Uomini di Dio (Des hommes et des dieux) e i monaci di Tibhirine. Quando l'occhio laico sa vedere il cuore di una chiesa, di Henri Teissier
Riprendiamo, per gentile concessione, la recensione al film Uomini di Dio (Des hommes et des dieux) scritta da S. Ecc. mons. Henri Teissier, arcivescovo emerito di Algeri. Il testo è apparso su Il regno Documenti 18/2010. Sul sito della rivista è disponibile la versione in PDF al link Quando l'occhio laico sa vedere il cuore di una chiesa. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (24/11/2010)
Il 22 ottobre, mentre andiamo in stampa, esce la versione italiana del film francese Des hommes et des dieux – Uomini di Dio per la regia di Xavier Beauvois (la distribuzione in Italia è di Lucky Red.), premio speciale della giuria di Cannes 2010. Lo recensisce in esclusiva per Il Regno mons. Henri Teissier, vescovo di Algeri al tempo dei fatti di cui il film tratta. Sulla vicenda, cf. anche Regno-att. 8,1996,216; 12,1996, 361; 16,1997,493; 10,2006,316; 14, 2009,462; Regno-doc. 13,1996,427; 7,1998,245; 22,1998,771 (Red.).
Molti si meravigliano del successo che il film sui monaci di Tibhirine ha avuto in Francia, paese in cui il messaggio della Chiesa non raggiunge che una piccola parte della società. Anche se tutti sanno che il rapimento e poi l’uccisione dei monaci (27 marzo e 21 maggio 1996), assieme alla straordinaria qualità del testamento spirituale di p. Christian de Chergé, hanno suscitato allora una profonda emozione.
Tuttavia, quasi non riesco a credere che il messaggio dei nostri fratelli di Tibhirine abbia già raggiunto 1.200.000 persone! E il suo percorso è lungi dall’essere terminato. Nei prossimi giorni il film sarà presentato anche al pubblico italiano, spagnolo, inglese.
Fedeltà a un messaggio
Sono poi stato positivamente colpito dal fatto che sia un film tecnicamente valido e che, grazie ai consigli di Henri Quinson e alla testimonianza dell’abbazia di Tamié, gli elementi essenziali della vita cistercense trappista siano ben espressi: la preghiera, la lectio divina, la vita fraterna comunitaria, l’accoglienza dei vicini nel rispetto della loro identità musulmana, il lavoro o il servizio nella diversità dei compiti: il dispensario, il giardino, il miele, l’assistenza reciproca, la cucina, le faccende quotidiane ecc.
Ulteriore positiva meraviglia ha suscitato in me il fatto che questo film sia una scelta nata da dei professionisti del cinema, senza committenza da parte della Chiesa o di un’istituzione cristiana. In più è arrivato a Cannes per i normali canali della produzione cinematografica. Ha ottenuto il premio speciale della giuria e, sulla scia di questo, il premio del Ministero per l’istruzione, oltre al premio della giuria ecumenica. I riconoscimenti della critica e questa sua genesi laica hanno spinto molte persone, ben al di là dei cristiani praticanti, ad andare a vedere il film.
E il silenzio attento con cui gli spettatori seguono ogni spettacolo prova che c’è un pubblico nella Francia d’oggi – e probabilmente anche in altri paesi – capace d’accogliere il messaggio di una comunità monastica quando essa si pone drammatiche domande di coscienza, come quella se accettare, per fedeltà alla propria vocazione umana e religiosa, di rischiare la propria vita. Ed è capace di cogliere l’innovativa relazione tra cristiani e musulmani, uno dei temi principali del film, vissuta dai monaci. La decisione dei monaci di rimanere è infatti una scelta che si fonda sui legami con i loro vicini musulmani e sulla loro volontà d’essere fedeli a una società musulmana lacerata da una crisi che coinvolgeva tutto e tutti.
Tuttavia occorre riconoscere che c’è una distanza tra il film e la realtà. Noi che abbiamo conosciuto i monaci, che abbiamo frequentato tanto spesso quei luoghi e contemplato i paesaggi, dobbiamo innanzitutto abituarci a un diverso scenario. In effetti non è troppo difficile, soprattutto quando la recitazione degli attori ci permette di riconoscere le figure molto ben evocate di fratel Luc (Michael Lonsdale) o di fratel Amédée (Jacques Herlin) o di fratel Michel (Xavier Maly). È più difficile quando si tratta di ritrovare Christian de Chergé nella recitazione di Lambert Wilson o fratel Christophe (Olivier Rabourdin) nella parte del monaco tormentato dal rischio della morte, che gli è affidata dalla sceneggiatura.
Vi sono poi due difficoltà più grandi che si presentano a noi che abbiamo vissuto con loro tutto quel periodo. Il film ha scelto di puntare la cinepresa sui monaci, e questo ha creato la maggior parte del successo presso il pubblico, che scopriva così un problema di coscienza e di fedeltà nei confronti di tutta la comunità. Ma possono in questo modo gli spettatori comprendere che il rischio che minacciava i monaci era lo stesso che gravava su tutta la popolazione? Ogni algerino – ogni cristiano – all’epoca della crisi dei gruppi armati era ugualmente, quotidianamente messo davanti alla propria morte, e non solo i monaci.
Seconda difficoltà. I monaci non erano soli. Avevano il sostegno dell’ordine cistercense e della Chiesa d’Algeria. Ogni singola decisione, maturata attorno al tavolo del capitolo – cosa che il film mostra – era anche una decisione riflettuta con la diocesi, con l’Ordine cistercense e con l’Unione dei superiori di cui Christian era in quel momento il presidente.
La nascita di Tibhirine
I legami del monastero di Tibhirine con la Chiesa d’Algeria erano, infatti, particolarmente stretti. La presenza trappista risale al 1840, quando l’Ordine cistercense si stabilì in un villaggio situato a 30 km da Algeri e che doveva per questa ragione chiamarsi «La trappa». Padre Charles de Foucauld, allora trappista, ebbe a passare da questo monastero nel 1900, prima di prendere dimora come eremita a Beni Abbès. Tuttavia la separazione tra stato e Chiesa avviata in Francia nel 1905 e le misure conseguenti contro gli ordini religiosi spinsero i monaci a scegliere di partire dall’Algeria. Una nuova comunità cistercense ritornò negli anni Trenta e s’installò nella regione di Medea, prima a Ben Chicao e poi, nel 1937, a Tibhirine.
A seguito dell’indipendenza dell’Algeria (1962), l’abate generale dei cistercensi decise la chiusura del monastero, affermando che l’ordine non poteva mantenere una propria presenza in un paese diventato quasi totalmente musulmano. Ma il card. Duval, allora arcivescovo di Algeri, ottenne l’annullamento di questa decisione.
Da allora la comunità di Tibhirine prese progressivamente una forma di vita che ne ha fatto un vero e proprio simbolo della nostra vocazione cristiana in Algeria. Infatti, i monaci formavano una comunità cristiana e monastica attraverso il segno della preghiera cristiana, del servizio evangelico e dell’incontro senza pregiudizi con un vicinato quasi totalmente musulmano. Era la medesima vocazione della nostra Chiesa d’Algeria dopo la partenza per l’Europa della quasi totalità dei suoi fedeli.
È per questo che la maggior parte dei cristiani praticanti delle quattro diocesi dell’Algeria cercava ogni occasione per passare di lì per un periodo di ritiro o per un week-end spirituale. Peraltro p. Christian de Chergé, divenuto abate del monastero – o priore – manteneva una corrispondenza di direzione spirituale molto ampia con numerosi preti, religiosi e laici. Aveva inoltre un ruolo molto importante nelle iniziative dell’Unione dei superiori maggiori d’Algeria, pur rimanendo strettamente legato alla piccola parrocchia vicina di Medea, il cui parroco, p. Gilles Nicholas, andava in visita ai monaci quasi ogni settimana.
Più in generale il monastero era in stretto legame con le quattro diocesi d’Algeria. Un anno i padri Giovanni della croce e Christophe predicarono un ritiro spirituale ai vescovi dei quattro paesi del Maghreb. Un altro anno i preti della diocesi di Orano vennero al monastero per il loro ritiro spirituale annuale. Un altr’anno ancora fu p. Piroird, vescovo di Constantine, a predicare un ritiro ai monaci. Successivamente p. Sanson, gesuita di Algeri, fece altrettanto. Nel 1988 p. Claude Rault, oggi vescovo di Laghouat, fondò a Tibhirine il gruppo spirituale islamo-cristiano «Ribâta es-Salâm» («Legame della pace»). I rapporti col Maghreb si allargarono ancora dopo la fondazione della piccola comunità collegata di Fès (Marocco, oggi a Midelt). In breve: pochi monasteri possono vantare una relazione così stretta con la propria Chiesa locale.
Chiesa in una società musulmana
Personalmente, in quanto sacerdote della diocesi d’Algeri avevo con i monaci i legami che avevano tutti, ma la mia relazione con il monastero si approfondì quando divenni loro vescovo. Infatti, dopo essere stato nominato vescovo di Orano dal 1973 al 1981, ritornai ad Algeri, prima come coadiutore del cardinale di Algeri e poi, dal 1988, come arcivescovo.
Da allora, ogni due mesi, avevo il dovere d’andare al monastero. D’altra parte p. Christian de Chergé passava spesso da Algeri e faceva in modo, quasi ogni volta, d’incontrarmi. Quindici giorni prima del suo rapimento, l’8 marzo 1996, gli domandai di animare una giornata di ritiro spirituale per i laici della diocesi.
Quando mi recavo al monastero, p. Christian aveva pronta una lista di quindici o venti punti di cui voleva parlarmi. Allora facevamo una panoramica delle domande che si ponevano a lui, al monastero, ma anche nella diocesi o anche su tutta l’Algeria. Questo scambio mi mostrava fino a quale punto p. Christian fosse attento a tutto quello che faceva parte della vita delle nostre comunità cristiane in Algeria e particolarmente preoccupato della vocazione propria di ciascuna persona. Ci metteva anche a parte dei suoi interventi durante le consultazioni con l’Ordine cistercense, nel corso delle quali egli difendeva la vocazione della nostra Chiesa a una presenza evangelica in una società musulmana.
Ma ciò che per noi era particolarmente commovente era la qualità dei legami umani e spirituali che i monaci avevano saputo stabilire con il loro vicinato musulmano. Avevano relazioni con la maggior parte degli abitanti del villaggio di Tibhirine, che poco a poco si erano abituati a riconoscere nei loro vicini trappisti dei fratelli in Dio, anche se loro erano musulmani e i monaci cristiani: relazioni di malati con fratel Luc, medico, il cui dispensario frequentavano, visite al fratello guardiano, Amedeo, o a un altro, per farsi compilare i moduli, lavoro in comune con fratel Christophe, incaricato del giardino, o con fratel Paul, le cui competenze di idraulico erano conosciute da tutti.
Alcuni sapevano anche condividere con fratel Christian le loro preoccupazioni spirituali e comunque tutti riconoscevano il valore della preghiera dei monaci e contemporaneamente approfittavano della sala di preghiera che il monastero aveva preparato per loro aprendo una stanza del monastero che dava sulla strada.
Quando la situazione è diventata più grave, a partire dal 1992, io mi recavo ovviamente al monastero dopo ogni nuovo avvenimento: per esempio dopo la prima visita di un gruppo armato il 24 dicembre 1993, o in occasione delle pressioni delle autorità perché i monaci lasciassero quei luoghi, o in occasione delle votazioni della comunità per decidere sul futuro della loro presenza.
A due riprese il padre abate mi chiese di ricevere singolarmente ciascuno dei monaci per verificare la libertà delle decisioni che essi prendevano di rimanere, nonostante i pericoli che circondavano il monastero.
Il loro rapimento nella notte tra il 6 e il 7 marzo fu una grande prova non solamente per la comunità cristiana, ma anche per tutta la società algerina. Tutti i nostri amici algerini ci hanno rassicurato fino alla fine, persuasi che i rapitori avrebbero rispettato la loro vita.
Dopo l’annuncio della loro morte, il 21 maggio 1996, abbiamo ricevuto moltissime testimonianze di simpatia di persone molto diverse della società algerina. Ed è stato allora che il mistero della generosità monastica di cui essi vivevano, nascosti, in una regione isolata del Titteri si è rivelato al mondo, innanzitutto attraverso il testamento di Christian e poi grazie a diverse testimonianze come quelle della famiglia cistercense o anche come quella della nostra Chiesa d’Algeria.
Tuttavia queste domande che mi pongo riguardo al film, proprio perché ho vissuto con loro tutto questo tempo, non m’impediscono d’esprimere la mia riconoscenza a tutti coloro che hanno realizzato questo capolavoro.
La vocazione della nostra Chiesa a vivere un incontro umano e spirituale con i fratelli e le sorelle algerini e musulmani, attraverso la fedeltà al Vangelo, non è mai stata così apertamente manifestata e così ampiamente scoperta al di là della nostra piccola cerchia di cristiani d’Algeria.
È un dono di Dio (e degli autori e degli attori) che capita opportunamente, proprio nel momento in cui alcuni vogliono far credere che non è possibile un futuro comune tra credenti di diverse religioni.