiorare con la parte più sensibile del nostro corpo, le labbra, entra a far parte di tutto il rito come un'arte a sé, come particolari sfere artistiche, ad esempio come arte del tatto, come arte dell'odorato e così via. Rimuovendole, noi ci priveremmo della pienezza e della perfezione di una totalità artistica. Non parlerò del momento dell'occulto, che è proprio di ogni opera d'arte in generale, e principalmente del rito religioso, questo ci porterebbe in un campo troppo complesso; qui non posso parlare del simbolismo necessariamente presente in ogni arte, in particolare nell'arte di culture organiche.
È sufficiente soltanto un'esteriore, superficiale si può dire, concezione dello stile, come unità di tutti mezzi espressivi, per parlare del Monastero come di un organico monumento universale artistico-storico, unico nel suo genere, che richiede infinita attenzione e infinita cautela. Il Monastero, esaminato dal punto di vista culturale e artistico, dev'essere, come insieme unitario, un «museo» totale, senza perdere neanche una goccia del prezioso bene culturale qui raccoltosi in uno stile, definitosi così, nella stessa molteplicità di stili di epoche diverse, nel corso dei periodi moscovita e pietroburghese della nostra storia.
Come monumento e centro di alta cultura, il Monastero è infinitamente necessario alla Russia, e proprio nella sua integrità, con la sua realtà, con la sua vita particolare, già da tempo è entrato a far parte di un remoto passato. Tutto il particolare regime di questa vita che si va perdendo, di questa isola dei secoli XIV-XVII, dev'essere protetto dallo stato, con scrupolo per lo meno non minore di quello usato nella foresta di Belovez[4] per preservare gli ultimi bisonti.
Se nei limiti dello stato si trovasse un'istituzione simile al Monastero, di maomettani o di lama, anche se estranea a noi per cultura e al di fuori della nostra storia, lo stato potrebbe forse esitare all'idea di sostenere e salvaguardare tale istituzione?
Quante volte più attento deve essere lo stato a questo embrione e centro della nostra storia, della nostra cultura, scientifica e artistica? Perciò io considero come un progetto privo di sentimento e di sensibilità estetica, quello di passare l'utenza del Monastero dalle mani dei monaci alle mani delle comunità parrocchiali. Chi ha esaminato a fondo l'incommensurabilità e la differenza qualitativa - dell'essere, della psicologia e, per finire, del modo di servire Dio fra i monaci, anche se cattivi, e fra le persone viventi al di fuori del monastero, anche se molto virtuose, non può non consentire con me che sarebbe una grande caduta di stile concedere il servizio del Monastero al clero secolare.
Anche da un punto di vista pittorico, nel senso delle macchie di colore nelle chiese o negli spazi del Monastero, la sostituzione delle nere figure, con il loro portamento tipico dei monaci, con certe altre di un altro stile, o del tutto prive di stile, distruggerebbe di colpo l'integrità della percezione artistica che dà il Monastero e lo renderebbe, da monumento di vita e di creazione, un morto deposito di oggetti più o meno casuali. Capirei l'esigenza fanatica di distruggere il Monastero, sinché non rimanga pietra su pietra, in nome della religione del socialismo; ma decisamente mi rifiuto di capire un tipo di Kulturträger che in forza del fatto che oggi, casualmente, prevalgono proprio gli specialisti di arte figurativa e non di altre arti, protegge gelosamente l'icona, gli affreschi e le pareti stesse, ed è indifferente ad altre realizzazioni, che non sono affatto meno preziose, dell'arte antica, ma che soprattutto non fa i conti con il massimo compito delle arti - la loro sintesi più alta così felicemente e originalmente realizzata nel rito religioso del Monastero della Trinità di San Sergio e con tale insaziabile avidità ricercata dal defunto Skrjabin[5].
Non alle arti, ma all'Arte, fino alla profondità del cuore stesso dell'Arte, come attività primigenia, aspira il nostro tempo. E a lui è noto non solo il testo, ma la completa incarnazione artistica del «Rito Anticipatorio».
Villaggio di Sergiev 1918-X-24
Note al testo
[1] Il Monastero della Trinità di S.Sergio fu fondato nel 1335 da S.Sergio e attorno ad esso venne a formarsi un villaggio. Nel 1422 venne costruita, sulla tomba di S.Sergio, la prima chiesa in pietra al posto di quella in legno, distrutta da un incendio. Questa fu la prima di una intera serie di edifici religiosi e ben presto il villaggio di S.Sergio (oggi Zagorsk) divenne il centro di una intensa attività religiosa, ma anche sociale e politica. Nel 1914 fu fondato il Seminario.
[2] Pavel Muratov (1881-1950). Scrittore, editore della rivista Sofija (1914), storico d'arte. Subito dopo la rivoluzione ebbe un ruolo molto attivo nelle diverse commissioni istituite per la salvaguardia dei monumenti antichi e delle opere d'arte. 11 suo libro più famoso: Obrazy Italii (Immagini d'Italia) venne pubblicato in due tempi, il I e Il libro a Mosca nel 1911-12 e la raccolta dei tre libri a Berlino nel 1924. Nel 1922 emigrò definitivamente.
[3] Ju.A. Olsuf'ev (1878-1939).
Critico e storico d'arte. Come membro della Commissione per la salvaguardia dei Monumenti e delle Antichità del Monastero della Trinità di S. Sergio, redasse il primo catalogo ragionato di tutte le icone del Monastero, iniziando la sua opera ancor prima dell'organizzazione del Museo Storico Artistico di Sergiev (aprile 1920). La sua descrizione,
che tiene conto di tutte le opere allora presenti, è di fondamentale importanza per individuare i pezzi in seguito dispersi.
Cfr. JU.A. Olsuf'ev, Opis' ikon Troice Sergievoj lavri do XVIII veka i naibolee tipicnyc XVIII i XIX vekov,Sergiev, 1920.
[4] La foresta di Belovez si trova fra la Lituania, la Bielorussia e la Russia Centrale, ed era nota perché in essa si concentravano gli ultimi esemplari del “Bisonte europeo” a cui si riferisce Florenskij.
[5] A.N.Skrjabin (1871-1915) fu il compositore più apprezzato dai Simbolisti russi e la sua musica è legata alle concezioni artistiche e filosofiche del Simbolismo. Influenzato dalla tradizione musicale romantica ed erede legittimo di Wagner, egli credeva nella necessità della sintesi delle arti. Skrjabin sostenne che esiste un legame diretto fra colori e suoni e compilò delle tavole per dimostrarlo. Il suo grandioso: Prometeo: Poema del Fuoco (1911) presupponeva l'uso di un organo speciale che proiettava certi colori sullo schermo in armonia con determinati suoni, effetti che non mancarono di affascinare i teosofi ed i simbolisti. Egli tuttavia concepì Prometeo e il Poema dell'Estasi come esperimenti preliminari per la sua opera definitiva: Il Mistero, che non riuscì a concludere. Il titolo evoca i misteri religiosi e le orge pagane su cui avevano scritto i simbolisti (V. Ivanov in primo luogo), e avrebbe anche dovuto essere l'annuncio di quel cataclisma universale che avrebbe permesso all'umanità di elevarsi spiritualmente.