Gian Lorenzo Bernini e la “devotione” dei suoi ultimi giorni. Il busto del Salvator Mundi di San Sebastiano fuori le Mura e l'“ospedale” di San Giovanni in Laterano negli studi di Irving Lavin, di Pina Baglioni
- Tag usati: barocco, gian_lorenzo_bernini
- Segnala questo articolo:
Riprendiamo dal sito della rivista 30giorni due articoli di Pina Baglioni, apparsi nel numero del settembre 2004. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Sul barocco e Roma, vedi su questo stesso sito anche
- Lo spirito del barocco, di Olivier de la Brosse
- Gian Lorenzo Bernini, la Fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona, di A.L.
Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2010)
1/ Il Salvatore dei poveri di Roma. Il più accreditato specialista del Bernini parla dell’ultimo capolavoro dell’artista. «Il Salvator mundi fu l’emblema di una grande opera di carità per i senzatetto di Roma». Intervista con Irving Lavin, di Pina Baglioni
«Voi italiani avete la filosofia più bella del mondo. Che dice: “Chi fa, sbaglia”. Non ho nessuna difficoltà ad ammettere di essermi sbagliato nel ’72 quando affermai che il busto del Salvator mundi ritrovato in Virginia era di Bernini. Detto questo, quello che è veramente importante è che il busto originale sia stato ritrovato. Ancor più importante è il significato che, secondo me, ebbe quel capolavoro».
Irving Lavin, docente di Storia dell’arte all’Institute for Advanced Studies di Princeton, cattedra ereditata dal leggendario Erwin Panofsky, è tra i maggiori esperti del nostro Rinascimento e Barocco. Studia Gian Lorenzo Bernini da una vita: in Italia ha pubblicato Bernini e l’unità delle arti visive (Edizioni dell’Elefante, Roma 1980), Passato e presente nella storia dell’arte (Einaudi, Torino 1994). E nel 1998 Bernini e il Salvatore. La «buona morte» nella Roma del Seicento (Donzelli, Roma), una raccolta di saggi, tra cui quelli relativi alle scoperte di Norfolk e di Sées. In quel libro del ’98, Lavin lanciava anche ipotesi nuove, suffragate oggi, secondo lo studioso statunitense, da nuovi documenti d’archivio.
Nell’ultimo periodo della vita, Bernini si predispose a seguire una sorta di ars moriendi. Una scorciatoia per guadagnarsi il Paradiso, che, insieme a precise pratiche devozionali e caritatevoli, si riflette anche nelle ultime opere realizzate in una prospettiva non più mondana, ma salvifico-missionaria. Il busto marmoreo del Salvator mundi rappresenterebbe proprio l’atto conclusivo dell’itinerario spirituale dell’artista. Non solo: il busto del Salvatore, soprattutto dopo la morte del grande artista, sarebbe diventato l’emblema di una grande opera di carità realizzata presso il Palazzo del Laterano a San Giovanni, cioè un ospizio destinato ai senzatetto di Roma concepito con criteri nuovi per quei tempi.
Abbiamo chiesto ad Irving Lavin di raccontarci come e perché è giunto a ipotizzare tutto questo.
Professor Lavin, alcuni biografi spiegano che il busto del Salvator mundi fu scolpito dal Bernini «per sua devotione». Altri dicono che fu un dono per la regina Cristina di Svezia. Lei lancia ulteriori ipotesi...
IRVING LAVIN: Nello studio della vicenda del Salvator mundi si incrociano storia dell’arte, storia ecclesiastica e storia sociale. Questo, prima, non era mai stato capito. Secondo me, Bernini concepisce l’idea della statua dedicata al Salvatore nel momento in cui viene coinvolto da Innocenzo XI nel progetto di restauro del Palazzo del Laterano per trasformarlo in ospizio dei poveri. Un progetto che, come si vedrà, sarà realizzato solo una decina d’anni dopo la morte del Bernini, con papa Innocenzo XII.
Abbiamo un documento del 21 novembre del 1676 che certifica l’incarico affidatogli da Innocenzo XI: «Ha fatto Sua Santità chiamare il Cav.r Bernini, et impostoli di dovere ristaurare il Palazzo Lateranense volendo porvi l’Arti, ò vero farlo habitatione de poveri». A quel punto Bernini comincia a progettare il restauro del Palazzo del Laterano e contemporaneamente a pensare a una statua raffigurante Cristo da esporre nel futuro ospizio.
La persona che lo aiuta a prepararsi a morire degnamente e a concepire le sue opere in una prospettiva non più mondana, ma di personale devozione, è suo nipote Francesco Marchese, un oratoriano pio e colto, divenuto per volontà di Innocenzo XI predicatore apostolico. Marchese è coinvolto nel progetto del Laterano fin dall’inizio, tanto da diventarne, dopo la morte dello zio, l’amministratore. Forte del particolare carisma di carità degli Oratoriani di san Filippo Neri, molto probabilmente condiziona il vecchio zio a scolpire una statua che facesse pensare alla misericordia e alla salvezza. Non solo personale, ma mundi, del mondo.
Lei afferma che la fonte d’ispirazione primaria del Bernini, nel realizzare la statua, sia il Laterano e la sua storia.
LAVIN: Ne sono convintissimo: l’antica Basilica Lateranense, edificata nel IV secolo, fu dedicata originariamente al Salvatore. Al centro del catino absidale fu poi realizzato un mosaico raffigurante il Salvatore per celebrare la consacrazione della Basilica a Cattedrale di Roma, avvenuta il 9 novembre del 324, per autorità di Costantino il Grande, sotto il pontificato di Silvestro I.
Un’altra immagine del Salvatore è l’icona del Volto Santo, conservata nella cappella del Sancta Sanctorum alla Scala Santa: per la festa dell’Assunzione l’icona veniva portata per le strade di Roma fino a Santa Maria Maggiore, dove si incontrava con la Salus populi romani, la miracolosa immagine della Madonna.
Da secoli, a custodire l’icona della Scala Santa c’era una confraternita che aveva anche il compito di amministrare il grande ospedale per i poveri e gli infermi, annesso alla chiesa del Laterano sin dal tardo medioevo. L’emblema della confraternita e dell’ospedale era l’immagine del Salvatore nell’abside della Basilica Lateranense.
Tutti questi elementi mi hanno convinto del fatto che Bernini volesse scolpire una statua sulla scia di un’antichissima tradizione.
Bernini però non riesce a realizzare l’ospizio al Laterano. E scolpisce il Salvator mundi solo un anno prima di morire.
LAVIN: È vero. Purtroppo Innocenzo XI non li iniziò neanche quei lavori, tanto da scatenare il sarcasmo di Bernini che, seccatissimo, disegnò contro di lui delle terribili vignette satiriche. Ma, ripeto, l’artista non scolpì la sua statua per uso privato, come lasciano intendere i documenti giunti fino a noi. Consideriamo per esempio le dimensioni del busto: compresa la base, andata perduta, misurava oltre tre metri. Ora, è piuttosto difficile pensare che un busto tanto maestoso potesse essere utilizzato solo per devozione privata. Io credo che Bernini lo lasciò in eredità a Cristina di Svezia perché lei si facesse carico di farlo trasportare al Laterano, una volta che quel benedetto ospizio fosse diventato realtà.
Quali altri elementi ci sono a supporto di questa sua tesi?
LAVIN: Il Salvator mundi di Bernini divenne il modello obbligato di una nuova generazione di scultori che nel 1690, a dieci anni dalla morte dell’artista, furono incaricati di realizzare una serie di bassorilievi sullo stesso tema. Il busto del Salvatore fu scelto cioè come insegna di un’opera di carità voluta con tutte le forze dal papa riformatore Innocenzo XII. Questo Pontefice volle riunire in una sola istituzione, che altro non era che il Palazzo del Laterano, le tante manifestazioni caritatevoli della città per centralizzarle e ridistribuirle ai senzatetto di Roma. Tutti riuniti a Palazzo.
I bassorilievi raffiguranti il Salvatore – ne sono stati ritrovati a Roma almeno sette proprio in questi ultimi anni – furono piazzati sulla facciata di diversi edifici della città dove avveniva la raccolta delle elemosine che venivano successivamente convogliate al Laterano.
Perché lei giudica quest’opera rivoluzionaria? La Chiesa da sempre ha fatto opera di carità per i poveri.
LAVIN: Certamente, ma completamente affidata ai singoli e alle confraternite. Nelle intenzioni di Innocenzo XII invece quel progetto doveva col tempo diventare autosufficiente. È il primo esperimento che vede la carità come compito dell’autorità statale. In questo caso, dell’amministrazione dello Stato pontificio. Con un’altra novità: da sempre la Chiesa aveva concepito gli ospedali. Luoghi dove venivano riuniti insieme pazzi, criminali e poveri. A San Giovanni vanno solo i senzatetto, le persone bisognose. Per la prima volta infatti viene utilizzato il termine “senzatetto”. Anche con questo gesto Innocenzo XII volle infliggere un colpo mortale al fenomeno del nepotismo. Amava ripetere che i soli suoi nipoti erano i poveri.
Per concludere, l’idea di Stato sociale, secondo me, nasce nella Chiesa con questo Papa. Nonostante gli sforzi immani del Pontefice, che quasi svuotò le casse della Chiesa per il Palazzo del Laterano, l’esperimento fallì. E fallì anche perché i mendicanti di Roma non ne vollero sapere di stare chiusi in quella pur splendida dimora. Una volta “liberati” dal Palazzo dissero che vivere «mò qua, mò là, a scrocco senza fare fatica, piace troppo a noi altri, e… chi gusta una volta della furfanteria, non può così facilmente ritirarsi».
Per concludere, vorrei ricordare che, al di là della cattiva riuscita dell’esperimento di Innocenzo XII, i romani per molti anni associarono il Salvator mundi di Bernini alla carità.
2/ L’ultimo Bernini e il Salvator mundi. È stato ritrovato a Roma l’ultimo capolavoro del Bernini. Un busto marmoreo raffigurante il Salvatore, che l’artista scolpì poco prima della morte “per sua devotione”. Definendolo il suo “Beniamino”, di Pina Baglioni
Con le spalle avvolte da un manto che ha l’effetto del raso, il bellissimo volto incorniciato da fluenti capelli e la mano destra «benedicente», un busto di marmo raffigurante il Signore se ne sta nascosto nell’oscurità di una nicchia. Ricavata nel muro di un piccolo ingresso nel convento di San Sebastiano fuori le Mura, lungo la via Appia antica a Roma.
Sembra che non si tratti di una statua qualsiasi. Grazie a fortunate coincidenze, accadute nell’agosto del 2001, alcuni storici dell’arte vi hanno riconosciuto il Salvator mundi, l’ultima opera di Gian Lorenzo Bernini, il «gran regista del barocco», l’artista “globale” capace di ammonire chiunque con un perentorio: «Non parlatemi di niente di piccolo». Che però «alla fine della sua straordinaria esistenza», scrive Claudio Strinati, specialista del Seicento romano, nonché soprintendente ai Beni artistici e storici di Roma, «chiude la sua parabola in una muta meditazione». Tanto da realizzare «per sua devotione» un bellissimo busto di Cristo considerato affettuosamente dal vecchio artista il suo “Beniamino”.
Ma alla fine del XVII secolo quest’opera straordinaria scompare. In oltre trent’anni di studi, almeno dal 1972, più di una volta s’è avuta la convinzione di essere giunti al suo ritrovamento. E così il percorso, terminato davanti alla soglia del convento romano di San Sebastiano, è stato piuttosto tortuoso.
Nel febbraio scorso il Salvator mundi è stato esposto per la prima volta come autentico del Bernini nella mostra “Velázquez, Bernini, Luca Giordano. Le corti del Barocco” presso le Scuderie del Quirinale di Roma. A mostra conclusa, il busto raffigurante Cristo ha fatto ritorno nella sua oscura e solitaria dimora dell’Appia antica, di nuovo sottratto allo sguardo dei più.
Quando e perché Gian Lorenzo Bernini scolpì il Salvator mundi? «… Et adesso […] corre l’anno 82 della sua età […] con ottima salute havendo operato in marmo sino all’anno 81, quale terminò con un suo Salvatore per sua devotione». Questo racconta una biografia berniniana, compilata nel 1680 dal figlio dell’artista Pier Filippo e conservata presso la Biblioteca nazionale di Parigi. Il riferimento, per la prima volta preso in considerazione negli studi sul Salvatore, è stato gentilmente anticipato a 30Giorni dall’architetto Francesco Petrucci, conservatore di Palazzo Chigi di Ariccia, una località a pochi chilometri da Roma. Il nuovo documento è inserito nell’articolo di Petrucci intitolato Il busto del Salvatore di Gian Lorenzo Bernini: un capolavoro ritrovato, di prossima pubblicazione sul Bollettino d’Arte.
Bernini dunque muore a ottantadue anni, il 28 novembre del 1680, e scolpisce la statua un anno prima. In un’altra biografia, quella redatta da Filippo Baldinucci nel 1682, si sostiene che la statua fosse stata realizzata per la regina Cristina di Svezia ma che questa, pur apprezzandola, la rifiutò per il fatto di non poter donare al Bernini un oggetto di egual valore. Alla morte dell’artista, Cristina ricevette comunque in eredità il Salvator mundi. Scrive il Baldinucci che l’artista in quell’ultimo periodo della sua vita, dedito «più al conseguimento degli eterni riposi, che all’accrescimento di nuova gloria mondana […] si pose con grande studio a effigiare […] il nostro Salvator Gesù Cristo, opera che siccome fu detta da lui il suo Beniamino, così anche fu l’ultima che desse al mondo la sua mano […] in questo Divino Simulacro pose egli tutti gli sforzi della sua cristiana pietà». E ancora da un’altra biografia di suo figlio Domenico, edita nel 1713, sappiamo che «ormai prossimo il Cavaliere alla morte […] volle illustrar sua vita […] con rappresentare un’opera […] che termina con essa i suoi giorni. Questa fu l’Immagine del nostro Salvatore in mezza figura, ma più grande del naturale, colla mano destra alquanto sollevata, come in atto di benedire. In essa compendiò e restrinse tutta la sua Arte».
La scultura fu dunque lasciata in eredità alla regina Cristina di Svezia, grande amica del Bernini. La regina, che morì nel 1689, la lasciò a sua volta in eredità a papa Innocenzo XI Odescalchi. L’ultimo “avvistamento” del Salvator mundi risale, secondo Francesco Petrucci, al 1773, e non al 1713, come sostenuto nei vari studi sull’argomento: da recenti ricerche realizzate presso l’archivio della famiglia Odescalchi, l’opera risulta citata nella Perizia Odescalchi ancora il 16 gennaio del 1773.
Poi, sulla celebre statua, cala definitivamente il sipario. Uniche tracce del capolavoro, uno Studio per il Busto del Salvatore, dello stesso Bernini, conservato all’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma, nel Fondo Corsini, e una copia commissionata, non si sa a chi, dal francese Pierre Cureau de la Chambre, un amico del Bernini conosciuto sin dal suo soggiorno parigino del 1665.
Il Salvator mundi: uno, due e tre
Nel 1972 si ricomincia a parlare del Salvator mundi: a farlo, lo studioso americano Irving Lavin, professore di Storia dell’arte all’Institute for Advanced Studies di Princeton. Saranno proprio le sue intuizioni e scoperte a riaprire il “caso” del busto del Salvatore. In un saggio del 1972 apparso sulla rivista Art Bulletin, Lavin dà notizia della presenza, presso il Chrysler Museum di Norfolk, negli Stati Uniti (in Virginia), di «un busto in marmo raffigurante il Cristo benedicente che corrisponde così perfettamente alle descrizioni delle fonti e al disegno Corsini che potrebbe essere identificato sia con la copia di Cureau che con l’originale». Il grande studioso ammette una certa goffaggine dell’opera rispetto agli standard berniniani, definendola «sbagliata». Ma ne giustifica i difetti sia con la tarda età dell’artista sia con i problemi al braccio destro che afflissero il Bernini nell’ultimo periodo della vita. Tanto da concludere: «Questi elementi, che apparentemente la farebbero escludere, testimoniano l’autenticità della scultura di Norfolk, se consideriamo il soggetto e le particolari circostanze nelle quali il Salvatore è stato creato».
Salvo qualche eccezione, l’ipotesi di Lavin fu accolta unanimemente dalla critica. Solo un anno dopo, allo studioso statunitense giunge un’importante segnalazione da parte di un collega: esiste un altro busto del Salvator mundi ed è custodito nella cattedrale di Sées, a Orne in Normandia. Irving Lavin dopo averlo visto scrive, in un secondo saggio: «Si può quasi certamente identificare con la copia perduta del Salvatore menzionata da una fonte contemporanea… la copia commissionata da Pierre Cureau de la Chambre (1640-1693), amico dell’artista». L’amico francese del Bernini era l’abate di Saint-Barthélemy, la chiesa del palazzo reale di Parigi. La fonte di cui parla Lavin è l’Eloge de le Cavalier Bernin scritto nel febbraio del 1681 da Cureau dopo aver saputo della morte dell’artista. In uno scritto successivo, l’abate francese rendeva noto che la copia del Salvatore se l’era tenuta in casa. Non una parola né sull’autore della copia né sulla sua provenienza.
Agli inizi degli anni Settanta dunque, si era ragionevolmente certi di aver individuato negli Stati Uniti il Salvator mundi originale, e in Francia la sua copia. Ma alla fine degli anni Novanta, ecco che la celebre statua comincia di nuovo a far parlare di sé.
Nel maggio del 1999 infatti, per celebrare il quarto centenario della nascita del Bernini, si inaugura al Museo di Palazzo Venezia a Roma la mostra “Gian Lorenzo Bernini regista del Barocco” la cui consulenza è affidata a Maurizio Fagiolo dell’Arco, grande specialista del Barocco romano e del Bernini. Collabora anche Francesco Petrucci. In mostra c’è una grande sorpresa: nell’ultima saletta del percorso espositivo, dedicata agli ultimi anni del Bernini, viene esposto il Salvator mundi proveniente dalla cattedrale di Sées, in Normandia. Vale a dire il busto che Lavin aveva considerato una copia. Ma attraverso le pagine del catalogo in mostra Fagiolo dell’Arco e Francesco Petrucci lanciano un’altra ipotesi: il busto di Sées è così bello che potrebbe non essere la copia, ma l’originale.
Il fatto è che gli studiosi italiani scrivono e pubblicano i loro scritti avendo visto il busto solo in fotografia. Ma quando lo vedono da vicino, cominciano ad avere qualche dubbio. E nel corso di una conferenza, Fagiolo dell’Arco espone le sue perplessità: «Lo studio dell’opera da vicino, e non dalle fotografie, mi aveva persuaso di essere di fronte a una opera, anche se bellissima, di bottega».
Il Salvator mundi non s’è mai mosso da Roma
La svolta nelle indagini avviene nell’agosto del 2001 a Urbino, dove si sta svolgendo una mostra dedicata a papa Clemente XI Albani. Tra le foto pubblicate in catalogo ce n’è una che riproduce un busto raffigurante una statua di Cristo. La relativa scheda, redatta da due giovani studiosi, la segnala ubicata «nel Monastero di San Sebastiano fuori le Mura, già nella sagrestia Albani» e attribuita a un tal Pietro Papaleo, uno scultore palermitano, scultore attivo a San Sebastiano fuori le Mura tra il 1705 e il 1710. A visitare la mostra e a sfogliare quel catalogo c’è anche Francesco Petrucci che davanti alla bellissima fotografia rimane abbagliato. Il busto è troppo bello per essere stato scolpito da un artista mediocre come Papaleo. Nell’articolo di prossima pubblicazione e anticipato a 30Giorni racconta: «Combinai per il 7 febbraio del 2002 una visita congiunta con Fagiolo [nel convento di San Sebastiano, ndr], che condivise il mio entusiasmo per l’opera, e che riconoscemmo subito come un sommo capolavoro degno della fama del perduto Salvatore del Bernini».
Certo, c’era da capire come e quando la statua fosse arrivata al convento di San Sebastiano. La storia del convento è infatti piuttosto complicata: durante il periodo napoleonico, l’epoca in cui il busto potrebbe aver lasciato Palazzo Odescalchi, i cistercensi che lo occupavano furono cacciati. Tornati dopo la bufera rivoluzionaria, se ne andarono definitivamente nel 1826, quando papa Leone XII affidò il convento, in via definitiva, ai Frati minori osservanti della Provincia romana. Nel secondo dopoguerra il busto si trovava nella sagrestia Albani, allora adibita a museo. Tra il 1954 e il 1960 l’ambiente fu annesso alla chiesa di San Sebastiano e la statua fu spostata in un ingresso del convento e collocata in una nicchia. E là è rimasta fino a oggi, in uno stato di semiclandestinità.
Tornando intanto alla vicenda dell’identificazione del busto, nel marzo del 2002 Maurizio Fagiolo dell’Arco pubblica il volume Berniniana. Novità sul regista del Barocco, dove scrive: «Si presenta ancora aperto, almeno a mio avviso, il problema dell’ultima scultura monumentale del Bernini, il Salvator mundi». E riferendosi alla statua individuata a Roma, la considera assolutamente degna di essere introdotta negli studi berniniani perché gli elementi a sostegno dell’autenticità sono molti: la trattazione prodigiosa del marmo, tipica del Bernini. La mano di Cristo appare identica a quella della statua del Costantino alla Scala Regia della Basilica di San Pietro in Vaticano, e a quella del busto di Clemente X alla Galleria Nazionale d’Arte antica di Roma; inoltre corrispondono al millimetro con l’inventario Odescalchi le dimensioni del busto. Nel suo Berniniana Fagiolo dell’Arco annuncia che a breve avrebbe realizzato una pubblicazione scientifica dell’opera. Intanto spedisce la riproduzione fotografica del Salvator mundi del San Sebastiano a Jennifer Montagu, insigne specialista di scultura barocca. Che il 25 marzo risponde di essere rimasta affascinata dalla scultura. Capolavoro che, secondo la grande studiosa, non aveva nulla a che vedere, per la qualità e bellezza, con la statua di Sées, tantomeno con quella di Norfolk in Virginia. Maurizio Fagiolo dell’Arco muore l’11 maggio del 2002 non riuscendo purtroppo a scrivere il suo libro sul Salvator mundi.
A rompere gli indugi, in grande fretta, e ad affermare senza riserve che il busto originale del Bernini era proprio quello del monastero sull’Appia antica è Irving Lavin, un anno dopo. Sconfessando quanto aveva affermato nel ’72, e cioè che il Salvator mundi originale fosse quello ritrovato a Norfolk, in Virginia.
Nel 2003 infatti, nel saggio La mort de Bernin: vision de rédemption inserito nel catalogo della mostra Baroque vision jésuite. Du Tintoret à Rubens, (Somogy, Paris 2003, pp. 105-19), a proposito del Salvator mundi Lavin scrive: «L’originale di questa celebre opera, conosciuto grazie a un certo numero di studi preparatori e a varie copie, è stato considerato perduto da molti anni […] Questa scultura […] è stata ritrovata recentemente nella sacrestia della cappella di papa Clemente XI Albani (1700-1721) a San Sebastiano fuori le Mura».
A questo punto, il caso della “paternità” del Salvator mundi, sembrerebbe risolto. Indipendentemente da questo, la storia del Salvator mundi restituisce un’immagine di Gian Lorenzo Bernini inedita, commovente: quella di un uomo potentissimo che ebbe in mano Roma per oltre mezzo secolo, amato, ammirato, vezzeggiato da ben quattro papi, decine di cardinali, addirittura dal Re Sole. E che alla fine della vita volle fare un’unica cosa: scolpire l’immagine di Gesù, il suo Beniamino. Per «sua devotione».