Aspetti principali dell'attuale emergenza educativa, di Giorgio Israel
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Riprendiamo da L'emergenza educativa, a cura del Servizio nazionale per il progetto culturale della CEI, EDB, Bologna, 2010, pp. 25-35, una relazione di Giorgio Israel, professore di professore di Storia delle matematiche e di Matematiche complementari presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag giorgio_israel, ed, in particolare:
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Il Centro culturale Gli scritti (27/11/2010)
Ritengo di primaria importanza acquisire la consapevolezza che l’attuale emergenza educativa ruota attorno alla “questione antropologica” che riassumerei nella seguente domanda: «Qual è la concezione dell’uomo su cui si basano le tendenze attualmente prevalenti nel contesto educativo e dell’istruzione e qual è la concezione dell’uomo che riteniamo auspicabile per superare la presente condizione di emergenza?».
Intendo argomentare che, nel contesto educativo contemporaneo, si fronteggiano due concezioni diametralmente opposte dell’uomo, e quindi del soggetto del processo educativo: quella dell’“uomo-persona” soggetto di libertà e quella dell’“uomo-macchina” che agisce secondo leggi e procedure determinate.
Intendo inoltre sostenere che la seconda concezione sta prevalendo sulla prima. Ma il prevalere di una visione ispirata a uno scientismo meccanicista su una visione umanistica non basta a connotare gli aspetti negativi dell’attuale emergenza educativa.
Difatti, tale prevalenza è resa molto più preoccupante dal fatto che il confronto tra quelle due visioni non si svolge nella chiarezza e in un quadro di contorni definiti, bensì in una confusione concettuale quanto mai sconcertante. È fin troppo frequente il caso di persone che, mentre dichiarano in termini generali la loro adesione alla prima concezione, quando agiscono nella veste di educatori o di insegnanti si rifanno a precetti derivanti dal secondo tipo di concezione.
Una simile confusione non si manifesta in altri campi, in particolare in quello biomedico, forse per effetto del largo e intenso dibattito che si è sviluppato in questi anni sulle questioni di bioetica. In questo ambito, è chiara e sentita la contrapposizione tra una visione della medicina come attività meramente scientifica e altamente specializzata di “riparazione” del malato e una sua visione come un’attività che si rivolge alla persona malata nella sua integralità materiale e spirituale e che mira a rispondere alla sua richiesta di alleviare le sofferenze.
Esiste una diffusa consapevolezza di trovarsi di fronte a una deriva biologistica che riduce la cura del paziente a una somma di interventi meramente tecnici, in quanto concepisce l’uomo come una somma di processi materiali il cui cattivo funzionamento o la cui “errata” programmazione non possono che essere “riparati” in termini tecnoscientifici. Alla visione di un uomo-macchina da riparare e del medico che non vede più di fronte a se il malato bensì soltanto la malattia, si contrappone la visione della persona che “si sente malata” e che, in quanto tale, chiede di essere curata e alleviata nelle sue sofferenze da parte di un medico che agisce a sua volta come persona e non come mero specialista[1].
Di questo contrasto vi è piena consapevolezza e il confronto tra le due visioni si svolge nella chiarezza. Purtroppo tale consapevolezza non è affatto presente in altri contesti. Ad esempio, è sconcertante la superficialità con cui taluni credono che il programma dell’intelligenza artificiale forte, che mira a dimostrare l’identità sostanziale tra la mente umana e il calcolatore, sia conciliabile con la concezione dell’“uomo-persona soggetto di libertà”.
La confusione raggiunge tuttavia livelli estremi nel campo educativo. Potrei fare molti esempi. Mi limiterò a citare la leggerezza con cui educatori che pure si dichiarano religiosi o comunque ispirati a una visione spiritualistica dichiarano di aderire alla teoria educativa dell’equilibrazione di Jean Piaget. Secondo questa teoria il motore dello sviluppo mentale del bambino è l’“equilibrazione”, ovvero un processo di adattamento cognitivo che consiste in sequenze di fasi di assimilazione e di accomodamento a impulsi cognitivi provenienti dall’esterno. Ogni individuo agirebbe sulla base di uno schema interno percettivo-motorio. Se i nuovi dati che vengono man mano assimilati sono incorporabili in questo schema il “sistema” si mantiene in equilibrio, altrimenti ha inizio un processo di adattamento cognitivo che termina con lo stabilirsi di un nuovo equilibrio.
La descrizione del processo di maturazione intellettuale come una sequenza di equilibri metastabili è quanto di più meccanicistico si possa pensare. Si tratta di una visione chiaramente ispirata al principio dell’omeostasi, il medesimo che è alla base delle teorie cibernetiche.
Ora, che un fautore della teoria dell’uomo-macchina possa aderire a una simile visione e ne possa fare addirittura il fondamento delle proprie pratiche educative, non stupisce affatto. Ma è da chiedersi come l’adesione a una simile teoria sia conciliabile con una visione religiosa o spiritualista, o comunque con una visione dell’uomo in quanto soggetto «che deve liberamente scegliere, l’uomo che è libero di plasmare razionalmente sé stesso e il mondo che lo circonda, l’uomo in quanto soggetto di libertà»[2].
La coesistenza di visioni così radicalmente contraddittorie – una vera e propria forma di schizofrenia concettuale – può spiegarsi soltanto come un fenomeno di subordinazione alle correnti culturali dominanti. Si tratta probabilmente della subordinazione, consapevole o inconsapevole, all’idea priva di qualsiasi fondamento che la «mera scienza di fatti»[3] possa dettare la “vera” e “giusta” concezione dell’uomo, come se invece questa concezione non fosse una questione preliminare che non può essere il risultato di alcuna “analisi scientifica”.
In definitiva, si manifesta qui l’assoggettamento alla pretesa positivistica di trasformare tutto in “scienza” secondo una procedura che, di passo in passo, riconduce ogni speculazione ai principi e ai metodi del modello delle scienze fisico-matematiche, come se una siffatta riduzione fosse sufficiente a garantirne la verità e la razionalità. E può accadere che, mentre da un lato si deprecano gli eccessi del riduzionismo scientista e la povertà di un’idea decapitata della razionalità, magari predicando l’esigenza di sviluppare un’idea più larga della ragione, ci si assoggetta passivamente a praticare questa razionalità ridotta e decapitata proprio sul terreno educativo e dell’istruzione.
Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione il valore della riflessione pedagogica che, congiunta a quella filosofica, accompagna le culture umane da più di duemila anni. Ma certe tecnologie pedagogiche contemporanee, che sommergono come un diluvio ogni istituzione che abbia a che fare con i processi educativi, stanno ad una pedagogia aperta come il progetto umanistico della conoscenza caratteristico della rivoluzione scientifica – «scienza onnicomprensiva» che «persegue lo scopo di riunire scientificamente nell’unità di un sistema teoretico tutte le questioni ragionevoli attraverso un progresso infinito ma razionale di ricerca»[4] – sta al suo “residuo”, il concetto positivistico di scienza.
È questa pedagogia scientista, che riduce la questione educativa a una mera questione di tecniche e di procedure, che appare assolutamente insufficiente a corrispondere a un’idea della formazione di una persona come soggetto di libertà.
Tutti i segni di questa degenerazione scientista appaiono nella loro evidenza a chi voglia vederli. In primo luogo, l’idea che il maestro-insegnante debba essere ridotto a un mero “facilitatore” o “mediatore”. Non più la figura descritta così bene da Hannah Arendt[5]: colui che «si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità».
È la persona che «di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo». Secondo i dogmi di questa pedagogia scientista l’insegnante non può essere un maestro, e non deve quindi educare ma soltanto favorire il processo di autoeducazione e di autoapprendimento, ovvero di autoformazione, secondo i principi di un mediocre pragmatismo che predica che vale soltanto quel che si è fatto da sé. Qualsiasi persona ragionevole e che conservi un minimo di fiducia nelle persone e nei rapporti interpersonali non può non avvertire l’assurdità di una simile visione. Potrei citare molte critiche che ne sono state fatte, oltre a quella di Hannah Arendt. Mi limiterò a ricordare che don Luigi Giussani ha fornito una demolizione radicale dell’idea dell’autoformazione con la sua teoria della conoscenza per testimonianza:[6]
«Togliete la conoscenza per mediazione, dovete togliere tutta la cultura umana, tutta perché tutta la cultura umana si basa sul fatto che uno incomincia da quello che ha scoperto l’altro e va avanti. […] Se non ci fosse questo metodo, non si saprebbe più come muoversi; sì, ci si saprebbe muovere in un metro quadrato. Invece con questo tipo di conoscenza ci si può muovere in tutto il mondo. La cultura, la storia e la convivenza umana, si fondano su questo tipo di conoscenza […] conoscenza di una realtà attraverso la mediazione di un testimone».
Eppure è facile imbattersi in persone che, mentre dichiarano la loro adesione incondizionata a visioni come quelle sopra esposte, praticano quel confuso miscuglio di pragmatismo scientista proveniente dal filone della pedagogia di John Dewey e dei suoi aggiornamenti nella versione della pedagogia di matrice anticapitalistica e antiborghese alla Edgar Morin. Costoro, da un lato si dichiarano spiritualisti, religiosi, ed estranei a qualsiasi forma di scientismo e tuttavia propongono una bizzarra accozzaglia di teorie educative in cui intervengono versioni recenti del riduzionismo meccanicista, come la teoria della complessità, e talora la proposizione di un fumoso “olismo” inteso come la fusione di ogni conoscenza in una totalità indistinta, dando per scontato che la soppressione delle distinzioni disciplinari sia un fattore di progresso.
L’ispirazione “progressista” di queste visioni è del tutto evidente. La loro ascendenza “sessantottina” è visibile nel modo in cui la teoria dell’autoformazione è declinata nei termini di un’aspra “contestazione” del “vecchio”: si pensi alla polemica contro la lezione ex-cathedra, ai sarcasmi nei confronti dell’educazione “trasmissiva”, al richiamo del motto di Morin secondo cui è meglio avere “teste ben fatte piuttosto che ben piene”, il quale viene propinato come uno slogan contro le discipline e le conoscenze, e, in definitiva, viene convertito nel motto “meglio una testa vuota ben fatta secondo i nostri principi che una testa piena fatta secondo principi altrui”.
Ma il “progressismo” insito in queste visioni è fallace e nasconde malamente una visione profondamente reazionaria. Al contrario, è un’educazione tradizionale, conservatrice, l’unica che può fornire al giovane gli strumenti per rinnovare il mondo, se lo ritiene necessario. È ancora Hannah Arendt ad averlo spiegato con estrema chiarezza:[7]
«Il vero problema dell’educazione sta nell’estrema difficoltà […] di realizzare anche quel minimo di conservazione, quella situazione conservatrice assolutamente indispensabile per “educare” i giovani. […] L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».
Vi è un altro motivo per cui l’antiautoritarismo delle teorie pedagogiche di cui sopra nasconde in realtà una visione smaccatamente autoritaria. Difatti, nel predicare l’abolizione della lezione ex-cathedra e trasmissiva, si pretende che ne resti in piedi una soltanto: quella impartita dai pedagogisti, didatti o esperti di scuola, la quale consiste nel prescrivere autoritariamente e assiomaticamente i principi dell’autoformazione e dell’insegnamento inteso come “mediazione” e “facilitazione”.
Soltanto i teorici di questo genere di pedagogia conserverebbero il diritto di impartire lezioni ex-cathedra… A ben vedere, vi è una coerenza in questa pretesa.
Difatti, se così non fosse crollerebbe l’intera architettura: per affermare il principio che l’educazione deve basarsi sull’autoformazione occorre che insegnanti e allievi non riconoscano altra autorità che la metodologia e i suoi profeti. Si prospetta così una singolare piramide, al cui vertice si collocano i teorici della pedagogia dell’autoformazione che assoggettano alle loro teorie l’intero sistema educativo. Al disotto si colloca lo strato degli insegnanti che debbono limitarsi al ruolo di facilitatori e esecutori dei precetti e delle metodologie della pedagogia “scientifica”.
E alla base della piramide si collocano i giovani, gli allievi, “liberi” di autoformarsi, e in realtà incatenati a un sistema di una rigidità senza confronti. In questo quadro il precetto delle “teste ben fatte” suona alquanto sinistro, in quanto appare evidente come i precetti della “buona fabbricazione” delle teste discendono dall’alto delle teorie pedagogiche nei confronti delle quali l’insegnante ha una mera funzione esecutiva.
Cosa ha a che fare un siffatto sistema con l’aspirazione a creare uomini liberi in quanto liberamente detentori di conoscenze di cui possono fare l’uso che credono? Assolutamente nulla. Le “teste ben fatte” ed eventualmente vuote rispondono a criteri standardizzati di fabbricazione in serie che trascurano il fondamentale fattore che conferisce libertà, che è precisamente il possesso della conoscenza. Soltanto chi possiede conoscenze è in grado di decidere liberamente del proprio destino e di plasmare liberamente la propria esistenza[8]. Essere semplici oggetti di una confezione metodologica è una forma di assoggettamento.
Purtroppo, come accade per tutte le fedi fanatiche – e lo scientismo è una fede fanatica –, la povertà dei risultati ottenuti non induce a riflettere sulla fondatezza dei principi seguiti. E in questo caso i risultati non sono soltanto poveri: siamo di fronte a un autentico disastro educativo. Spesso gli stessi fautori del punto di vista da noi criticato ammettono questo disastro ma lo imputano alle forme di educazione precedenti, e in tal modo non soltanto falsificano i fatti ma si comportano come quei cattivi medici che, di fronte al peggioramento dello stato del paziente, invece di rivedere la loro diagnosi e la terapia raddoppiano, triplicano, quadruplicano le dosi delle medicina. Allo stesso modo per l’educazione vengono ostinatamente riproposte le stesse ricette: standardizzazione dei metodi, svalutazione delle conoscenze, metodologismo a oltranza, demolizione dell’articolazione disciplinare, una confusa e sgangherata ideologia “olistica”.
Ma c’è un altro aspetto di queste pedagogie scientiste che deve essere sottolineato e che rappresenta forse l’aspetto più contraddittorio con l’idea di educazione alla libertà: si tratta della tendenza a riassorbire nella dimensione educativa pubblica, se non addirittura statuale, la sfera etica e morale, attraverso l’introduzione di materie come l’educazione alla cittadinanza e l’educazione all’affettività. Anche qui non possiamo non rilevare una contraddizione patente.
Molto spesso si critica aspramente – e, a mio avviso, con ragione – l’espropriazione messa in atto in Spagna da parte del governo Zapatero del ruolo della famiglia e della religione nella formazione etica, morale, affettiva e relazionale attraverso il conferimento all’istituzione scolastica della funzione di educare a un sistema di principi etici e morali definiti in termini di programmi scolastici. Assai giustamente si rileva come un siffatto modo di vedere si apparenti alle visioni e alla prassi di regimi totalitari, come quelli fascisti e comunisti che pretendevano di formare direttamente i giovani sulla base dei principi dell’“etica fascista” o della teoria sociale marxista-leninista.
Nell’Unione Sovietica si arrivò al punto di predicare e praticare la formazione di comunità educative che dovevano surrogare in toto la funzione della famiglia. Ed è evidente che la “educación para la ciudadanía” del governo Zapatero presenta sinistre assonanze con questi modelli, incluso il loro ateismo laicista. Ora, non c’è da stupirsi che qualche orfano del comunismo possa nutrire nostalgia per le dottrine pedagogiche di Makarenko e possa insistere a parlare della scuola come “comunità educante” cui spetterebbe non soltanto una funzione di insegnamento ma anche di formazione etica, relazionale e sociale, in vece della famiglia e delle comunità religiose. Ma è sconcertante assistere al fatto che aspri critici di queste visioni le accettino passivamente in altri contesti geopolitici, per esempio in quello italiano.
Non abbiamo noi forse, nel nostro paese, una riforma dell’istruzione che prevede un’inquietante materia dal titolo “educazione all’affettività”? Con quale coerenza si combatte, giustamente, contro i tentativi di espropriare la famiglia del suo ruolo primario nell’educare ai rapporti affettivi, nell’instillare il senso etico e morale, nel rappresentare il nucleo primario in cui si crea la personalità sociale – magari indicando le politiche del governo Zapatero come il paradigma di tali tentativi – e poi si accetta senza fiatare che la scuola italiana insegni a «esercitare modalità socialmente efficaci e moralmente legittime di espressione delle proprie emozioni e della propria affettività»? È accettabile l’istituzione di una morale di stato che conferisce alla scuola il ruolo di dare risposta «alla domanda sul bene e sul male»?[9]
Quando si trasferisce alla scuola una funzione che dovrebbe essere riservata alla famiglia c’è poco da lamentarsi se la crisi della famiglia viene aggravata. Difatti, la famiglia viene così deprivata di ogni ruolo, marginalizzata e ridotta a un inutile orpello. Le uniche funzioni residue che le vengono lasciate sono quelle della riproduzione e del sostentamento economico, anche se in prospettiva resta in piedi soltanto la seconda, ove si tenga conto dell’intenzione esplicita di annullare anche la funzione riproduttiva. Inoltre, quando viene demandato alla scuola il ruolo di insegnare cosa sia il bene e il male, ovvero di prescrivere quali sono i cardini della morale – non si sa bene stabiliti da chi e in base a quale autorità – c’è poco da lamentarsi se il ruolo della religione viene reso marginale e, in definitiva, del tutto inutile.
Dovrebbe essere infine superfluo insistere – anche se purtroppo non lo è – sul fatto che una simile visione è profondamente illiberale in quanto centralizza la formazione della personalità affettiva e del senso morale sottraendola alla pluralità sociale che è rappresentata dalle famiglie, dalle comunità religiose o dalle libere aggregazioni. In tal modo si confonde la morale con la legge, la quale riflette le regole della convivenza civile determinate e decise attraverso il confronto delle componenti della società. Quel che deve essere oggetto di insegnamento scolastico sono queste regole e non i principi morali decisi da esperti o dall’amministrazione statale o regionale.
Conviene tornare sul tema dell’eliminazione della figura del maestro, dell’insegnante, per sottolinearne una conseguenza particolarmente nefasta. Si tratta dell’eliminazione del processo di valutazione come elemento caratteristico del rapporto interpersonale tra allievo e maestro. In nome del mito di una valutazione assolutamente oggettiva, indiscutibile al pari delle leggi della fisica, si vuol dimenticare che la valutazione aspira certamente a essere il più possibile “giusta” e “imparziale”, ma non è il risultato di un processo di osservazione meccanica dei risultati “prodotti”, bensì di un apprezzamento globale della persona che il maestro ha di fronte. In tal senso, essa è inevitabilmente intrisa di elementi soggettivi i quali non rappresentano tuttavia necessariamente qualcosa di negativo: al contrario, riflettono un’interazione vitale e autentica tra persone.
Del resto, la soppressione degli aspetti soggettivi e il raggiungimento di una valutazione assolutamente oggettiva è un mito privo di qualsiasi serio fondamento. La storia della scienza ci insegna quanto sia problematica la pretesa di voler rappresentare quantitativamente le qualità e persino di volerle misurare quando queste riguardano aspetti soggettivi. Di recente, le maggiori istituzioni scientifiche esperte di numeri hanno lanciato un grido di allarme circa l’ossessione di voler misurare tutto e la pretesa di voler quantificare le qualità, affermando che «i numeri non sono intrinsecamente superiori a dei giudizi ponderati».[10] Ciononostante una corporazione di ostinati “valutatori” insiste nel voler accreditare metodologie di dubbio (e talora nullo) valore scientifico come il toccasana per costituire un sistema educativo “perfetto”.
Tali metodologie sono spesso inficiate da una grossolana confusione tra causalità e correlazione, dalla leggerezza con cui si ricorre al concetto di misura non tenendo conto che non ha senso parlare di misurazione di ciò che non possiede unità di misura (e quindi non è misurabile), e da forme di vero e proprio abuso della statistica.
Anche in questo caso assistiamo al tentativo di una spersonalizzazione del processo dell’educazione e dell’istruzione in cui l’insegnante, allo scopo di raggiungere l’ideale della valutazione “oggettiva”, viene ridotto a semplice esecutore di metodologie di valutazione trasmesse da enti e da “esperti” che oltretutto sono gli unici a priori sottratti a ogni forma di valutazione.
In tal modo, la piramide di cui parlavamo in precedenza è confezionata in modo completo: al vertice la casta degli specialisti delle metodologie pedagogico-didattiche e la casta dei valutatori, al di sotto gli insegnanti che hanno l’unico ruolo di applicare fedelmente quelle metodologie, di valutare secondo le tecniche che vengono loro prescritte e di astenersi da ogni sconfinamento personale; e in basso lo stuolo delle teste vuote in attesa di essere “ben fatte”.
Torniamo quindi al punto da cui siamo partiti: la questione antropologica. Alla nozione di persona viene sostituita quella di uomo-macchina che deve bene operare secondo principi scientifici. L’intelligenza viene riduttivamente concepita come il funzionamento di una “testa ben fatta” secondo i precetti degli esperti. Alla libertà educativa si sostituisce il principio dell’autoformazione eterodiretta. Al rapporto interpersonale tra allievo e maestro una relazione codificata entro regole definite dagli esperti didattici e della valutazione. All’affetto e all’amore concretamente costruiti nella realtà familiare e sociale viene sostituita un’affettività di stato costruita secondo principi pretesamente “scientifici”. Altrettanto dicasi per la morale.
La tendenza a eliminare i rapporti personali, ad annullare il ruolo della famiglia, lo sgretolamento delle conoscenze e della struttura disciplinare denigrate come un orpello “oppressivo” del passato, la riduzione della figura del maestro a un burocrate esecutore delle prescrizioni di una casta di “scienziati” ed “esperti” del sistema educativo – queste sono le principali radici dell’emergenza educativa. Dobbiamo esserne consapevoli se vogliamo invertire un processo degenerativo che sembra inarrestabile.
Note al testo
[1] Cfr. G. Israel, “Medicine between humanism and mechanism”, Journal of Medicine and the Person, 2008, vol. 6, no. 1, pp. 5-13.
[2] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1997.
[3] Ivi.
[4] Ivi.
[5] H. Arendt, “La crisi dell’istruzione”, in Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 2001.
[6] L. Giussani, Si può vivere così? Uno strano approccio all’esistenza cristiana, Milano, Rizzoli, 2007.
[7] H. Arendt, “La crisi dell’istruzione”, cit.
[8] Una delle manifestazioni più impressionanti di come la disgregazione disciplinare della scuola conduca alla crisi educativa è dato dalla recente proposta di riforma dell'istruzione delle scuole elementari avanzata dall’ex direttore dell’Office for Standards in Education, Sir Jim Rose, su incarico del governo britannico. È stata proposta la riduzione delle materie a sei: inglese, matematica, scienza e tecnologia, arte, “comprensione dell’ambiente, della società e dell’uomo”, “linguaggi e comunicazione”. Storia e geografia sono state praticamente eliminate. Con “linguaggi e comunicazione” i bambini verranno istruiti a manipolare i blog, i podcast, Facebook, Wikipedia e Twitter intesi come fonti di informazione e forme di comunicazione, dovranno saper scrivere a mano e a tastiera, e imparare la grammatica usando correttori grammaticali informatici. È pura ipocrisia parlare di emergenza educativa e chiedersi da dove venga il bullismo, quando si pensa di educare i bambini a un simile allucinante “sistema di valori” basato su un disprezzo così radicale delle conoscenze e sull'annullamento delle proprie radici storiche, culturali e persino geografiche.
[9] Queste espressioni sono tratte dalle Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella Scuola Primaria della Riforma Moratti. Le Indicazioni per la Scuola Secondaria di primo grado prevedono il tema de «l’aspetto culturale e valoriale della connessione tra affettività-sessualità-moralità». Potremmo continuare con gli esempi.
[10] Citation Statistics, A report from the International Mathematical Union (IMU) in cooperation with the International Council of Industrial and Applied Mathematics (ICIAM) and the Institute of Mathematical Statistics (IMS), 6/12/2008. Si veda anche il documento “Journals under Threat: A Joint Response from History of Science, Technology, and Medicine Editors, Science in Context, 22 (1), 2009, p. 1-4.