Educare è vocazione e profezia, di Filippo Morlacchi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 28 /12 /2010 - 21:00 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo scritto da Filippo Morlacchi per la rivista Presbyteri. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (28/12/2010)

1. La Chiesa può vantare una tradizione educativa davvero luminosa ed esemplare. La liturgia prevede addirittura formulari speciali per i “santi educatori”, quasi a ricordare che il campo dell’educazione è uno spazio caratteristico per la maturazione della santità. Tra i santi educatori, molti sono stati i sacerdoti; ma – mi chiedo – è mai possibile immaginare un sacerdote che non sia anche un educatore?

Se – come oggi sembra diffusamente condiviso – educare significa “sviluppare relazioni generative”, ritengo che ogni sacerdote sia chiamato (in senso forte, vocazionale) ad essere educatore. Infatti «l’educazione è il complesso degli atti mediante i quali i genitori rendono ragione al figlio della promessa che essi gli hanno fatto mettendolo al mondo» (G. Angelini, Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano 1991, p. 188); ebbene, il sacerdote, che mediante il battesimo genera alla vita nuova, non sarà forse tenuto a rendere ragione della promessa di vita eterna e della “grande speranza” che egli stesso consegna ai battezzati insieme alla grazia sacramentale?

La paternità spirituale comporta necessariamente una forma di impegno educativo, anzi è in se stessa atto educativo in quanto “relazione generativa”. Il sacerdote non educa solamente quando si dedica al concreto lavoro catechetico, necessario per introdurre alla fede i bambini o i ragazzi, o quando organizza un campo estivo insieme agli animatori: tutto il suo servizio sacerdotale è, in fondo, un gesto educante perché è dedizione generativa, «finché sia formato Cristo» (Gal 4,19) nel cuore dei fratelli. Ne aveva chiara coscienza già san Paolo, quando affermava: «potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù» (1Cor 4,15). La crisi “pedagogica” è, in fondo, crisi di paternità e di relazioni generative.

2. Da dove cominciare, allora, per educare nell’attuale situazione di sconcerto e di crisi della paternità? Il primo passo da fare per essere educatori efficaci, cioè persone capaci di generare e alimentare la vita, potrebbe essere quello di coltivare un sano rapporto con la vita nel suo insieme. Come un tempo lo era per le Vestali, è compito oggi del sacerdote «custodire il fuoco, affinché le persone non si spengano, affinché ciò che le mantiene vive non vada perduto» (A. Grün, Il sacramento dell’ordine. Vivere da sacerdote, Queriniana, Brescia 2002, p. 16).

Ma come potranno farlo, se non tenendo accesa innanzi tutto la fiamma che arde in loro? Coltivare amorosamente l’interiorità è il primo, imprescindibile dovere di ogni educatore cristiano e di ogni sacerdote. «Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò … di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me. […] L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini» (E. Hillesum, Diario 1941-1943, Milano, Adelphi 1985, p. 170). Le parole tragiche e luminose di una giovane ebrea, vittima della furia nazista ma innamorata della vita anche nella situazione estrema del lager, aiutano a restituire fiducia anche al nostro presente, apparentemente così grigio, e ci spronano ad alimentare con diligente amore e senza alibi pretestuosi la nostra fiamma interiore.

In fondo la domanda di educazione è domanda di vita: «Maestro buono, cosa devo fare per avere la vita eterna?» (Mc 10,17). Chi non è appassionato della vita, anche della sua vita concreta, non sarà mai un buon educatore. Ma tutti possiamo diventarlo, trovando, con la saggezza dell’Ecclesiaste, il tempo «per ogni faccenda sotto il cielo» (Qo 3,1), dunque anche il tempo per gustare il senso e la bellezza di quanto riempie le nostre giornate. Non per curvarci egocentricamente sulla nostra persona, ma per trovare in noi stessi quella pienezza di umanità che la gente apprezza. Un tempo per ordinare i nostri affetti e per coltivare lo spirito (anche quello con la “s” minuscola). Un tempo in cui predisporci all’incontro con gli altri: se vogliamo donarci al prossimo, come giustamente affermiamo, il dono va preparato con cura, con lo stesso amore diligente con cui si incarta un pacchetto regalo per una persona importante e amata.

In altre parole, la prima educazione non può essere altro che auto-educazione, ovvero cura consapevole della formazione di sé. A partire forse dalle cose più semplici e quotidiane, cioè quella che un tempo si chiamava “la buona educazione”. La fatica del ministero e gli incalzanti impegni pastorali, per quanto stressanti e coinvolgenti, non potranno mai esimere il sacerdote dall’esercizio delle buone maniere. Anche per noi preti valgono le regole universali di urbanità: essere cortesi e garbati, rispondere sempre a coloro che ci cercano per telefono o per lettera, rispettare gli orari degli appuntamenti, cedere volentieri il passo a chi è più anziano, usare un tono di voce accogliente e affabile, prepararsi con umile scrupolosità prima parlare in pubblico…

Queste e mille altre piccole accortezze potrebbero apparire come il banale rispetto delle norme di galateo, ma svolgono un silenzioso compito educativo nei confronti di chi entra in contatto con noi. Lo stile vale almeno quanto il contenuto, e un maestro maleducato o volgare non è mai credibile. Certo, ci vuole equilibrio: non è necessario né utile presentarsi come gentlemen affettati o, peggio, leziosamente civettuoli. Ma la sciatteria e la grossolanità non sono mai un buon biglietto da visita, e non aiutano nessuno ad essere migliore. La compostezza e la buona grazia rimangono virtù essenziali di ogni educatore, e anche del presbitero.

3. Se il primo passo è dunque l’autoformazione e il lavoro su di sé, il secondo mi sembra sia la presenza. Le nuove generazioni infatti si lamentano non tanto dell’inadeguatezza delle figure di riferimento, quanto della loro latitanza. “Non possiamo affermare che voi adulti non siate capaci di educare – sembrano dirci i ragazzi di oggi –. Semplicemente, non ci siete, vi sottraete al confronto. Forse perché non avete in voi stessi quella passione per la vita che dovreste trasmettere, forse perché impegnati in tante altre incombenze, forse per paura delle nostre domande, che mettono a nudo le vostre… il risultato non cambia. Quando avremmo bisogno di voi, di fatto non ci siete. Anche voi preti: parlate, parlate, ma alla fine quando sarebbe importante avervi accanto, non ci siete mai”. Forse proprio oggi, nell’epoca dei mondi virtuali e delle videoconferenze, è più che mai importante che un presbitero educatore non sparisca sul più bello, e ci sia fino in fondo.

Un educatore efficace è un educatore affidabile, che introduce alle bellezze del mondo e al mistero di Dio perché esprime solidità e sicurezza, perché con la sua persona e la sua robusta presenza trasmette sicurezza e calore, fiducia e speranza. Si sa: è sempre più importante ciò che si è di ciò che si dice. Se questo è vero per ogni forma di comunicazione, nel campo educativo lo è in massimo grado. Il dialogo formativo non si può costruire a distanza, ma solo nell’incontro, nella prossimità, nella paziente disponibilità a stare accanto alla persona in cerca di guida.

«Fiducia, fiducia nel mondo, perché esiste quella persona – questo è l’elemento più intimo del rapporto educativo. […] Dato che esiste quella persona, nelle tenebre si nasconde certamente la luce, nel terrore la salvezza e nell’indifferenza di coloro che vivono insieme il vero amore. Perché c’è quella persona. E però quella persona deve esserci davvero. […] Non ha bisogno di possedere nessuna delle caratteristiche di perfezione che vorrebbe avere; ma ci deve essere davvero» (B. Buber, Discorsi sull’educazione [1925], Armando, Milano 2009, p. 60).

Ecco il punto: esserci davvero. Spesso i bambini, i ragazzi, i giovani ci chiedono soltanto di “esserci”: di non nasconderci dietro le pur legittime esigenze della vita comunitaria o personale, di non opporre la scusa degli infiniti impegni pastorali e di altra natura, di non eludere le loro richieste di accompagnamento agitando lo spettro della libertà interiore imposta dal celibato sacerdotale, ma di star lì, di rimanere sul campo, di accettare fino in fondo l’incontro (e se necessario, perfino lo scontro), di essere presenti davvero nella loro esistenza. Una presenza fedele è già testimonianza, e spontaneamente “genera e alimenta la vita”, cioè in sostanza educa. In fondo, la parola che caratterizza l’educazione è la stessa parola essenziale che caratterizza la vocazione: «eccomi!». Ed è l’eucarestia a ricordarci quotidianamente che il “dono della vita” – altro modo di esprimere l’atto del generare – può realizzarsi solo nel concreto dono di sé, fatto di presenza reale, frutto dello Spirito d’amore: «eccomi, ecco il mio corpo, donato e offerto per voi».

Sono qui, per te: ecco lo strumento principale dell’educatore. Solamente la presenza costante, la disponibilità fedele all’incontro, la tenace volontà di intessere una relazione sincera nonostante la tentazione di fuggire e di scrollarsi di dosso responsabilità troppo stringenti, riescono ad attivare un dialogo autentico e costruttivo, un confronto esistenziale che diventa edificante, al di là dei contenuti formalmente trasmessi (che pur non vanno trascurati).

4. L’educazione efficace è dunque frutto di ascesi severa e di sacrificio, che si realizza nell’autoformazione personale e nella fattiva disponibilità interpersonale. Questo dinamismo, proprio di ogni educazione, è valido non solo per sviluppare la maturità umana, ma anche per l’educazione e la trasmissione della fede. Ogni vero educatore è infatti un po’ profeta. Come ogni vero profeta, egli si mette innanzi tutto in ascolto della Parola di Dio, la accoglie e la rende viva in sé, la interpreta nel presente e poi le dà voce, manifestandola agli altri. In tal modo egli, con la sua vita e la sua testimonianza, fa risuonare nell’oggi una Parola che altrimenti non sarebbe stata udibile; ma ciascuno poi è chiamato ad ascoltare ed eventualmente a rispondere personalmente a quella Parola. Proprio quello che dovrebbe fare ogni educatore: promuovere le capacità di ognuno, responsabilizzare (cioè, letteralmente: rendere capaci di rispondere, di dire “eccomi”), tirar fuori (e-ducere) il meglio da coloro che gli sono affidati, far crescere tutti indicando, sì, le motivazioni e la direzione, ma lasciando poi a ciascuno il compito di camminare con le proprie gambe.

Se riusciremo, almeno un po’, ad essere educatori così, non dovremo più andare a caccia di qualcuno che stia ad ascoltare le nostre prediche e i nostri consigli, le nostre lezioni e le nostre direttive, ma saranno loro stessi – i bambini, i ragazzi, i giovani – a rivolgersi con fiducia a noi e a chiederci: «cosa devo fare per avere la vita?». Allora nei nostri occhi brillerà la gioia di chi ha qualcosa da donare, e avremo l’umile coraggio di indicare loro quei cammini di verità e di libertà che il Signore ci ha aiutato a percorrere.