Partì e s’incamminò verso suo Padre. Accompagnare l'abbandono della comunità. Misericordia e libertà nell'annuncio, di Antonio Torresin
Riprendiamo da Il Regno-Attualità 20/'97, pp. 597-601 un articolo scritto da Antonio Torresin. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (24/1/2011)
La pastorale della chiesa in Occidente conosce oggi una stagione di crisi. Almeno nel senso che il modello di comunità cristiana, di parrocchia - sostanzialmente invariato da quello elaborato dopo Trento - non è più possibile: è semplicemente venuto meno perché si reggeva su di un contesto che non c'è più - quello detto di cristianità. D'altra parte non si vede quale possa essere un nuovo modello di riferimento. Le ragioni di questa crisi sono spesso ricondotte a cause esterne, determinate dalla cultura-ambiente.
Ed è certo che la crisi è categoria che appartiene all'Occidente e alla sua cultura che attraversa una stagione di tramonto, di fine della modernità e con essa di un sistema di significati come riferimento per l'esistenza. In crisi è il modello di vita occidentale e non la fede in senso proprio. Nel senso che sarebbe ingenuo dire semplicemente: «oggi è più difficile di ieri credere». Oggi, piuttosto, sono mutate le condizioni nella quali si accede alla fede, ma la fede è sempre possibile, perché rimane una possibilità posta in atto da Dio tramite la sua rivelazione. Eppure il contesto entro il quale si ascolta l'invito alla fede non è indifferente, e non può essere ignorato. Ora appunto questo contesto appare segnato da una crisi.
D'altra parte, della crisi vengono date letture diverse, specie nell'ambito ecclesiale. In genere prevalgono desideri di contenimento, di aggiustamento della crisi: quasi che si possa ancora dare una sintesi, un insieme simbolico di rappresentazioni, di interpretazioni del mondo e della fede condivisibili, un progetto culturale da ritrovare e ricostruire come sostegno indispensabile per l'opera di evangelizzazione. Non che sia sbagliato, ma indicare il compito di un impegno culturale sembra più l'indicazione del problema che la sua possibile soluzione.
Infatti le comunità cristiane, o i singoli credenti non possono pensare di ricostruire un sistema culturale di riferimento a prescindere dal contesto che li precede e li contiene, contesto appunto mutato. L'esito di questo atteggiamento nei confronti del mondo e della modernità è in genere anzitutto di estraneità: la modernità o post-modernità è percepita come qualcosa di estraneo e di pericoloso, come se la modernità fosse di fronte ai credenti; salvo poi stupirsi ingenuamente nel trovare, dentro la comunità, una mentalità che è permeata dalla cultura nella quale si vive. Ma la comunità cristiana non vive fuori o di fronte alla modernità, vive dentro. E quindi vive la crisi che il mondo occidentale attraversa. Qualche voce esce dal coro, cercando di leggere in modo diverso sia la modernità che la crisi: non come situazioni estranee, ma come luoghi che il credente dovrebbe ben conoscere, davanti ai quali non sentirsi estraneo. Penso ad esempio a un testo di S. Fausti, L'elogio del nostro tempo[1], ma soprattutto penso a un autore non molto conosciuto in Italia, il filosofo e psicanalista Maurice Bellet. In un suo libro di recente pubblicazione - L'estasi della vita - propone non di arginare la crisi, ma di radicalizzarla, perché l'unica novità viene dall'attraversamento della crisi, non dalla sua rimozione:
«Allora si vede chiaramente come questo rinnovamento dello spirituale o del religioso possa prendere due direzioni opposte: regredire verso una funzione di identità, verso un sostegno al di qua della crisi attuale, che resta tuttavia incombente; al contrario, piuttosto, assumere questa crisi che sfocia nella Krisis, tentare il salto in avanti per oltrepassare l'abisso; tuttavia, questa è la prova più impegnativa per il religioso o lo spirituale codificato: viene dal di dentro e si spinge al cuore. Attraversiamo: non vi è altra luce al di fuori di questa via»[2].
Attraversare la crisi radicalizzandola, accettando le sfide che il contesto pone alla codificazione della fede che si è espressa in una certa forma di cristianesimo. Non perché non si senta un debito di gratitudine per il deposito ricevuto, ma perché non si può semplicemente ripeterlo. Questo vale anche per il modello di comunità: il modello di appartenenza, di parrocchia, è in crisi, e non si vede quale possa essere quello futuro[3]. Ma la crisi non va solo arginata con battaglie di retroguardia: a volte occorre osare e attraversare l'incognita di percorsi inediti.
Non abbiamo certo da proporre modelli nuovi, ma solo vorremmo fare un esercizio: vedere come sarebbe possibile radicalizzare la crisi e attraversarla a riguardo di un sintomo vistoso e sofferto della crisi stessa che le nostre comunità cristiane attraversano: l'abbandono.
In un'epoca di transizione da un cristianesimo di massa a un cristianesimo di minoranza assistiamo, inermi e a volte disorientati, all'assottigliarsi delle file un po' in tutti i settori: dai momenti pubblici e assembleari a quelli formativi degli itinerari di introduzione alla fede.
E questo non è senza conseguenze: sia sul prete[4], che su coloro che condividono la responsabilità pastorale[5]. Soprattutto ne escono deformati l'immagine e lo stile della cura pastorale. Qui come altrove non contano solo i proclami o le intenzioni, ma lo stile con cui si vivono gli avvenimenti: lo stile lascia trasparire una speranza o una rassegnazione, un rancore o una fiducia.
Ma come si reagisce di fronte all'abbandono? Qualcuno prova a inventare nuove strategie pastorali per arginarlo, ma francamente non sembra che si vedano novità capaci di invertirne la tendenza[6]. Forse nei prossimi anni potremo riconoscere un assestamento, o il sorgere di una stagione nuova, e per questo è giusto non rimanere inermi davanti all'abbandono, tentare strade nuove e rinnovare tradizioni antiche. Eppure a volte non si presta abbastanza attenzione alle ripercussioni di tanto darsi da fare, alle ripercussioni spirituali, alle reazioni affettive di fronte a questo dato oggettivo: diminuiscono i credenti praticanti. È come se si fingesse di non vedere il fenomeno, quasi fosse solo momentaneo, passeggero, o se si volesse solo imputarlo a errori e colpe che certo ci sono, ma che non bastano a spiegarlo. Allora qual è l'atteggiamento spirituale evangelico? Come un credente è chiamato a leggere il fatto dell'abbandono di tanti ragazzi, giovani e adulti?
Pastorale del trattenere e compromissione dell'immagine di Dio
Anzitutto occorre vincere una prima istintiva reazione: la lettura negativa del fenomeno. È solo un momento storico nefasto? E possiamo solo con nostalgia e tristezza stare a guardare o agitarci nell'affanno come per arginare la fuoriuscita di un fiume in piena?
Non è solo in gioco l'efficienza della pastorale: in gioco è anzitutto la trasparenza di una testimonianza che passa dallo stile con cui la stagione della prova viene assunta o meno dai credenti. In gioco alla fine è l'immagine di Dio che sostiene o meno lo stile di una pastorale.
Penso in particolare a una specie di sindrome dell'abbandono, a una paura venata di angoscia. Negli oratori, nelle comunità parrocchiali di ragazzi e di giovani, spesso la sindrome dell'abbandono produce, mi pare, una serie di strategie difensive almeno pericolose se non radicalmente ambigue.
Si fa di tutto per trattenere e intrattenere i ragazzi nei nostri ambienti, convinti che così «almeno per intanto ci sono, e possiamo con loro creare delle occasioni di annuncio». Così nasce l'ipertrofia di una pastorale concentrata sul trattenimento e sull"intrattenimento. Penso al dispendio di energie profuse alla iniziazione dei fanciulli[7], che continua a essere l'unico momento istituzionale significativo di iniziazione, e alla tradizione di animazione che da sempre, anche con grande ricchezza, le nostre comunità hanno saputo esprimere[8].
C'è una serietà in questa preoccupazione che non va certo elusa. L'annuncio chiede la condivisione, la frequentazione. Senza occasioni nelle quali instaurare reali rapporti, non si creano le condizioni per un annuncio del Vangelo. Dietro questa preoccupazione non ci si è accorti però di un capovolgimento: la condivisione deve avere come luogo vitale non la comunità ma il mondo. Succede invece che si cerchi artificiosamente di riprodurre luoghi di vita dentro gli spazi protetti della comunità, al posto di uscire in cerca dei luoghi che già ci sono e nei quali vivere a fianco agli uomini e donne del mondo. In più, cosa accade dentro gli ambienti nei quali si cerca di trattenere mediante una pastorale di trattenimento/ intrattenimento! Anzitutto che le condizioni per il sorgere di relazioni vere sembrano non crearsi mai, e alla fine la relazione stessa subisce distorsioni pericolose. Finisce infatti per crearsi una specie di ricatto affettivo o moralistico, che denuncia la mancanza di una gratuità di fondo della relazione. In realtà non ci si è avvicinati all'altro per il suo bisogno o per una gratuita testimonianza della gioia del Vangelo, ma per il segreto desiderio di portarlo dalla nostra parte, e ogni volta che questo non avviene si lascia intendere la delusione o la colpevolezza che l'abbandono suscita. In alcuni casi i ragazzi sembrano rimanere, ma forse più costretti da un moralismo che li colpevolezza, o da un legame affettivo che li trattiene in stato di dipendenza.
L'esito inevitabile è che l'abbandono sia il più delle volte solo rimandato e reso più drammatico. Aumentano le persone che - una volta distaccate - conservano un'immagine triste e oppressiva della loro relazione con la comunità e di riflesso una distorta immagine della stessa relazione con Dio. «Mi costringevano a questo e a quello, alla preghiera e alla messa, e questo con la scusa del gioco, dell'amicizia, della scuola...».
Il rischio è che il Vangelo sia stato camuffato e svenduto con altro, e alla fine ogni cosa sia stata sciupata. A ciò si aggiunge la ricaduta sul prete e sull'educatore che ha spesso la forma del risentimento e della delusione sfiduciata. Chi se ne va riflette sull'educatore una immagine di fallimento e suscita in lui sfiducia e delusione: «mi hai deluso e sei scaduto ai miei occhi, perché mi aspettavo altro da te». Oppure - ma non è diverso il pensiero di fondo - una angosciata assunzione di colpa: «non sono capace, dove ho sbagliato?». Soprattutto quando è ancora vivo il ricordo di generazioni che ci hanno preceduto che vantavano numeri e quantità che sembrano oggi impossibili. La tradizione rischia di non essere più un patrimonio di speranza e di fiducia, ma il peso di un ideale impossibile e frustrante a cui tentare di adeguarsi. Credo occorra uscire dell'impasse con un di più di libertà e di fiducia evangelica.
Accompagnare l'abbandono?
L'immagine non è azzardata. È immagine evangelica e di alto profilo: è il Padre che lascia andare suo figlio (Lc 15,11-32) perché scommette sulla sua libertà.
E non è certo un'immagine che voglia giustificare l'indolenza e la passività nella pastorale. Forse chiede maggior cura e soprattutto è attenta all'intenzione profonda che sta dietro alla crisi della relazione pastorale. A un certo punto sorge la richiesta, implicita o esplicita, di provare altro, di fare esperienze alternative. Perché? Da dove nasce questa esigenza? Forse dal fatto che il padre aveva fatto mancare qualcosa al figlio? La parabola non lo dice, perché non indugia sui sensi di colpa del padre: riconosce un dato di fatto. Accade che, prima o poi, un giovane senta forte dentro di sé l'esigenza di avventurarsi nel mondo. Sbagliato? O forse proprio questo era il senso dell'educazione: quello di consegnare una fiducia che porta a uscire incontro al mondo, magari in una regione dove noi non possiamo stare vicino, proteggere e guidare. E anche quando questo desiderio di andare avesse la forma della rottura, e magari anche della ingenua seduzione che si subisce di un mondo e di una libertà che rifiutano ogni misura, che fare? Anche di fronte a una scelta che prelude a rischi effettivi - come nell'immagine evangelica - che fare?
Davanti a questa richiesta noi possiamo rispondere comunicando fiducia o paura. Il più delle volte, io credo, comunichiamo paura. In ogni modo la questione dell'abbandono mette al centro il tema della libertà e della coscienza. Già in questo troviamo uno snodo decisivo sia della modernità sia della tradizione cristiana. La fede è questione che interpella la libertà, la grazia suscita la libertà e interpella la coscienza. Non c'è fede senza passare attraverso la libera assunzione di una coscienza, ma questo vuoi dire anche senza la storia imprevedibile di una libertà che si determina scegliendo: storia della libertà fatta non di semplici consuetudini ripetute, ma di resistenze, di crisi, di necessarie riprese. Ma che modello dunque di pastorale e di educazione alla fede nasce da una pagina come questa e da un gesto di paternità come quello di lasciare partire?
Seminare bene
Per lasciare andare occorre aver prima ben seminato. Occorre cioè che nel tempo che ci è dato - e per questo non bisognerà smettere di creare le occasioni perché si diano relazioni vere - noi si abbia consegnato, seminato nel cuore, l'immagine buona di Dio, della sua cura e del suo amore, e che nel momento della crisi e della fatica non si voglia altro che restare fedeli a questa immagine di Dio: di un Dio che non costringe i suoi figli, che li ama con tutto il cuore, che li ama non in ragione della loro gratitudine, che soffre per loro, ma anche che continua a credere, senza pentimenti, alla loro libertà. Le occasioni pastorali sono preziose, ma restano occasioni. Rimangono cioè momenti parziali di un cammino la cui unità sfugge a chi la vive, sia a chi annuncia che a chi accoglie. Anche questo dice un cambiamento dell'immagine pastorale: a una comunità segnata dalla continuità, che accompagnava dalla culla alla tomba, che in qualche modo aveva sotto controllo ogni tempo e ogni spazio, subentra una comunità che deve imparare a vivere una sua strutturale e insuperabile frammentarietà. La complessità e la mobilità hanno infranto un sistema educativo e di accompagnamento. Ora è più difficile disegnare percorsi formativi e più difficile reperire l'unitarietà di un cammino dei singoli e delle comunità. Ma è solo un elemento negativo? Forse ritroviamo qui alcuni tratti fortemente evangelici dell'annuncio: chi semina non è necessariamente colui che raccoglie; insieme ci è chiesto di raccogliere là dove noi non abbiamo seminato. E ancora: la figura compiuta e lineare del cammino sfugge a chi accompagna ma a volte anche a chi lo vive.
Eppure questa frammentarietà soggettiva può essere il riflesso di un cammino che, mentre è guidato e portato a compimento ultimamente da Dio, vive i frammenti della propria storia arricchiti da ogni occasione e sottratti a ogni possesso. In questo senso la frammentarietà di tanti cammini non dovrebbe trovare il credente e la comunità sprovvisti di una lettura intelligente: appartengono al patrimonio genetico di un credente pagine luminose sul senso del seminare bene e sulla fiducia di una semina a fronte di un'apparente sua inutilità (Mc 4).
In gioco, insomma, c'è alla fine l'immagine di Dio che si riflette nei nostri atteggiamenti educativi. L'educazione dei credenti in fondo non può essere quella protettiva che li preserva dalle crisi, ma deve essere quella di chi semina e impara a credere nella verità e nella forza del Vangelo seminato.
Dare tutta la «loro parte»
Occorrerà dunque imparare a lavorare in perdita. Mai l'educatore o la comunità deve rivendicare la propria parte, il lavoro fatto, le ore spese, l'affetto sentito. L'eco di queste richieste impertinenti si sente, a volte, anche nelle rivendicazioni di paternità che la comunità ecclesiale rivolge su temi culturali, su depositi consegnati anche alla vita civile. Che senso ha rivendicare ciò che si è gratuitamente seminato?
Ciò che si è dato è patrimonio ormai consegnato. Anzi, lo si deve consegnare senza temere che venga disperso o vada perduto, senza pentimenti e ricatti. Il credente e la comunità sa che ciò che consegna non è una sua proprietà: in qualche modo spetta di diritto agli uomini, e questo basta. Anche in ciò noi saremo segno di una gratuità. E lo saremo nella misura in cui non avremo paura di restare poveri e di lasciare che altri godano di quanto noi abbiamo seminato. Noi stessi abbiamo raccolto quanto altri hanno seminato, e se abbiamo donato non l'abbiamo fatto per noi stessi, ma per un amore obbediente.
In questo senso l'abbandono diventa spesso luogo della purificazione dell'intenzione, del cuore con cui una comunità si prende cura dei suoi figli: non lo fa per sé, non lo fa per autorigenerarsi, ma solo per la gioia di aver ricevuto il Vangelo che annuncia. Il carattere autoreferenziale delle comunità rivolte troppo spesso alla propria autorigenerazione rende i loro gesti di cura pastorale opachi e poco credibili. Troppo spesso le comunità vivono eccessivamente preoccupate di garantire la propria continuità e la rilevanza sociale della propria immagine, fino a fare di questa preoccupazione un affanno che oscura la trasparenza del loro annuncio[9].
L'attendere come accompagnamento
Questa libertà e questa trasparenza della gratuità mettono nelle condizioni di attendere e di sperare. La comunità cristiana, l'educatore, così, lascia andare ma non abbandona. Continua a seguire con affetto e fiducia le vicende dei singoli, la storia di ciascuno, certo che il seme buono è più forte del male. Attendere qui non è sinonimo di passività rassegnata, ma chiede di avventurarsi con speranza per cammini inediti e su strade a noi sconosciute. A volte vuoi dire stare vicino a chi percorre sentieri che noi non conosciamo, stare in silenzio quando le parole sono fuori posto. Ma mai significa dimenticare o rimuovere.
Per questo in realtà si sa attendere solo se animati da grande speranza: nell'attesa si testimonia la fiducia nello Spirito che abita nei cuori, e che è sorgente della coscienza. In realtà noi sappiamo che l'immagine di Dio, da lui stesso seminata, accompagna perché abita la memoria ed è sorgente della coscienza e della riconoscenza. Dunque non esiste luogo dove Dio non accompagni; in qualche modo anche la comunità deve saper accompagnare, seguendo la cura del suo Dio che è Padre, anche nell'esodo, anche in terra straniera. Israele nasce in realtà proprio in terra straniera (così Abramo, così Mosè) e così la storia di ogni credente deve conoscere l'estraneità di una terra sconosciuta da cui riascoltare le parole amorevoli della cura di Dio.
Noi stessi, se ben ci pensiamo, non possiamo aver fatto un cammino diverso: Dio non ci ha forse tratti dall'ombra di morte? Se così abbiamo conosciuto Dio allora sapremo sperare e impareremo ad accompagnare nella forma della memoria viva di chi non dimentica, di chi sa stare anche lontano ma vigila, di chi prega e affida al Padre ciò che solo dalle sue mani non può essere strappato.
Anche la preghiera qui trova un senso non retorico: attendere significa affidare e pregare. E la preghiera diventa il luogo dove io stesso tengo viva la mia fede che è provata dalla lontananza e dall'impotenza di cui la relazione soffre. Eppure la relazione non muore, anzi trova nuova fede e nuova speranza.
Penso spesso alla figura di Monica e a come ha accompagnato Agostino nel tempo del suo pellegrinare lontano da Cristo. C'è spazio qui anche per un intenso affetto, per una preghiera che conosce perfino le lacrime, ma che è anche forma del rispetto: «Mia madre non sapeva del mio pericolo, ma continuava a pregare da lontano per me»[10].
Noi pensiamo sempre che la conversione, l'incontro con il Vangelo passino attraverso le nostre strategie pastorali. Ho l'impressione sempre più viva che il venire alla fede sia storia più complessa e affascinante. Essa passa nel cuore della vita e nelle sue imprevedibili circostanze. Non che l'annuncio del Vangelo, la consegna della Parola non serva, anzi. La sola vita non basterebbe a se stessa, e spesso non è neppure in grado di formulare le domande; la storia lasciata a se stessa è solo un grido, come quello del popolo in Egitto, grido che non è ancora coscienza.
Le circostanze
È come se, seminando la Parola, noi fornissimo il vocabolario indispensabile per leggere la vita, gli accadimenti. Ma poi occorre che ciascuno impari ad affrontare le circostanze imprevedibili del proprio vissuto. E non per riconoscervi artificiosamente ciò che noi avevamo pensato, ma per scoprire il mistero e le contraddizioni impensate che abitano una vita.
In quel momento, e forse solo allora, comprenderà la ricchezza di quelle parole che gli erano state consegnate. L'educazione alla fede, gli itinerari nella comunità cristiana sono come la casa che addomestica il mondo, consegnandone un'immagine familiare e quindi comprensibile. La casa non è il mondo, ma solo una sua immagine. Poi occorre che ciascuno esca dalla casa e percorra le strade del mondo. Lì sicuramente troverà altro e di più di quanto aveva conosciuto nella casa d'origine, e forse solo ora può finalmente comprendere le parole ricevute - la Parola - in pegno in tutta la loro verità e drammaticità. Passaggio non evitabile quindi, necessario per una identità adulta, per una fede adulta.
L'alternativa è una fede che non cresce, che resta sempre bisognosa di rassicurazioni e di appoggi. Come appunto pare la fede di molti, giovani e adulti. L'impressione che tanti nostri ambienti siano forse, sì, ancora abitati, ma da persone che sono lì solo perché non sanno dove altro andare. La loro vita sembra non chiedere nulla, non pare essere attraversata da domande vive, quelle che magari lacerano gli uomini nostri fratelli. Per questo non si creano mai le condizioni per una testimonianza: perché chi non è mai uscito dalla casa, teme l'incontro senza protezioni con le domande vive e inquiete che abitano nel cuore degli uomini. Diverso è per chi invece ha conosciuto le contraddizioni e le ferite della vita. Questi conosce la sete e il desiderio di una parola di salvezza, mista e sempre legata alla consapevolezza della propria distanza. Solo chi conosce la polvere delle strade assapora il gusto della sosta nella casa.
Accogliere e custodire le ferite
Forse solo questa libertà e gratuità dell'annuncio permetterà all'educatore e alle comunità di sperimentare la gioia di riaccogliere chi torna.
Perché così pochi «tornano»? Forse perché non li abbiamo mai lasciati andare! E quando questo è avvenuto, è accaduto come strappo irreparabile. È come se noi avessimo detto: «se te ne vai mi deludi, è tutto finito, e non tornare poi indietro a dirmi...». È come se avessimo deciso di essere noi l'unica possibilità per gli altri. L'educatore che pensa implicitamente così soffre di un delirio di onnipotenza che alla fine lo schiaccia: se pensa che la salvezza dipenda dal restare sotto la sua cura non potrà che vivere l'abbandono come sconfitta totale. Se invece si accompagna con serena fiducia anche l'abbandono, come parte vera di un cammino di libertà, saremo più disposti ad accompagnare anche il ritorno. Oggi torna a essere più vero il fatto che le nostre comunità sono chiamate a raccogliere i figli dispersi: ed è fonte di gioia immensa. Cresce così la consapevolezza che il cristianesimo è per gli uomini adulti, provati dalla vita; è per i peccatori, per i poveri, per chi ha molto amato e molto sofferto; per chi ha il cuore ferito dalla vita e per questo può capire cosa significhi misericordia e grazia. Questo e solo questo forma credenti che non siano rigidi e moralisti.
In realtà ciascuno dovrebbe saperlo per sé. Noi stessi abbiamo dovuto sperimentare la lontananza per scoprire la gioia di tornare al Padre. Esiste quindi una necessità della crisi e del distacco. Necessario nel senso di inevitabile e cioè in riferimento alla condizione dell'uomo peccatore, dell'uomo che solo se prende coscienza della sua condizione di peccato e della necessità di essere riconciliato dalle sue lontananze, può gustare e comprendere la grazia della relazione che Dio di nuovo gli offre e la grazia di una casa a cui ritornare.
Il distacco certo non deve necessariamente prodursi in forme drammatiche e di rottura trasgressiva nei confronti della propria pratica ecclesiale. La scoperta della grazia per la propria condizione di peccato a volte coinciderà anche con un allontanamento fisico, altre sarà invece vissuto dentro a un'apparente continuità del cammino di appartenenza a una comunità: il momento della crisi non può comunque mancare. Il rapporto tra la propria appartenenza alla comunità e il mondo come luogo della crisi non diventa infatti per questo automatico: le forme con cui si vive la grazia di una comunità e la radicalità della nostra appartenenza al mondo saranno di volta in volta differenti. Ci saranno allora casi in cui è un bene costringere a uscire da una comunità che è diventata o è vissuta come «tana protettiva». Altre nelle quali proprio la scoperta del peccato e dello scandalo che abita nella stessa chiesa, diventa il percorso di una crisi che purifica le ragioni del proprio cammino di fede.
Un volto nuovo per le nostre comunità
In un caso l'abbandono, come allontanamento dalla comunità, va quasi provocato, nell'altro invece potrebbe essere una fuga dallo scandalo che invece va interpretato a partire dalla fede. In ogni caso se non è necessario chiedere l'abbandono, sicuramente mai va temuto e ostacolato.
Altrimenti l'esito sarà la tristezza di giovani e adulti che vivono nelle nostre comunità con il rimpianto di non esservi mai usciti. E questi - la parabola lo insegna - saranno coloro che più impediranno la gioia di accogliere chi torna da un viaggio anche lontano e sofferto. Una certa forma di cristianesimo intransigente ha i tratti del figlio maggiore della vicenda, che vive con disagio la parabola di fede di chi si è allontanato solo perché intende difendere una sorta di proprio privilegio, di propria purezza, di opere che porta a suo vanto. Ma alla fine proprio questi sono i più lontani dal cuore del Padre. Certo il Padre mostra la sua misericordia uscendo incontro anche a questi che mai sono usciti: quasi a esprimere visivamente che la lontananza è un passaggio inevitabile, ed è un dramma che si compie dentro il cuore degli uomini. I lontani più difficili sono forse quelli che sono troppo vicini per poter leggere la storia degli uomini con il respiro ampio del Padre. Non sembra un caso che il Vangelo fornisca istruzioni insistenti per loro, per i credenti-lontani. Perché sono quelli più difficili da stanare, perché le resistenze qui si mascherano di religiosità, di moralismi.
In ogni caso il tratto inequivocabile di questa resistenza che allontana dal Padre e anche dai fratelli è la tristezza e l'incapacità di gioire della ritrovata familiarità con Dio di altri fratelli. Le annotazioni descritte non sono certo nulla di nuovo. Vogliono solo indicare una strada. Se il volto della nostre comunità è in crisi e cerca parole nuove e nuovi linguaggi, occorre proprio partire da un diverso atteggiamento nei confronti dei momenti di crisi. La crisi infatti per sua natura è destabilizzante, ma anche capace di lasciar apparire orizzonti nuovi. Entrare nella crisi permette di riascoltare parole evangeliche come quella che abbiamo letto, che da sempre appartengono al patrimonio della fede, ma che ora possono di nuovo apparire portatrici di una novità e di una sconvolgente bellezza. Non abbiamo certo la pretesa di indicare come sarà il volto nuovo della comunità cristiana nel tempo che verrà, ma solo l'umile speranza di non vivere semplicemente rassegnati i segni di un tramonto, ma di attraversare con fede l'oscurità di un trapasso in cerca di bagliori. Accompagnare la decadenza non chiede minor fede e minor speranza che vivere l'entusiasmo degli inizi. La Scrittura invita a «svegliare l'aurora», e la fede di una comunità che ancora abita l'oscurità, veglia, perché nel tramonto attende un aurora che non può da se stessa far sorgere, ma che può invocare nella speranza. Vegliamo sugli atteggiamenti e sugli stili con cui accompagniamo il tramonto di un'epoca che tanto ci ha dato. Ma senza rimpianti, certi che colui che fa sorgere il sole sui giusti e sui cattivi, non tradirà le nostre speranze.
Note al testo
[1] S. Fausti, L'elogio del nostro tempo, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1996.
[2] M. Bellet, L'estasi della vita, EDB, Bologna 1996. Vale la pena anche di citare un testo tradotto in Italia negli anni '70, a riguardo proprio del tema che vorremmo affrontare, quello di coloro che perdono la fede: M. Bellet, «La crisi della fede», Vita e pensiero, Milano.
[3] Cf. «Un volto di chiesa per la città secolare», Regno-alt. 2,1996,42ss.
[4] Per una riflessione di tipo esperienziale sulla ricaduta di questo tema sul ministero vedi F. Brovelli, Quando eri più giovane, Àncora, Milano 1995, in particolare pp. 53-58; oppure F. Brovelli - A. Torresin, «Entrare nel ministero», in Regno-alt. 10,1996,306ss.
[5] La figura del laico, a differenza di quella del prete, viene dalla crisi messa in primo piano e caricata di esorbitanti attese, ma l'emergere di una maggiore attenzione alle figure laicali non significa ancora la soluzione della crisi e il sorgere di un chiaro modello pastorale alternativo. Cf. lo Studio del mese: «Laici pastori esperienze e domande», Regno-att. 16,1996,497ss.
[6] Anche i movimenti, che pure sono stati una prima risposta alla mutazione pastorale, nella maggior parte dei casi non sembrano proporsi come una soluzione sufficiente. E ciò per diverse ragioni. Non ultima il fatto che il più delle volte essi sorgono come alternativi e in opposizione alla modernità; la loro critica - di per sé spesso giustificata - ha toni che richiamano la nostalgia per un tempo, una teologia, una cultura, una filosofia passate. Di fatto anche i movimenti conoscono spesso, dopo stagioni di fioritura e di «stato nascente», un momento di istituzionalizzazione che di nuovo ripropone la crisi. È già possibile scorgere una crisi anche della stagione movimentistica?
[7] In questi anni si è di fatto appesantito nei contenuti e nei tempi il percorso dell'iniziazione. L'immagine che sta dietro questa strategia pastorale è: finché ci sono dobbiamo approfittarne, dire loro più cose possibili. E questo ora si riproduce per altre occasioni sacramentali: più che farle rimanere delle occasioni si cerca di strutturarle come percorsi sempre più sistematici. L'esito in realtà, quello di un ingolfamento e di una saturazione che provocano poi altre ragioni di abbandono.
[8] L'animazione di per sé nasce con intendimenti differenti: o con una intenzionalità preventiva (l'oratorio di don Bosco) o come espressione di una vita comune. Questi due tratti vengono però progressivamente a scomparire. Rimane invece l'idea che l'animazione possa essere l'occasione per avvicinare coloro che altrimenti non sapremmo raggiungere. Ma appunto questo è il problema: perché non sappiamo entrare in sintonia con il mondo quando questo sia fuori dai nostri ambienti?
[9] Assistiamo a un «ispessimento della mediazione ecclesiastica della fede e della vita cristiana che rende assai complicato, anche per la maggior parte degli stessi credenti, il discernimento delle qualità essenziali alla fede suscitate dall'evangelo rispetto a quelle che sono relative alla edificazione, alla cura, alla organizzazione della chiesa come sistema dottrinale e pratico della tradizione». Il tutto ha prodotto una inclinazione «autoreferenziale che l'inerzia catechistica del regime di cristianità proietta anche sugli atti di evangelizzazione. Atti che l'abitudine mentale dei credenti e dei non credenti, intende come immediatamente funzionali all'obbiettivo dell'aggregazione ecclesiastica». Le citazioni sono tratte da una riflessione illuminante di evangelica provocazione di P.A. Sequeri, «Ripartire da Nazareth?», Rivista del clero 9(1996), 557. Tutto il testo è ricco di spunti sia in merito all'evangelizzazione che al necessario ripensamento e all'urgente semplificazione di una pastorale ordinaria che inclina alla burocratizzazione e all'ispessimento. Sulla stessa linea cf. anche G. Angelini, «Parrocchia e carità», Rivista del clero 2(1997), 85-102: in particolare sul rischio dell'autoreferenzialità e sulla sua deriva movimentistica cf. pp. 94-98.
[10] Agostino, Confessioni 5,9.