La basilica di Sant'Aurea ad Ostia antica e gli scavi della città: Sant’Agostino, la catechesi, la morte di Monica, il peccato e la grazia, di Andrea Lonardo
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Mettiamo a disposizione la trascrizione del II incontro, dedicato a sant’Agostino, del corso sulla storia della chiesa di Roma proposto dall’Ufficio catechistico della diocesi di Roma, tenutosi il sabato 23/5/2009, presso la basilica di Sant’Aurea e gli scavi di Ostia antica. Il calendario dei successivi incontri del corso è on-line sul sito dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it. Il testo è stato sbobinato dalla viva voce dell’autore e conserva uno stile informale. Alla relazione sono stati aggiunti alcuni passaggi chiarificatori. Le trascrizioni dei precedenti incontri sono on-line nella sezione Roma e le sue basiliche. La trascrizione del I incontro su Sant'Agostino è on-line al link La basilica di Sant'Agostino in Campo Marzio in Roma: Sant’Agostino ed il desiderio, di Andrea Lonardo e Andrea Coldani. Le foto che illustrano l’itinerario descritto in questo testo sono on-line nella Gallery Sant'Aurea e gli scavi di Ostia antica: Sant'Agostino e Santa Monica.
Il Centro culturale Gli scritti 20/10/2010
Indice
- Saluto del parroco di Sant'Aurea, padre Giovanni Gisondi
- I/ Sant'Agostino e la catechesi: il desiderio nel De catechizandis rudibus
- II/ Sant'Agostino ad Ostia e la morte di Santa Monica
- III/ Visita del borgo di Ostia
- IV/ Visita agli scavi di Ostia antica e prosecuzione della riflessione su Agostino
- IV.1/ La via Ostiense ed il decumano di Ostia
- IV.2/ Le terme di Nettuno
- IV.3/ La caserma dei vigili
- IV.4/ Il problema del male in Sant'Agostino ed il superamento del manicheismo
- IV.5/ Gli ultimi tre capitoli delle Confessioni
- IV.6/ Il teatro di Ostia antica
- IV.7/ Agostino e lo scisma donatista
- IV.8/ Il Foro di Ostia
- IV.9/ La basilica cristiana
- IV.10/ La crisi pelagiana
- Note
Saluto del parroco di Sant'Aurea, padre Giovanni Gisondi
La cattedrale di Sant’Aurea ha l’onore di aver avuto come titolare l’allora cardinale Joseph Ratzinger prima che divenisse papa Benedetto XVI. Adesso il titolare è il cardinale Sodano che è anche il decano dei cardinali. Ostia ha avuto sempre un’importanza fondamentale nella storia della Chiesa perché era alle porte di Roma e per i traffici fluviali che vi si svolgevano. Anticamente capitava che un papa poteva essere eletto senza essere ancora vescovo ed era allora il vescovo di Ostia che ordinava vescovo il papa appena eletto. La cattedrale in cui siete venuti a parlare di Sant'Agostino risale al 1483 per opera dell’architetto fiorentino Baccio Pontelli che ha progettato anche il castello di Giulio II. L’attuale chiesa è stata eretta, però, sopra una chiesa precedente, di età paleocristiana, sempre dedicata a Sant’Aurea. Aurea era una giovane donna romana che si professò cristiana, forse al tempo di Diocleziano e della sua grande persecuzione: la tradizione vuole che, dopo essere stata imprigionata, sia stata gettata in mare. Proprio in questa chiesa furono probabilmente celebrati i funerali di Santa Monica, madre di Sant'Agostino, morta il 12 novembre dell’anno 387. Il figlio Agostino era stato battezzato il 24 aprile dell’anno 387 a Milano da Sant'Ambrogio e, successivamente, erano discesi qui ad Ostia dove avevano vissuto la stupenda esperienza dell’estasi di cui parlerete. Poi Monica si ammalò e, dopo la morte, venne sepolta qui. Nel 1945, in un luogo adiacente la chiesa, è stato ritrovato un frammento della lapide sepolcrale di Monica che potrete poi osservare all’interno della chiesa, nella piccola cappella laterale. Il corpo di Santa Monica già agli inizi del quattrocento, però, era stato traslato nella chiesa di San Trifone e poi di Sant'Agostino in Campo Marzio, vicino Piazza Navona.
Nella chiesa c’è anche una lapide che ricorda la data del 14 novembre 2004 quando, in occasione del 1650° anniversario della nascita di S. Agostino, venne proprio l’allora cardinale Ratzinger a venerare le spoglie di Sant'Agostino che da Pavia furono portate a Roma, ad Ostia ed anche nella Cappella privata di Papa Giovanni Paolo II.
I/ Sant'Agostino e la catechesi: il desiderio nel De catechizandis rudibus
I.1/ Premessa su Agostino ed Ostia
Ci ritroviamo qui, per il nostro secondo incontro su Sant'Agostino. Abbiamo già parlato del suo primo passaggio da questi luoghi - non sappiamo con certezza se egli, arrivando da Cartagine, l’odierna Tunisi, sbarcò qui ad Ostia o a Porto, dov'è l'attuale aeroporto di Fiumicino - e soprattutto della sua prima permanenza romana, quando era ancora manicheo, così come del suo trasferimento a Milano e della sua conversione.
Oggi rifletteremo sul suo secondo passaggio in questi luoghi, in attesa di imbarcarsi per l'Africa, ormai cristiano e già battezzato. Giunto a Porto, non poté, infatti, imbarcarsi immediatamente, perché lo scalo portuale era sotto assedio a motivo dell'usurpatore Massimo che si era ribellato all'imperatore Teodosio che a Costantinopoli si stava preparando per affrontarlo e sconfiggerlo.
Agostino fu così costretto a stabilirsi per un certo periodo ad Ostia che era allora più tranquilla di Porto. Abitò ad Ostia per tre mesi insieme al figlio Adeodato, agli amici Evodio e Alipio ed a Monica aspettando di potersi imbarcare. Improvvisamente Monica si ammalò e morì, come vedremo fra breve. Possiamo così già immaginarli tutti qui, immaginare i loro pensieri e vederli con la fantasia nel momento dell'estremo saluto a Monica.
Prima, però, di riprendere la lettura delle Confessioni dal punto in cui ci eravamo arrestati, cioè il battesimo a Milano, ci soffermeremo su di un vero e proprio trattatello che Agostino ha scritto sul tema della catechesi. Vorrei mostrare come il tema del desiderio e del piacere, che è centrale nelle Confessioni, è per Agostino anche la giusta chiave di lettura quando deve affrontare la questione della catechesi ed i particolare l'annunzio della fede a coloro che vogliono diventare cristiani.
I.2/ Il De catechizandis rudibus
Vale la pena ricordare subito un'espressione delle Confessioni per aprire questa riflessione sulla visione agostiniana della catechesi: «In verità nutre l'anima solo ciò che la rallegra» (Confessioni XIII,27.42). Agostino, parlando della maturazione della fede, ricorda come l'anima si nutra scoprendo ciò che la rallegra. Aveva sperimentato, infatti, che la fede si era fatta strada in lui man mano che egli aveva capito come solo in essa era la vera pace, la vera beatitudine, il compimento del desiderio umano.
Ora avvenne che, circa nell'anno 400, quando già Agostino era vescovo, si rivolse a lui un diacono, di nome Deogratias, chiedendogli lumi su come svolgere il servizio di catechista. Non possediamo le domande di Deogratias, anche se esse appaiono indirettamente dalle risposte che Agostino gli porge - ed anzi qualche studioso ha ipotizzato che Deogratias non sia una persona concreta, ma rappresenti tutti i catechisti che Agostino ha in mente, così come il Teofilo del vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli potrebbe essere sia un personaggio concreto, sia qualsiasi “amico di Dio”.
La risposta di Agostino a Deogratias è un piccolo trattatello che reca il titolo De catechizandis rudibus cioè “Sui principianti - sui 'rudi' - che devono ricevere la catechesi”. Certamente Agostino, che amava scrivere, volle in quel testo non solo rispondere ad una richiesta concreta e contingente, ma anche aiutare ogni catechista a capire bene che cosa è la catechesi. Sappiamo con certezza, infatti, che è veramente esistito un diacono Deogratias, perché il suo nome risulta da altre lettere di Agostino, ma probabilmente il santo di Ippona rispondendo a lui ha voluto scrivere qualcosa che fosse utile anche per altri.
È interessante che, dal punto di vista cronologico, il De catechizandis rudibus si colloca proprio negli anni in cui Agostino scrive le Confessioni - gli studiosi agostiniani collocano l'opera autobiografica intorno all'anno 400. Ed è evidente che la riflessione sulla sua vita che egli sta elaborando influenza il suo modo di vedere la catechesi ed i suoi problemi. Come per le Confessioni, anche qui ci limiteremo a qualche cenno su questo piccolo trattato, invitando tutti a leggere per intero il testo e ad approfondirlo.
Il De catechizandis rudibus comincia così: «Mi hai chiesto, caro fratello Deogratias, di scriverti qualcosa che possa esserti utile sulla catechesi da fare a chi è nuovo nella fede. Infatti, come hai detto, spesso a Cartagine, dove sei diacono, ti sono condotte persone da iniziare in tutto e per tutto alla fede cristiana, per il fatto che hai fama d’essere un ottimo catechista, per la dottrina che metti in opera nell’esporre la fede e per il fascino che eserciti nel porgere il discorso» (De catechizandis rudibus 1.1).
Da queste prime parole appare subito evidente che Deogratias era catechista di persone da iniziare “in tutto e per tutto”: i suoi “catecumeni” erano cioè persone non ancora battezzate, certamente di provenienza pagana. Erano persone che non sapevano niente del cristianesimo anche se erano state incuriosite, attratte dal vangelo; forse avevano degli amici che erano diventati cristiani e volevano camminare con loro. Volevano diventare cristiani ma mancavano loro i “rudimenti”, gli elementi fondamentali.
Sapete bene che la parola “catecumeno” è la forma medio-passiva del verbo “catecheo” e vuol dire “coloro che ricevono la catechesi”, mentre il termine “catechista” è la forma attiva della stessa radice e significa “colui che offre la catechesi”. Non c'è niente di umiliante in questo, bensì la semplice costatazione che la fede cristiana non emerge come qualcosa che è già nell'uomo, bensì proviene storicamente dal Cristo e dalla chiesa che se ne fa annunciatrice. Per questo non si può avere accesso alla fede se non come “catecumeni”, come persone che si aprono all'azione del Cristo e della sua chiesa. Nella Chiesa da sempre i catechisti si mettono a disposizione di persone che devono essere iniziate “in tutto e per tutto”.
Notate fin dall'inizio anche una duplice dimensione della catechesi che Agostino sottolinea: «Hai fama d’essere un ottimo catechista, per la dottrina che metti in opera nell’esporre la fede e per il fascino che eserciti nel porgere il discorso».
Deogratias è subito lodato perché sa bene quello che dice, perché conosce bene la fede che proclama, ma anche perché la testimonia in modo affascinante, in maniera che colpisca il cuore, che tocchi la mente, che convinca.
Agostino, come abbiamo detto, è stato un grande amante della parola e non ha mai smesso questo amore, nemmeno quando si è convertito, anzi, si potrebbe dire, lo ha accresciuto. Anche nel parlare della catechesi egli riflette sull’importanza dei contenuti, della dottrina che le parole debbono padroneggiare e sul fascino con cui la parola persuade, non seducendo, bensì motivando.
Ma Agostino ricorda subito che tenere insieme la chiarezza di ciò che si dice ed il fascino con cui lo si dice non è cosa facile:
«Anche a me quasi sempre i discorsi che faccio non piacciono dal momento che è mio ardente desiderio farne altri migliori: e molte volte li gusto interiormente prima di cominciare a svilupparli con il suono delle parole; se poi mi riescono inferiori rispetto a quelli che avevo concepito dentro di me, mi rattristo perché la lingua non è in grado di corrispondere al mio sentire profondo. Vorrei infatti che chi mi ascolta vedesse con la mente ciò che io vedo; invece mi accorgo di non esprimermi in modo da riuscire nell’intento, soprattutto perché la visione pervade l’animo, per così dire, con la rapidità di un baleno, mentre l’espressione è tarda, prolissa e molto diversa»(De catechizandis rudibus 2.3).
Vedete come Agostino sottolinea che ciò che egli dice, prima lo ha “gustato”. La catechesi nasce sempre dalla profonda convinzione che ciò che si propone agli altri è buono e bello, che è la verità della vita. Talvolta, quando si parla dei metodi della catechesi sembra quasi di percepire un atteggiamento opposto, come se l'annunzio della catechesi fosse noioso e banale e servissero allora dei mezzucci per rendere attraente una cosa che non lo è. No! La catechesi attrae, perché ciò che propone è straordinario e di questo debbono essere convinti per primi i catechisti. Non dobbiamo rendere bello un “prodotto” scadente; se così fosse sarebbe più onesto smettere di parlare di Cristo, perché sarebbe un inganno, sarebbe un “vangelo” che in realtà è una “triste notizia”. Invece, proponiamo la fede solo perché abbiamo “gustato” la bellezza e la grandezza di Cristo e sappiamo bene che senza la sua presenza la vita dell'uomo è mortificata e impoverita.
Ma avete ascoltato come Agostino subito dice che talvolta, pur avendo gustato profondamente le cose, egli sentiva di non riuscire poi ad esprimere pienamente: «se poi [le espressioni che uso] mi riescono inferiori rispetto a quelli che avevo concepito dentro di me, mi rattristo perché la lingua non è in grado di corrispondere al mio sentire profondo».
Agostino ricorda, allora, che si comunica non solo con le parole, ma che anche lo stile del catechista dice molto della sua gioia in ciò che annunzia. Infatti - spiega - anche se qualcuno non conosce la lingua di un altro, può percepire lo stesso dall'espressione del suo volto se egli è triste o felice o arrabbiato: «Di fatto la collera è designata con un termine in latino, con un altro termine in greco e con altri termini ancora in altre lingue. Ma l’espressione del viso di un uomo adirato non è né greca né latina. Pertanto se uno dice: Iratus sum (Sono adirato), non tutti lo capiscono, ma solo i latini; al contrario, se la passione di un animo in collera si manifesta sul volto e ne cambia l’espressione, tutti si accorgono di trovarsi di fronte ad un uomo adirato» (De catechizandis rudibus 2.3).
L’espressione del volto è importante a tal punto che la gioia di un catechista dovrebbe essere evidente anche a chi non capisce precisamente le parole che vengono dette. Alcune persone potrebbero non capire bene le parole della fede, ma percepire subito dallo sguardo, dall’espressione, come il vangelo sia sorgente di gioia in chi lo annunzia. Capite che qui Agostino non sta parlando di un trucco, di una tecnica, come se il catechista dovesse sorridere come un cretino, mentre il vangelo gli reca tristezza. È questione invece dell'essenza stessa del vangelo: esso si manifesta rinnovando nel bene la vita del mondo. Ma questo vuol dire certamente che un catechista scontroso, irascibile, triste, musone, mostra con il suo stesso sguardo, con le parole che usa per ferire e non per incoraggiare, che il vangelo, in realtà, per lui non è “vangelo”.
Agostino spiega poi ancora più chiaramente: «Indubbiamente siamo ascoltati molto più volentieri allorché anche noi traiamo diletto dal parlare, giacché il filo del nostro discorso vibra della gioia stessa (hilaritas) che proviamo e riesce più facile e più gradito. Per ciò non è cosa difficile raccomandare da dove e fino a dove si debba narrare ciò che è insegnato come materia di fede; o come si debba variare la narrazione di modo che sia ora più breve, ora più lunga, ma sempre risulti compiuta e perfetta; e quando occorra valersi di quella più breve e quando di quella più lunga. In quali modi piuttosto ciò debba essere fatto perché il catechista insegni con gioia (infatti, quanto più sarà pieno di gioia tanto più riuscirà accetto presso chi lo ascolta): è questo il massimo impegno a cui occorre dedicarsi. Ed in proposito la regola è evidente e nota. Se Dio, infatti, ama chi dispensa con gioia i beni materiali, quanto più amerà chi dispensa in egual modo i beni spirituali?» (De catechizandis rudibus 2.4).
Agostino mette così in luce che la prima caratteristica del catechista è la hilaritas, la gioia di essere credente che traspare in lui: egli propone la fede cristiana perché sa che senza di essa non si può essere veramente felici. Il catechista deve essere convinto di questo, che è proprio il vangelo ciò che serve ai suoi catecumeni, siano essi bambini, ragazzi o adulti, per diventare felici. Serve loro come l'elemento necessario ed indispensabile per “gustare” la vita. Anche se a volte il catechista non si sente all’altezza del suo ruolo, gli altri comunque, se questo suo “aver gustato” è vero, percepiranno che quella persona è fiera di essere catechista e di ciò che sta trasmettendo.
Il De catechizandis rudibus continua poi: «Quanto poi al fatto che una tale gioia sia presente al tempo opportuno, dipende dalla misericordia di Colui che ci comanda [di averla]» (De catechizandis rudibus 2.4). Questa gioia, cioè, non dipende dalle nostre forze, bensì dalla grazia e dall’amore che Dio ci dà. La contentezza cristiana non è semplicemente un fatto psicologico, ma dipende dal fatto che Dio ci ha visitati, dipende dalla sua presenza nella nostra vita. Ma certamente questa grazia trasforma anche la nostra psiche.
Dopo aver parlato della hilaritas, di questo atteggiamento fondamentale del catechista che ha “gustato” l'incontro con Dio, Agostino prosegue affrontando la questione dei contenuti che la catechesi propone. Evidentemente Deogratias gli aveva chiesto anche questo: di cosa debbo parlare? Su cosa mi debbo soffermare? Cosa, invece, posso trascurare di dire?
Agostino risponde: «L’esposizione è compiuta quando la catechesi comincia dal versetto: In principio Dio creò il cielo e la terra e prosegue fino al tempo presente della Chiesa» (De catechizandis rudibus 3.5).
Merita qui soffermarsi a sottolineare come la catechesi, secondo Agostino, non deve parlare solo di Cristo. Anzi Cristo stesso non sarebbe comprensibile se non si parlasse del Dio creatore e della chiesa per la quale Gesù è morto e risorto.
Nella narrazione biblica della storia della salvezza - dice Agostino - bisogna partire dalla creazione e giungere alla chiesa. Queste sue affermazioni sono molto attuali. Proprio l'allora cardinal Ratzinger, nelle famose conferenze sulla catechesi di Lione e Parigi del 1982[1], affermò: «Il primo punto è quello della nostra fede in Dio creatore e nella creazione, come elementi del simbolo di fede della Chiesa. Di tanto in tanto compare il timore che una troppo forte insistenza su tale aspetto della fede [la creazione] possa compromettere la cristologia. Considerando qualche presentazione della teologia neoscolastica, questo timore potrebbe sembrare giustificato. Oggi, tuttavia, è il timore inverso che mi sembra giustificato. La emarginazione della dottrina della creazione riduce la nozione di Dio e, di conseguenza, la cristologia. Il fenomeno religioso non trova, allora, altra spiegazione al di fuori dello spazio psicologico e sociologico; il mondo materiale è confinato nel campo di indagine della fisica e della tecnica. Ora, soltanto se l’essere, ivi compresa la materia, è concepito come uscito dalle mani di Dio e conservato nelle mani di Dio, Dio è anche, realmente, nostro Salvatore e nostra Vita, la vera Vita».
Gesù è il vero volto di quel Dio che ha creato il mondo. Gesù è la rivelazione di quel Dio, altrimenti non avrebbe alcuna importanza e significato.
Poi Agostino prosegue, presentando a Deogratias i contenuti della fede: «Non dobbiamo per questo citare a memoria, nel caso li si conosca parola per parola, tutto il Pentateuco, e tutti i libri dei Giudici, dei Re e di Esdra, e tutto il Vangelo e gli Atti degli Apostoli; neppure dobbiamo narrare e spiegare tutto ciò che è contenuto in questi libri esponendolo con nostre parole. Il tempo non lo consente né alcuna necessità lo esige. Dobbiamo, invece, abbracciare l’insieme per sommi capi e in linea generale, in modo da scegliere gli eventi più mirabili, che si ascoltano con maggior diletto e che d’altra parte si situano nelle articolazioni cruciali della storia, non mostrandoli confusamente nella loro scrittura materiale, per poi sottrarli subito alla vista; al contrario conviene, indugiandovi alquanto, chiarirli e spiegarli e offrirli all’attenzione degli ascoltatori perché li considerino e se ne meraviglino. Al resto possiamo accennare con rapide battute inserendolo nel contesto. In tal modo gli elementi che vogliamo mettere soprattutto in evidenza emergono di più per la minor rilevanza degli altri; né stancamente giunge a possederli chi desideriamo stimolare con la nostra esposizione storica, né rimane confusa la mente di chi dobbiamo ammaestrare con il nostro insegnamento» (De catechizandis rudibus 3.5).
Da queste considerazioni emerge che la catechesi deve seguire la linea biblica, ma non in maniera unilaterale, dimenticandosi dell'importanza di quei punti che la fede della chiesa ha colto nella Scrittura e che sono, ad esempio, evidenziati nel Credo. È importante, insomma, sia l'esposizione storica che la sintesi teologica[2].
Il catechista deve avere presenti i punti essenziali senza perdersi in particolari che non sono affatto di aiuto per arrivare al cuore della catechesi. Paradossalmente, proprio con i rudes, con i principianti della fede, con quelli che sono da iniziare in tutto e per tutto, una esasperata presenza della Bibbia potrebbe non giovare al loro cammino. Se torniamo con la mente alle Confessioni, ricorderete come Agostino non riusciva a leggere il profeta Isaia, ma era interessato alla questione della creazione, dell'origine del male, del desiderio di verità che abita il cuore dell'uomo.
In un passaggio molto significativo delle Confessioni Agostino spiega che è interessato al testo biblico, non in quanto testo letterario, bensì per sapere se è vero o meno che Dio ha creato il mondo e cosa questo significhi: «Fammi udire e capire come in principio creasti il cielo e la terra. Così scrisse Mosè, così scrisse, per poi andarsene, per passare da questo mondo, da te a te. Ora non mi sta innanzi. Se così fosse, lo tratterrei, lo pregherei, lo scongiurerei nel tuo nome di spiegarmi queste parole, presterei le orecchie del mio corpo ai suoni sgorganti dalla sua bocca. Se parlasse in ebraico, invano busserebbe ai miei sensi e nulla di lì giungerebbe alla mia mente. Se invece in latino, saprei che dice; ma come saprei se dice il vero? E anche se lo sapessi, da lui lo saprei? Dentro di me piuttosto, nell'intima dimora del pensiero la verità, non ebraica né greca né latina né barbara, mi direbbe, senza strumenti di bocca e di lingua, senza suono di sillabe: "Dice il vero". E io subito direi sicuro, fiduciosamente a quel tuo uomo: "Dici il vero"» (Confessioni XI,3.5).
Qui è evidente che l'interesse di Agostino - così come l'interesse di ogni catecumeno - non è tanto quello di imparare l'ebraico, ma di sapere cosa dice di vero il testo di Genesi in riferimento alla creazione. Alla fine è questa la questione più importante: cosa dice di nuovo alla vita la fede nella creazione, rispetto all'ipotesi che non ci sia altro che la materia all'origine di tutto. C'è all'origine della creazione una volontà personale libera oppure due divinità creatrici l'una del bene e l'altra del male, oppure il nulla? E che visione della vita ne deriva? Quale gioia proietta questo sull'esistenza? Da queste questione la catechesi deve partire secondo Agostino.
In questa riflessione sull'essenziale che bisogna sempre avere presente per non disperdersi in mille rivoli secondari, Agostino arriva fino al cuore di ciò che veramente conta:
«Indubbiamente in tutte le cose non solo occorre che non perdiamo di vista il fine del precetto, vale a dire la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera (ad esso dobbiamo ricondurre tutto ciò che diciamo), ma occorre pure che verso quel medesimo precetto sia avviato e diretto lo sguardo di colui che ammaestriamo con la parola. Non per altro, infatti, tutto quello che leggiamo nelle Sacre Scritture è stato scritto, prima della venuta del Signore, se non per assicurare la sua venuta e per prefigurare la Chiesa futura, cioè il popolo di Dio in mezzo a tutte le genti, che è il suo corpo. […] Ora, qual è il motivo più grande della venuta del Signore se non quello di mostrare da parte di Dio l’amore che ha per noi, raccomandandocelo sommamente? Perché mentre eravamo ancora suoi nemici, Cristo è morto per noi. E per ciò fine del precetto e pienezza della legge è la carità, così che pure noi ci amiamo l’un l’altro e, come egli ha dato la propria vita per noi, anche noi diamo la nostra per i fratelli; se un tempo si provava riluttanza ad amarlo, almeno ora non la si deve più provare nel rendere l’amore a quel Dio che per primo ci ha amati e non ha risparmiato il suo unico Figlio, ma lo ha dato per noi tutti» (De catechizandis rudibus 3.6; 4.7).
Eccoci al cuore del messaggio cristiano e della catechesi. Agostino afferma che il cuore della catechesi è l’amore con il quale Dio ci ha amato: la catechesi deve condurre a questo cuore e mostrare che dall'accoglienza di questo amore nasce tutta la nostra risposta a lui. La risposta dell'uomo a Dio è la fede che è insieme carità verso i fratelli. Rileggendo queste parole mi tornava in mente uno dei folgoranti pensieri di Blaise Pascal: «Tutto ciò che non va diritto alla carità è figura. L'unico oggetto della Scrittura è la carità» (B. Pascal, Pensieri, ed. Chevalier n. 583), è cioè solo preparazione, solo immagine di ciò che è invece centrale.
Agostino tornerà infinite volte nei suoi discorsi e nei suoi scritti sul tema della carità, sintetizzando in essa anche tutta la vita cristiana ed il comportamento morale del credente con un'espressione altrettanto folgorante: «Dilige, et fac quod vis!», cioè«Ama e fa’ ciò che vuoi!» (Trattati sulla I lettera di Giovanni, 7,8) . Si noti che ciò che questa espressione spesso equivocata vuol dire non è che chi ama può fare allora ciò che gli passa per la testa, bensì piuttosto che chi ama è vincolato per sempre al bene delle persone che ama!
Parlando dell'amore di Dio come centro della rivelazione Agostino sottolinea così il primato di Dio: è lui che crea, che ci dona il Salvatore, che ci dà la grazia, che ci accoglie nella Chiesa.
Poi, dalle questioni teologiche e contenutistiche più alte della catechesi, subito Agostino ridiscende agli argomenti più semplici: «Lo vediamo anche negli amori scandalosi e sordidi: chi vuol essere riamato non fa altro che manifestare e ostentare, per mezzo di ogni prova a sua disposizione, quanto ami. […] E se ciò accade anche negli amori turpi, quanto più accade nell’amicizia!» (De catechizandis rudibus 4.7). Questo è l'amore, questo è l'amore umano e e questo è l'amore di Dio! È immediato il parallelo che Agostino propone fra gli “amori” disonesti e l'“amicizia” di Dio con noi. Egli ci attira con il suo amore.
Da questo centro, Agostino deduce, come abbiamo ascoltato, l'unità della Scrittura e del disegno salvifico: «Non per altro tutto quello che leggiamo nelle Sacre Scritture è stato scritto, prima della venuta del Signore, se non per assicurare la sua venuta e per prefigurare la Chiesa futura». La Bibbia non è solo composta di molti libri, è soprattutto testimone di un unico disegno di amore, che viene preparato, realizzato e portato a perfezione: «Se dunque Cristo è venuto perché l’uomo conoscesse quanto Dio lo ami e lo sapesse per infiammarsi d’amore verso chi per primo lo ha amato e per amare il prossimo secondo il precetto e l’esempio di lui che si è fatto prossimo dell’uomo amandolo quando non gli era vicino, ma andava errando da lui lontano; se tutta la Scrittura divina che è stata redatta prima, lo è stata per preannunciare la sua venuta se ciò che in seguito è stato tramandato per iscritto e confermato dall’autorità divina narra di Cristo e raccomanda l’amore, è evidente allora che in quei due precetti riguardanti l’amore di Dio e del prossimo si raccolgono non solo tutta la legge e i profeti (la sola Scrittura esistente quando il Signore diceva quelle cose), ma anche tutti i restanti libri delle lettere divine, composti più tardi per la salvezza degli uomini e tramandati ai posteri. Per ciò nell’Antico Testamento è adombrato il Nuovo e nel Nuovo Testamento è reso manifesto l’Antico» (De catechizandis rudibus 4.8).
Qui viene spiegato in maniera sintetica e splendida il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. Nell’Antico Testamento Dio ha presentato sotto forma di un ombra che già mostrava i contorni della realtà del Nuovo Testamento e nel Nuovo ha reso manifesto l’Antico, lo ha fatto brillare in tutta la sua luce. Proprio l’amore di Dio che ha creato l'universo per donarci poi il suo Figlio è la chiave per comprendere l’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. Cos’è che tiene unito l’Esodo, il Levitico, i Vangeli, l’Apocalisse? È l’amore di Dio che guida la storia: nell'Antico c'è già l'ombra, non pienamente chiara, ma reale, del vangelo. E nel vangelo è ancora presente l'antica alleanza che ora risplende in piena luce. Tutto, sia la preparazione, che il compimento, è in relazione al grande dono della croce con cui Cristo salva.
Il trattato agostiniano sulla catechesi conclude questa riflessione sull'unità del disegno salvifico divino - e conseguentemente della Bibbia - con una affermazione resa famosissima dal Prologo della Dei Verbum: «Pertanto, dopo esserti proposto un tale amore come fine a cui orientare tutto ciò che dici, esponi ogni cosa in modo che chi ti ascolta ascoltando creda, credendo speri e sperando ami»(De catechizandis rudibus 4.8).
Si deve notare qui che, se è vero che tutto si compie nell'amore, questo amore non può raggiungerci se non tramite l'ascolto che genera la fede che genera a sua volta la speranza con la quale nasce l'amore. Solo il rapporto con l'ascolto di Dio che parla, con la fede e la speranza che nascono dalla sua rivelazione, rende possibile l'amore.
L'amore è il culmine della vita cristiana, ma non può esistere da solo, senza le altre virtù e senza l'ascolto di Dio che apre i cuori. La catechesi non dovrà mai dimenticare questo per non vedere banalizzato l'annunzio dell'amore che si ridurrebbe, impoverito delle altre realtà, ad un mero sentimento vuoto.
Il De catechizandis rudibus passa poi ad illuminare Deogratias su di un'ulteriore questione. Il diacono cartaginese aveva domandato ad Agostino come comportarsi dinanzi a persone che venivano alla catechesi con motivazioni non mature, addirittura contrarie allo spirito evangelico: «In verità accade molto raramente, anzi mai, che qualcuno venga con l’intenzione di diventare cristiano senza essere toccato nel profondo da un certo timore di Dio. Se infatti ha intenzione di diventare cristiano perché attende qualche vantaggio dalle persone che gli stanno intorno, alle quali ritiene altrimenti di non essere gradito, oppure perché vuol evitare danni da altre, dalle quali teme offesa o inimicizia, questi non vuole diventare veramente cristiano quanto piuttosto fingere di esserlo. Giacché la fede non è espressa da un corpo che si prostra, ma da un animo che crede. Spesso però, tramite l’opera del catechista, subentra la misericordia di Dio, cosicché il candidato, colpito dal discorso, vuole ormai diventare ciò che aveva deciso di fingere: quando un tale desiderio abbia preso in lui il sopravvento, allora possiamo ritenere che egli sia mosso da motivi genuini» (De catechizandis rudibus 5.9).
Agostino fa capire con queste parole che anche allora come oggi tanti che vengono alla catechesi non hanno sempre motivazioni pure, ma, nonostante questo, egli invita il catechista a non rifiutare chi viene alla catechesi e a non scandalizzarsi di lui. Evidentemente alcuni si avvicinavano alla chiesa perché avevano paura di essere considerati differenti in un mondo in cui la maggioranza era ormai cristiana, oppure cercavano di ottenere dei favori da funzionari già cristiano, oppure si facevano cristiani quando divenivano anziani ed avevano paura della morte che si avvicinava.
Il catechista allora, piuttosto che lamentarsi di motivazioni non mature, deve lavorare, insieme alla grazia di Dio, per fare in modo che quella persona, non prima della catechesi, ma attraverso di essa, purifichi le sue intenzioni. Solo questo atteggiamento permetterà alla catechesi di conservare il suo carattere popolare, la sua realtà di proposta aperta a tutti, impedendole di divenire un evento per ristrette élites.
Ma Agostino è consapevole che non solo coloro che si accostano alla catechesi sono imperfetti: lo sono anche coloro che da tempo appartengono alla chiesa. Il De catechizandis rudibus affronta allora il problema dell’effetto che hanno gli scandali della chiesa sui catecumeni. La linea proposta da Agostino non è tanto quella di rispondere colpo su colpo ad ogni accusa che viene portata, bensì piuttosto quella di preparare i futuri cristiani perché siano consapevoli che la chiesa non sarà mai costituita da persone “perfette” - vedremo poi che questa sarà la posizione che egli opporrà ai donatisti che volevano una chiesa costituita da un ristretto gruppo di puri. Agostino ritiene che sia necessario che la catechesi avverta per tempo che il male tocca anche i cristiani, preparando tutti al desiderio di essere cristiani migliori, ma senza idealismi eccessivi.
«È necessario ammaestrare e sostenere la debolezza umana contro le tentazioni e gli scandali, esistenti sia all’esterno che all’interno della Chiesa; all’esterno contro i pagani, gli ebrei e gli eretici, all’interno contro la paglia presente nell’aia del Signore. Ciò va fatto non per discutere contro ogni singola categoria di questi uomini stravolti o per confutare con adeguate argomentazioni le loro opinioni erronee, ma per dimostrare, nel breve tempo a disposizione, che così era stato predetto; e inoltre per sottolineare quale sia l’utilità delle tentazioni per la formazione dei fedeli e quale rimedio si possa cogliere nella pazienza di Dio che ha disposto di permettere tali tentazioni fino alla fine. Quando poi il candidato è ammaestrato nei confronti di quei dissennati le cui schiere riempiono materialmente le chiese, gli si deve ricordare in modo breve e conveniente i precetti di un comportamento cristiano e onesto, al fine che non si lasci adescare così facilmente dagli ubriaconi, dagli avari, dai frodatori, dai giocatori d’azzardo, dagli adulteri, dai fornicatori, dagli amanti degli spettacoli, dai propinatori di rimedi sacrileghi, dagli incantatori, dagli astrologhi, dagli indovini di qualsiasi arte vana e malefica e da altri individui dello stesso genere, e non creda di poter fare altrettanto impunemente, perché vede molti che, cristiani di nome, prediligono, operano, difendono, consigliano tali cose e inducono altri a compierle» (De catechizandis rudibus 7.11).
Si noti qui come Agostino, nel suo realismo, ricorda che tali persone “riempiono materialmente le chiese” e con essi bisogna convivere, aiutandoli a divenire migliori.
Il De catechizandis rudibus ricorda poi che venivano alla catechesi dei principianti non solo persone di umili condizioni, ma anche intellettuali e persone molto preparate. Agostino vuole che la catechesi sia consapevole della base di riflessione che queste persone hanno già maturato: «Non bisogna dimenticare che, se viene da te per ricevere la catechesi una persona coltivata negli studi liberali, che già abbia preso la decisione di farsi cristiano e venga allo scopo appunto di diventarlo, è del tutto improbabile che non conosca molti brani delle nostre Scritture e delle nostre opere: essendone già a conoscenza, questi viene soltanto per prender parte ai misteri cristiani. Infatti le persone di tal genere sono solite considerare ogni cosa con cura e comunicare ed esaminare ciò che sentono nell’animo, con quanti possono, non nel momento stesso in cui divengono cristiani, ma in precedenza. Pertanto con costoro bisogna esser brevi, senza insistere in maniera fastidiosa su argomenti che già conoscono, ma accennandovi con discrezione» (De catechizandis rudibus 8.12).
Ricorda poi l'importanza della preghiera di intercessione del catechista per i suoi discepoli: «si devono dire molte più cose a Dio per lui, che a lui di Dio» (De catechizandis rudibus 13.18). Il catechista è certamente colui che parla di Dio, ma deve saper portare poi nella preghiera tutte le persone di cui è catechista.
Nel prosieguo dell'esposizione torna poi a ricordare come la catechesi non debbia essere prolissa o tediosa, perché può giovare solo attraverso la convinzione che genera: «Spesso accade pure che chi inizialmente ascoltava con piacere, stanco di ascoltare o di stare in piedi, apra la bocca non per lodare, ma per sbadigliare, e dia a vedere, benché involontariamente, di voler andar via. Appena ci si accorge di ciò, è bene ravvivare la sua attenzione col dire qualcosa insaporito da una gioia composta e conveniente all’argomento trattato; o qualcosa che susciti meraviglia e stupore o commozione e pianto; e più, qualcosa che lo riguardi in prima persona, in modo che, punto sul vivo, egli ridesti il suo interesse; tuttavia la cosa non deve urtare, con qualche espressione aspra, la riservatezza di chi ascolta, ma piuttosto conquistarne il favore con il tono familiare (De catechizandis rudibus 13.19). Il catechista deve insomma interessare sempre chi ascolta e saper mostrare il rapporto che esiste tra Dio e la vita che si vive nella concretezza dell'esistenza.
Fra i consigli che offre al diacono Deogratias c'è anche quello di preoccuparsi della dignità del luogo della catechesi, perché sia appropriato e non scomodo: «Molto opportunamente in alcune chiese d’oltremare, non solo i vescovi parlano al popolo stando seduti, ma pure il popolo dispone di sedili» (De catechizandis rudibus 13.19), notazione che fa capire come nelle chiese d'Africa spesso questo non fosse scontato. Questo ricorda a noi catechisti moderni l'importanza della cura dei luoghi, della disposizione delle sedie e degli oggetti, perché il luogo dell'incontro sia confortevole e bello, adatto all'esperienza che vogliamo proporre.
Infine, offre un'ultima riflessione a Deogratias, invitandolo ad avere un itinerario chiaro in mente, perché tale chiarezza brilli poi nel cammino che egli propone nella catechesi, ma lo esorta anche a saper allontanarsi da quanto stabilito, se la situazione concreta lo richiedesse: «Dobbiamo dare un ordine alle cose da sviluppare secondo le nostre capacità: se le abbiamo potute condurre a termine nel modo che avevamo stabilito, rallegriamoci per il fatto che non a noi, ma a Dio è piaciuto compierle così. Se poi, al contrario, interviene una qualche altra necessità a causa della quale l’ordine da noi stabilito è perturbato, pieghiamoci docilmente, senza abbatterci, in modo da far nostro l’ordine che Dio ha preferito a quello da noi concepito. Infatti è più giusto che noi seguiamo la volontà di Dio piuttosto che Dio segua la nostra. Del resto l’ordine delle cose da fare, che vogliamo mantenere secondo quanto deciso, è plausibile quando vi abbiano il primo posto le cose più importanti» (De catechizandis rudibus 13.19).
Vedete bene come Agostino, a partire dalla sua esperienza di fede meditata e riflessa, sia in grado di aiutare Deogratias a partire da quell'essenziale “aver gustato” la relazione con Dio, senza trascurare quei dettagli concreti che esprimono realmente l'amore per le persone che la cura della catechesi testimonia.
II/ Sant'Agostino ad Ostia e la morte di Santa Monica
Veniamo ora alla seconda parte di questo nostro incontro, tornando a rileggere le Confessioni dal punto in cui le abbiamo lasciate la scorsa volta, soffermandoci oggi in particolare sul racconto della morte di Monica a Ostia. Quando poi, tra breve, cammineremo tra gli scavi della città cercheremo di immaginare, come è abitudine di questo nostro corso, qui o lì Agostino e sua madre mentre camminano per la città - chissà quante volte avranno attraversato il cardo e il decumano nei giorni della loro permanenza nella cittadina - ed ancor più mentre parlano fra di loro della loro vita e riflettono sulla vita eterna, affacciati ad una finestra che le moderne ricerche non ci permettono di individuare con precisione.
Agostino, dunque, dopo il battesimo, aveva deciso di tornare in Africa per condurre una vita monastica insieme ai suoi amici. Non era ancora sacerdote. Raggiunta Roma, non potendo imbarcarsi per le vicende già menzionate, prese in affitto una casa ad Ostia, perché il porto di Ostia era allora molto meno importante di quello di Porto e quindi garantiva al suo gruppo una vita più tranquilla: «Si avvicinava già il giorno in cui sarebbe uscita da questa vita. Tu lo conoscevi, mentre noi lo ignoravamo. Allora accadde, certamente secondo i disegni occulti della tua provvidenza, che ci trovassimo noi due soli appoggiati a certa finestra, da cui si vedeva il giardino che circondava la casa dove abitavamo» (Confessioni IX,10.23). Noi non sappiamo quando moriremo e quando moriranno i nostri cari - afferma Agostino - perché solo Dio conosce i tempi e i momenti e questo ci deve bastare.
«Eravamo presso Ostia Tiberina dove, lontani dalla folla, dopo la fatica di un lungo viaggio raccoglievamo le forze per la traversata sul mare» (Confessioni IX,10.23).
Sono proprio le Confessioni a dirci così che si erano recati a Porto, dove ora sorge Fiumicino, da dove partivano le grandi navi. Di quel grande porto, il Porto di Claudio e Traiano, è ancora visibile, vicino all’aeroporto il bacino esagonale inserito oggi in una riserva naturale e gli scavi degli edifici portuali circostanti: gli imperatori Claudio e Traiano avevano fatto scavare un grande bacino artificiale per rendere più facile l'approdo ed avevano anche realizzato un canale, Fiumicino appunto, che immetteva nel Tevere, delimitando così quella che oggi è Isola sacra, un'isola quindi artificiale anch'essa.
Nella quiete di Ostia avvenne appunto il dialogo fra Agostino e la madre che il Libro IX delle Confessioni ci riporta: «Conversavamo, dunque, soli con molta dolcezza, dimenticando il passato e protesi verso ciò che sta innanzi (Fil 5,13), in presenza della verità che tu sei, ci chiedevamo cercando tra noi quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, vita che né occhio vide. né orecchio udì, né mai sorse in cuore dell’uomo (1 Cor 2,9)» (Confessioni IX,10.23).
«Il discorso ci portò a questa conclusione: la gioia dei sensi terreni, per quanto possa essere grande e per quanto preziosa nella luce del mondo, non è degna di paragone, anzi neppure di menzione rispetto al godimento di quell’altra vita. E innalzandoci con affetto più ardente verso l’Essere stesso, attraversammo grado per grado tutti gli esseri corporei e il cielo stesso da cui brillano sopra la terra il sole, la luna e le stelle (Cumque ad eum finem sermo perduceretur, ut carnalium sensuum delectatio quantalibet in quantalibet luce corporea prae illius vitae iucunditate non comparatione, sed ne commemoratione quidem digna videretur, erigentes nos ardentiore affectu in id ipsum perambulavimus gradatim cuncta corporalia et ipsum caelum, unde sol et luna et stellae lucent super terram)»(Confessioni IX,10.24).
Vedete come torna qui ancora una volta il tema del piacere, del diletto (in latino Agostino usa qui i termine delectatio). Le Confessioni tornano a dire che sono un grande “diletto”, che sono un grande piacere, tutte le gioie dei sensi terreni: il sole, la primavera, la luce, l’acqua, il mare, l’amicizia, l’amore, i figli, la cultura…
Malgrado tutto ciò sia un grande diletto, però, non c’è paragone tra tutto questo e il piacere di Dio stesso che è al di sopra di tutto e che tutto ha creato.
«E inoltre salivamo dentro di noi, pensando, chiamando e ammirando le opere tue, e venimmo alle nostre menti ma trascendemmo anche queste, per attingere la regione dell’abbondanza che non viene mai meno, dove pasci Israele in eterno con il cibo della verità. Là la vita è la Sapienza, mediante cui sono fatte tutte queste cose, quelle che furono e quelle che saranno; ma essa non conosce nessun divenire, bensì è come fu e così sarà sempre. O meglio: l’essere che è stato e l’essere che sarà non esistono in essa, ma soltanto l’essere, perché è eterna: l’essere stato e l’essere futuro non è l’eterno. E mentre parlavamo, pieni di desiderio, della sapienza, la toccammo lievemente con uno slancio totale del cuore. Sospirammo e lì lasciammo avvinte le primizie dello spirito (Rm 8,23), e ridiscendemmo al rumore delle nostre labbra, dove la parola incomincia e finisce. Che cosa potrebbe esserci di simile alla tua Parola, Signore nostro, che rimani sempre in te senza vecchiaia e rinnovi tutte le cose?»(Confessioni IX,10.24).
Questa esperienza che avvenne nel dialogo fra Agostino e sua madre è stata chiamata l'“estasi” di Ostia ad indicare la comunione con Dio che essi vissero in quel giorno.
In realtà l'esperienza che Agostino descrive è insieme enorme e molte semplice. Egli dice che parlando con la madre del creato, lo contemplarono come opera di Dio e videro Dio all'opera in esso, salirono dal creato alla meraviglia delle loro menti anch'esse opera di Dio ed, infine, trascesero la stessa loro umanità per contemplare Dio stesso, lo stesso Essere che è all'origine di tutto.
Torniamo alla straordinaria espressione che abbiamo meditato nello scorso incontro: “amare Dio in ogni cosa e al di sopra di tutte le cose”. Agostino racconta che, nel dialogo con sua madre, precisamente questo è ciò che avvenne, quest'esperienza di contemplare tutto il creato con amore come opera di Dio ed insieme innalzarsi allo stesso amore di Dio al di sopra di tutte le bellezze che hanno origine da Lui.
Ed ecco che da questa “estasi” ritornarono poi alla loro umanità: «E ridiscendemmo al rumore delle nostre labbra, dove la parola incomincia e finisce», perché solo la Parola di Dio è eterna e senza fine.
«Dunque ci dicevamo: “Se per qualcuno fosse ridotto al silenzio il tumulto della carne, al silenzio tutte le immagini della terra e dell’acqua e dell’aria, al silenzio anche i cieli, e l’anima stessa tacesse a se stessa e dimenticandosi si trascendesse, se i sogni e le rivelazioni dell’immaginazione e tutte le lingue e tutti i segni e tutto ciò che diviene col passare del tempo fosse tutto ridotto al silenzio - poiché se qualcuno ancora le ascolta, tutte le cose dicono: non ci siamo fatte da noi, ma ci ha fatto Colui che rimane in eterno -; se, ciò detto, ormai tacessero per aver levato il loro ascolto verso Colui che le ha fatte, e lui solo cominciasse a parlare, non attraverso di esse, ma da se stesso, così che noi udiamo la sua stessa parola, non per lingua umana, né per voce angelica o per fragore di nubi, né per simboli ed enigmi, ma lui direttamente, che amiamo in queste cose, lui stesso senza queste cose - come noi proprio adesso ci sforzammo di attingere con un pensiero istantaneo la Sapienza che è stabile sopra ogni cosa - se tutto ciò acquistasse durata e sparissero tutte le altre visioni troppo impari, e solo quest’unica rapisse e assorbisse e sommergesse nelle gioie interiori lo spettatore: se questa fosse la vita eterna, fosse ciò che ha visto l’intuito in un istante a cui giungemmo sospirando, non è forse vero che questo sarebbe il significato dell’invito: entra nel gaudio del tuo Signore? (Mt 25,21) E questo quando? Non sarà forse quando tutti risorgeremo [...]? (1Cor 15,51)”»(Confessioni IX,10.24).
In questo testo mirabile Agostino ritorna, con una lunga frase interrogativa a domandarsi se tutto questo non voglia dire precisamente entrare nella vita eterna. Questo contemplare tutto in relazione a Dio - «poiché se qualcuno ancora le ascolta, tutte le cose dicono: non ci siamo fatte da noi, ma ci ha fatto Colui che rimane in eterno» - e questo contemplare Dio al di sopra di tutto - «se ormai [tutte le cose] tacessero per aver levato il loro ascolto verso Colui che le ha fatte, e lui solo cominciasse a parlare, non attraverso di esse, ma da se stesso [...] ma lui direttamente, che amiamo in queste cose, lui stesso senza queste cose» - è la vera vita, è la beatitudine per cui siamo fatti, è la vita divina, la vita eterna.
L'uomo deve amare tutto il creato, perché esso è uscito dalle mani di Dio, ma c'è un momento in cui l’uomo deve amare Dio al di sopra di tutto, al di sopra anche di se stesso e delle persone che ama. Devono tacere tutti gli altri desideri, perché parli Dio solo. Se io riuscissi a tacere e ad ascoltare le cose, esse non mi direbbero di amarle, ma di amare Colui che le ha fatte e le ha donate a me.
Quando questo accadrà in pienezza? Quando noi risorgeremo: «E questo quando? Non sarà forse quando tutti risorgeremo?». Il mistero dell’eternità sarà questo nostro amore che ama l’essere stesso di Dio e in lui sa vedere il valore di ogni cosa e di ogni persona, il nostro amore che amando scopre l'amore più grande che lo abbraccia.
Agostino è cosciente che sta dicendo qualcosa di grande e di difficilmente riferibile: «Dicevo cose simili, benché non in questo modo e con queste parole. Ad ogni modo, Signore, tu sai che in quel giorno, mentre parlavamo così, e tra le parole questo mondo sprofondava con tutte le sue attrattive, mia madre disse: “Figlio, per quanto riguarda me, niente più mi attrae in questa vita. Non so più che cosa debba fare qui e perché sia ancora qui. La mia speranza in questo mondo si è esaurita. C’era ancora una cosa per cui desideravo rimanere ancora un po’ in questa vita: vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio me l’ha accordato oltre ogni aspettativa: quello di vederti suo servo al di sopra di ogni felicità terrena. Che cosa faccio ancora qui?”» (Confessioni IX,10.24).
In questo brano ricorre ancora una volta il vocabolario dell'attrazione, del desiderio. Agostino valuta ora diversamente le attrattive “del mondo”, che “sprofonda con tutte le sue attrazioni” e Monica, dal canto suo, ricorda al figlio che il suo grande desiderio, realizzato da Dio al di là di ogni aspettativa, era la conversione del figlio alla fede.
Dopo pochi giorni da questo dialogo misterioso con il figlio al cospetto di Dio, Monica si ammalò e si capì subito che stava per morire: «Non ricordo bene che cosa le ho risposto, tanto più che dopo cinque giorni o non molto più, la febbre la obbligò a coricarsi. Durante la malattia un certo giorno subì uno svenimento e perse per un po’ la coscienza. Corremmo da lei, ma subito riprese i sensi, guardò me e mio fratello e disse come uno che cerca qualcosa: “Dov’ero?”. Poi vedendoci sconcertati per il dolore disse: “Seppellite qui vostra madre”. Io tacevo trattenendo il pianto»(Confessioni IX,10.27).
«Mio fratello disse qualcosa per esprimere il desiderio che sarebbe stato meglio morire in patria e non in terra straniera. Lei udì, si agitò, rimproverò con gli occhi mio fratello per le sue parole e poi guardandomi disse: “Vedi cosa dice”. Poi subito a entrambi: “Seppellite questo corpo dove volete, non preoccupatevi per questo. Ho solo una preghiera: che vi ricordiate di me presso l’altare del Signore, dovunque siate”. Dopo aver rivelato questo pensiero nel modo che poteva, tacque»(Confessioni IX,10.27).
Monica con il suo testamento volle liberare i suoi da qualsiasi problema relativo alla sepoltura e chiese soltanto che essi si ricordassero di lei durante l’eucarestia: «Più tardi venni a sapere che, quando eravamo già a Ostia, ella un giorno aveva parlato con materna fiducia ad alcuni miei amici del disprezzo di questa vita e del bene della morte. Essi si meravigliavano della virtù di questa donna - tu gliel’avevi donata - e alla domanda se non l’impauriva l’idea di lasciare il corpo così lontano dal suo paese, ella aveva risposto: “Niente è lontano per Dio e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non riconosca il luogo da cui risuscitarmi”. Così nel giorno nono della sua malattia, nel suo cinquantaseiesimo anno, e trentatreesimo mio, la sua anima religiosa e pia venne sciolta dal suo corpo» (Confessioni IX,10.27).
Le Confessioni proseguono poi raccontando del dolore di Agostino, che vedeva improvvisamente spezzato il legame con la madre: «Le chiudevo gli occhi e nel mio cuore si raccoglieva un immenso dolore, pronto a traboccare in lacrime. Ma era forte il dominio sul mio spirito, così che gli occhi riassorbivano la loro sorgente fino ad asciugarla. Questa lotta era per me molto penosa. Quando lei diede l’estremo respiro, il giovane Adeodato aveva gridato forte nel pianto, ma per l’intervento di tutti noi si era calmato. Allo stesso modo quanto c’era ancora di infantile in me e voleva esplodere in pianto, veniva represso dalla voce virile del cuore e ridotto al silenzio. Non ci sembrava infatti decente celebrare questo lutto con lacrime, gemiti e lamenti, perché in tal modo si è soliti piangere nei morenti un misero destino e quasi il loro annientamento totale. Ma mia madre non moriva miseramente, né moriva del tutto. Di questo eravamo certi per la testimonianza della sua vita e della sua fede non finta (1Tm 1,5) e per ragione sicure» (Confessioni IX,12.29).
Agostino vorrebbe piangere, ma il suo essere uomo adulto si oppone, quasi fosse una vergogna, all'espressione del dolore: «Da che cosa veniva, dunque, un dolore così opprimente dentro di me, se non da una consuetudine dolcissima e carissima di vita comune che la morte distruggeva d’un tratto, lasciando un’atroce ferita? [...] Perché in tal modo venivo privato del suo grande conforto, la mia anima era ferita e la mia vita veniva quasi fatta a pezzi, la mia vita che era diventata una sola con la sua» (Confessioni IX,12.30).
Alla morte di Monica si radunarono molti cristiani di Ostia, per essere vicini ad Agostino ed ai suoi ed insieme la condussero alla sepoltura, proprio dove ora è situata questa chiesa di Sant'Aurea: «Quando la salma venne portata alla sepoltura, andammo anche noi e ritornammo, ma senza lacrime. Neppure nel corso delle preghiere che recitammo per lei durante l’offerta del sacrificio del nostro riscatto, davanti al cadavere posto accanto al sepolcro prima di esservi deposto (secondo i costumi del luogo), neppure allora io piansi, ma rimasi per tutto il giorno profondamente triste nel segreto del cuore e con la mente turbata pregavo te, come potevo, di lenire il mio dolore» (Confessioni IX,12.32).
Anche al momento della sepoltura Agostino non riuscì a piangere, perché cercava di contenersi. Cercò ristoro al dolore prendendo un bagno nelle terme, ma senza alcun effetto: «Mi parve anche bene prendere un bagno, avendo sentito dire che i greci chiamano balanion ciò che libera l’animo dagli affanni. Ma confesso anche questo alla tua misericordia […] che dopo essermi lavato mi ritrovai tale quale ero prima di lavarmi. Non c’era nulla che potesse togliermi dal cuore l’amaro lutto. Poi andai a dormire e mi svegliai e trovai che il mio dolore si era non poco attenuato» (Confessioni IX,12.32). Solo il riposo riusciva a distenderlo in quel dolore lancinante.
Finalmente riuscì a piangere e a piangere dinanzi a Dio e questo solo gli dette veramente sollievo: «Un po’ alla volta, i miei pensieri tornarono alla tua ancella d’una volta, al suo comportamento pio davanti a te, paziente e santo verso di noi, di cui venni privato così improvvisamente. E potei così finalmente piangere davanti a te di lei e per lei, di me e per me. E lasciai le lacrime scorrere dentro di me senza sosta, convogliandole sotto il mio cuore. Su questo giaciglio il cuore riposò. Là altro non c’era che il tuo ascolto, e non quello di un uomo»(Confessioni IX,12.33).
Ed ancora: «Ora, con il cuore ormai guarito da quella ferita, in cui si poteva scorgere la presenza di un affetto carnale, io verso per quella tua serva davanti a te, Dio nostro, lacrime di tutt’altra specie, quelle che sgorgano da uno spirito sconvolto dalla considerazione dei pericoli di ogni anima che muore in Adamo» (Confessioni IX,12.33).
Come il desiderio e l'attrazione si accrescono nel rivolgersi a Dio, così ora anche il pianto cambia di significato: Agostino aveva cominciato con il piangere per la morte della madre ed ora si ritrova a piangere per il peccato che è la causa della vera lontananza da Dio e dai fratelli: «Ora ti prego per i suoi peccati. Esaudiscimi per colui che è la medicina delle nostre ferite, che fu sospeso sul legno della croce e che ora, sedendo alla tua destra, intercede per noi (Rm 8,34). So che ella ha agito con misericordia e che ha rimesso di cuore i debiti dei suoi debitori: rimettile anche tu i suoi debiti […] Ispira, Signore mio, Dio mio, ispira ai tuoi servi, miei fratelli, figli tuoi, miei padroni, a cui io servo con il cuore, la voce e gli scritti, perché, leggendo questo racconto, si ricordino presso il tuo altare di Monica, serva tua, e di Patrizio, già suo marito, mediante la cui carne mi hai introdotto in questa vita non so come. Si ricordino con sentimento religioso in questa luce transitoria dei miei genitori, i quali sono pure miei fratelli, sotto di te Padre, nella Madre cattolica, e miei concittadini nell’eterna Gerusalemme, verso cui tende il sospiro del tuo popolo pellegrino, dalla partenza fino al ritorno» (Confessioni IX,13.35-37).
In questo cammino verso la Gerusalemme celeste Agostino rivive e trasfigura così il suo dolore che guarda ora non più solo alla perdita della madre ma anche al peccato che egli come figlio ha compiuto ed ai peccati di Monica, ma ormai nell'attesa e nella speranza della resurrezione che di nuovo li unirà.
III/ Visita del borgo di Ostia
III.1/ La chiesa di sant'Aurea
Iniziamo ora la nostra visita. Entriamo, innanzitutto nella piccola cappella che è a destra della navata della chiesa di Sant'Aurea. Qui è stata posta una tela che è attribuita a Pietro da Cortona: rappresenta l'estasi di Ostia di cui abbiamo appena parlato.
In questa cappella sono state sistemate anche due importanti lastre tombali. La prima reca scritto CHRYS... HIC DORM... (CRHYSE HIC DORMIT, cioè “qui riposa Aurea”). Era la lastra che indicava il luogo delle reliquie di Sant'Aurea, la martire che ha dato il nome alla chiesa, una nobile giovane romana che venne prima esiliata, poi torturata ed infine martirizzata, tramite annegamento in mare, sembra intorno all'anno 229, cioè sotto l'imperatore Alessandro Severo, o forse nel 258 sotto l'imperatore Claudio il Gotico, insieme ad altri cristiani.
Si vede poi l'antica lapide che ricorda la sepoltura di Santa Monica e che recitava:
Hic posuit cineres
genitrix castissima prolis
Augustine tui altera lux meriti
cui servans pacis coelestia iura sacerdos
commissos populos moribus instituis
gloria vos maior gestorum laude coronat
virtutum mater felicior subolis
cioè
Qui le ceneri lasciò
la tua castissima madre,
o Agostino, nuova luce ai tuoi meriti,
tu che sacerdote fedele alle prerogative della pace
ammaestri con la vita i popoli a te affidati,
la gloria delle opere, maggiore di ogni lode, vi incorona:
la madre, specchio di virtù, più beata del figlio.
Il frammento conservato fu ritrovato casualmente da uno dei padri agostiniani nel 1945 e corrisponde fedelmente alla trascrizione che era nota da un pellegrino altomedioevale che l'attribuiva al console Anicio Auchenio Basso, dell'anno 408.
Sull'altare principale della chiesa troviamo una pala d'altare ovale che rappresenta il martirio di Sant'Aurea, che viene annegata. L'opera è di Andrea Sacchi, ed è del XVII secolo. Nel presbiterio è posta una colonnina che riutilizza un frammento marmoreo, forse appartenuto ad un cero pasquale, con il nome di Sant'Aurea: S.AUR.
Da tutti questi elementi, gli storici sono giunti ad ipotizzare che qui sorgesse prima della chiesa attuale, già in età paleocristiana, una chiesa dedicata a Santa Aurea, e forse precedentemente ai santi Pietro, Paolo e Giovanni Battista, che prese poi il nome di Santa Aurea quando le reliquie della santa vennero traslate qui. La celebrazione delle esequie di Monica si spiegherebbe bene, allora, in questa chiesa già esistente, così come la sua sepoltura nei pressi della chiesa.
Avvicinandoci agli scavi di Ostia antica, percorreremo la via Ostiense che usciva dalla città alla volta di Roma e lungo questa via, come lungo tutte le vie romane appena fuori dalle città, vedremo molte sepolture ancora presenti.
Niente di strano allora che proprio qui, poco fuori la porta della città, anche i cristiani seppellissero i loro morti e deponessero prima i resti mortali di Santa Aurea e poi quelli di Monica.
Nell'incontro precedente abbiamo venerato le reliquie di Monica che sono ora nella chiesa di Sant'Agostino in Campo Marzio. Il corpo della santa fu ritrovato qui a Sant'Aurea nel 1420 e traslato prima nel 1425, ai tempi di Martino V (1417-1431) nella chiesa oggi scomparsa di San Trifone in via della Scrofa, poi nella basilica di Sant'Agostino al tempo di Callisto III (1455-1458).
Il cardinale d'Estouteville che commissionò il rifacimento di Sant'Agostino nelle attuali forme rinascimentali è lo stesso personaggio che iniziò qui i lavori dell'attuale chiesa di Sant'Aurea, nel 1475.
La chiesa deve però la sua forma definitiva a Giuliano della Rovere, il futuro papa Giulio II, che la ultimò nel 1483. Nelle pianelle del soffitto si vedono i gigli di Francia, in omaggio al d'Estouteville, mentre le iscrizioni sull'altare maggiore ed i simboli araldici rimandano alla famiglia della Rovere.
Il progetto della chiesa è attribuito a Baccio Pontelli. Sulle pareti del presbiterio si vedono frammenti di affresco con le figure dei Santi Pietro e Paolo.
III.2/ L'episcopio di Ostia
Uscendo dalla chiesa possiamo salire ora nell'episcopio, che deve la sua risistemazione all'allora cardinale Giuliano della Rovere e agli interventi successivi del cardinale Raffaele Riario che divenne vescovo di Ostia nel 1511. Il Riario realizzò un nuovo appartamento le cui pareti furono completamente affrescate. Il ciclo sembrava perduto, ma si era invece conservato sotto l'intonacatura successiva ed è riemerso nei restauri.
Si tratta di una serie di riquadri monocromi ispirati ad imprese di carattere militare che riprendono le figurazioni della Colonna Traiana. Furono autori del ciclo Baldassarre Peruzzi, Domenico Beccafumi e Cesare da Sesto.
Gli affreschi sono precedenti alla morte di Giulio II, poiché, oltre allo stemma dei Riario compare frequentemente lo stemma della Rovere (dovettero essere completati prima del 1513).
Si vedono battaglie fra romani e daci, gli antenati degli odierni rumeni, l'assedio di una roccaforte con la decapitazione del re dacio Decebalo, il corteo di Traiano, con il ritratto di Giulio II nelle vesti dell'imperatore, l'apertura di una breccia nelle mura, la costruzione di un fortino, l'adlocutio dell'imperatore, una battaglia fluviale, la presentazione all'imperatore del bottino, la fuga e la sottomissione dei barbari, i funerali dell'imperatore.
L'episcopio rinascimentale ricorda l'importanza che la diocesi aveva nell'antichità. Non è chiara la datazione precisa, ma certamente già in età patristica il vescovo di Roma, cioè il papa, era consacrato proprio dal vescovo di Ostia. A quei tempi non si eleggeva uno che era già sacerdote, ma si sceglieva un diacono o un sacerdote ed era il vescovo di Ostia che, ordinandolo vescovo dopo che l'imperatore aveva dato il suo assenso, gli permetteva di diventare effettivamente vescovo di Roma.
L'importanza di Ostia nella storia della chiesa è testimoniata anche dal fatto che molti pontefici, una volta che si iniziò ad eleggere papa uno che era già consacrato vescovo, erano stati precedentemente vescovi ostiensi.
III.3/ Il borgo e il castello di Giulio II
La chiesa e l'episcopio sono circondati dal cosiddetto borgo medioevale di Ostia antica.
Il nome di Ostia viene dalla parola ostium che in greco vuol dire foce: Ostia è la cittadina situata alla foce del Tevere ed era il porto di Roma. Era un porto fluviale: il Tevere segnava il suo limite, anche se questo ora è meno evidente perché nei secoli il corso del fiume si è spostato, allontanandosi leggermente. Dove terminano gli scavi, inoltre, c'era la riva del mare, ma, con il tempo, i detriti portati dal Tevere hanno fatto sì che anche la costa si allontanasse, per cui Ostia sembra ora un luogo in piena campagna ed il mare è lontano alcuni chilometri.
Le navi attraccavano non dal lato del mare, bensì lungo il Tevere; scaricavano i passeggeri, così come le mercanzie. Erano poi i buoi o i cavalli a trasportarli in Roma su barche più piccole. Poiché, però, il porto di Ostia tendeva ad insabbiarsi, venne successivamente costruito da Claudio e poi da Traiano il nuovo Porto di Roma con il bacino esagonale di cui abbiamo già parlato, che poi si insabbiò a sua volta. Pietro potrebbe essere arrivato a Roma proprio qui a Ostia, oppure a Porto, mentre sappiamo che Paolo arrivò a Roma per via terrestre, lungo la via Appia.
Il vecchio sito di Ostia venne progressivamente abbandonata a motivo delle invasione barbariche e la popolazione si radunò pian piano intorno alla chiesa di Sant'Aurea ed al suo episcopio. Nell'alto medioevo questo sobborgo di Ostia venne fortificato durante il pontificato di Gregorio IV (827-844), ricevendo così il nome di Gregoriopoli. L'erezione di un sistema difensivo si era reso necessario a motivo delle scorrerie arabe che si andavano intensificando sulle coste tirreniche ed, in effetti, poco dopo la costruzione della cinta muraria, gli arabi attaccarono una prima volta Roma, nell'846, passando proprio di qui e risalendo verso Roma lungo il Tevere, fino a saccheggiare le basiliche di San Paolo e di San Pietro che ancora non erano fortificate. Gregoriopoli venne a far parte di una rete di torri di avvistamento e di punti di fortificazione per proteggere la città: da qui si poteva avvisare la città quando il nemico stava arrivando.
I pontefici, dopo l'attacco dell'846, fortificarono anche San Pietro con le mura della cosiddetta Città Leonina. Similmente fu fortificata anche la zona della basilica di San Paolo per creare un secondo avamposto che potesse arrestare l’avanzata nemica.
Proprio davanti ad Ostia vennero sgominate le navi degli incursori arabi nell'849, quando cercarono per la seconda volta di raggiungere Roma. Raffaello, secoli dopo, raffigurò la battaglia di Ostia nelle famose stanze che portano il suo nome.
Il borgo continuò ad essere vivo, come attestano le fonti, godendo di aria salubre e permettendo agli abitanti di vivere di pesca, di agricoltura e dell'attività delle saline. Dopo l'“esilio” avignonese, fu Martino V Colonna (1417-1431) ad interessarsi nuovamente del borgo, facendo erigere la torre circolare che è ora inglobata nel castello. Il mare era nuovamente insicuro perché le navi turche avevano cominciato ad infestare il Mediterraneo ed era necessaria un più moderno sistema difensivo: solo pochi anni dopo, nel 1453, cadde Costantinopoli. Le coste del Tirreno, così come le altre coste italiane, furono in quel periodo dotate di torri di avvistamento che vengono chiamate volgarmente torri saracene, ma, in realtà, sono fortificazioni costruite per proteggere le coste dai turchi in un periodo nel quale la marina turca dominava il Mediterraneo. Ma presto l'area del borgo di Ostia dovette divenire insalubre e la popolazione diminuì nuovamente.
Il borgo riprese vigore sotto il pontificato di Sisto IV (471-1484), primo papa della famiglia della Rovere. Fu in quegli anni che il cardinale d'Estouteville ripristinò le mura e risistemò le abitazioni del borgo.
Come vedete bene le case non sono più quelle medievali, ma sono state realizzate secondo un preciso piano regolatore proprio in quegli anni, dal 1472 al 1479. Le mura, invece, anche se molto restaurate, sono ancora quelle antiche di Gregorio IV.
Nel 1483 Giuliano della Rovere divenne vescovo di Ostia. Egli incaricò Baccio Pontelli di erigere la rocca che, in effetti, è realizzata con soluzione di avanguardia per le modalità costruttive del tempo. All'interno del castello fu preservata la precedente torre del tempo di Martino V.
Gli stemmi con il simbolo della quercia, lo stemma della Rovere, sono dappertutto e anche sulla facciata della chiesa.
La risistemazione in forme rinascimentali della chiesa di Sant'Aurea è quindi contemporanea alla definitiva struttura del castello. La zona era, in quel tempo, ancora importante per le saline: il sale necessario alla città di Roma veniva estratto qui - ancora adesso c’è qui vicino il toponimo di via delle Saline. Il sale allora era importantissimo perché era utilizzato per conservare i cibi, dato che non esistevano i frigoriferi!
Infine anche il borgo di Ostia decadde alla metà del cinquecento. Fu, innanzitutto, molto danneggiato quando, nel 1556, Carlo V, che era in guerra con papa Paolo IV, fece cannoneggiare ripetutamente il castello, ma il colpo di grazia fu dato dalla fuoriuscita del Tevere dal suo alveo che avvenne nel 1557. Il corso del fiume si spostò di due chilometri più a nord e la struttura difensiva perse la sua posizione strategica e, quindi, il suo scopo.
IV/ Visita agli scavi di Ostia antica e prosecuzione della riflessione su Agostino
IV.1/ La via Ostiense ed il decumano di Ostia
Entriamo ora negli scavi di Ostia antica. Come vi dicevo, oltre a visitare alcuni edifici che gli scavi hanno riportato alla luce e meditare su ulteriori aspetti della vita di Agostino, quello che ci interessa maggiormente è camminare sui passi di Monica e di suo figlio. Anche se non sappiamo esattamente dove abitarono, certamente essi attraversarono le vie principali della città, il cardo, il decumano, i fori. Termineremo l'itinerario nell'unica basilica cristiana che è stata riporta alla luce dove, probabilmente, lo stesso Agostino sostò in preghiera.
Sappiamo che Agostino, nei mesi della sua permanenza ad Ostia prima della morte di Monica e poi a Roma dove tornò per breve tempo prima di imbarcarsi per l'Africa, continuò a scrivere. Fra i suoi Dialoghi, certamente alcuni capitoli de La grandezza dell'anima, de Il libero arbitrio, de La musica (che già aveva iniziato a Milano), forse anche de Il maestro e de La vera religione (che certamente vennero completati in Africa) vennero scritti fra Ostia e Roma. Possiamo immaginarlo allora mentre dialoga con la madre in una delle case che attraverseremo e mentre è intento a scrivere le sue opere che vedranno successivamente la luce.
La via Ostiense partiva da qui ed arrivava - e arriva tuttora - fino a Roma. Ora entreremo nel decumano, la via centrale, e avremo ai due lati la città. Abbiamo già detto che le navi attraccavano a Ostia dal lato del Tevere che scorre alla destra degli attuali scavi. Scaricavano anfore con il grano, l’olio, il vino, ecc. su navi più piccole che giungevano poi in Roma presso il porto fluviale, che era situato precisamente dove è ora il quartiere di Testaccio. Il nome Testaccio deriva proprio dal nome delle anfore - anfora si dice, in latino testis - che una volta svuotate venivano fatte a pezzi e ammonticchiate: il cosiddetto monte dei cocci, cioè appunto Testaccio.
La via Ostiense è l'esatta continuazione del decumano dell'antica città di Ostia. Vedete a destra e a sinistra i resti di antiche sepolture che ci confermano nella convinzione che proprio la zona dell'attuale borgo era una zona cimiteriale, dove ben si situano sia la sepoltura di Sant'Aurea, sia quella di Santa Monica. Il corte funebre di Santa Monica dovette così percorrere proprio la via Ostiense, per giungere dove è ora la chiesa di Sant'Aurea.
Entriamo nella città passando attraverso i resti della Porta Romana, che è di epoca sillana, cioè di età repubblicana ed immette sull’antico decumano massimo, la via principale. Appena entrati si accede ad un grande slargo che gli archeologi hanno chiamato piazzale della Vittoria per la presenza di una statua della Vittoria alata eretta per rappresentare la vittoria di Roma. Lo slargo serviva ad accogliere chi si recava in Ostia e ad ospitare il mercato che era subito dentro le mura della città.
Vi accorgete subito che gli scavi sono stati eseguiti nella prima metà del novecento, quando si distruggevano tutti i livelli recenti per arrivare al livello che interessava maggiormente - uno scavo moderno seguirebbe altre metodologie.
Il sito è comunque bellissimo, perché, a motivo dell'insabbiamento del porto e dell'abbandono della città, non ci sono costruzioni moderne a rovinarlo e tutti gli scavi sono in piena campagna e alla luce del sole.
Gli abitanti di Roma erano in età imperiale circa un milione e occorreva far arrivare il grano dalla Sicilia e dall’Egitto per sfamare un numero così grande di abitanti. Roma era l'unica città - venne seguita in questo solo da Costantinopoli quando questa divenne la “seconda Roma” al tempo di Costantino - ad avere il privilegio della distribuzione gratuita del grano alla popolazione. Questo privilegio era stato concesso non solo per significare l'importanza della capitale, ma anche per accrescerne la popolazione: chi, infatti, otteneva la residenza nell'urbe poteva anche beneficiare di queste elargizioni alimentari. Ai tempi di Agostino Roma era ancora una città grandissima, ma solo due secoli dopo, ai tempi di Gregorio Magno, intorno all’anno 600, si stima che la popolazione romana fosse scesa a circa 100.000 abitanti, ovvero si era ridotta ad un decimo della Roma augustea e imperiale. E subito dopo Gregorio Magno, con Sabiniano, termineranno le distribuzioni gratuite del grano[3].
Avanzando sul decumano incontriamo un pozzo che è della fine del V secolo, cioè venne scavato circa cento anni dopo la presenza di Agostino ad Ostia. Si nota subito la stranezza di un pozzo costruito in mezzo alla strada principale: è un chiaro segno della decadenza della città. Il pozzo indica chiaramente che Ostia era a quel tempo ormai pressoché disabitata, a motivo dell’arrivo dei barbari e del sopraggiungere della malaria poiché la zona, non più risistemata, era diventata acquitrinosa.
IV.2/ Le terme di Nettuno
Salendo a destra sulla terrazza potremo affacciarci sulle terme dette di Nettuno. Dall'alto si vede chiaramente che la struttura possedeva un grande cortile centrale, che veniva utilizzato come palestra ed aveva un porticato colonnato che girava intorno. A destra, invece, si vede la struttura termale vera e propria con due atri di ingresso, i cui mosaici hanno dato nome alle terme: in uno è rappresentato Nettuno su di una quadriga condotta da quattro ippocampi, in un altro si vede la consorte di Nettuno, Anfitrite, che gli viene incontro a cavallo su di un ippocampo, in un altro ancora appare Scilla rappresentato come un mostro con i suoi tentacoli. La leggenda voleva che fra la Sicilia e Reggio Calabria bloccasse le navi facendole poi affondare con i marinai che le guidavano.
Seguivano l'atrio un frigidarium, due tepidaria ed, infine, il calidarium. Queste terme di Nettuno risalgono all'epoca di Adriano e di Antonino Pio. Le terme erano caratteristiche della civiltà romana e le troviamo ovunque. Possono essere paragonate ai nostri centri sportivi: erano luoghi amatissimi già ben prima dei tempi di Paolo e di Pietro ed erano certamente attive ai tempi della permanenza di Agostino ad Ostia. La gente passava giornate intere presso le terme. Ci si curava del corpo, ad esempio con sauna e massaggi, e vi si svolgevano anche attività sportive.
Abbiamo appena letto che Agostino, dopo la morte della madre, cercò sollievo alle terme. Non sappiamo se sia proprio questa quella in cui si recò, poiché negli scavi di Ostia sono emerse diverse terme pubbliche. Ma potete immaginarlo proprio qui che, morta la madre, si ricorda del dialogo avuto con Monica alcuni giorni prima che il Signore la chiamasse a sé e cerca di superare la grande tristezza che lo agitava.
IV.3/ La caserma dei vigili
Subito dietro le terme è visibile un grande complesso che gli archeologici hanno identificato con l'antica caserma dei vigili. Poiché il legno era uno dei materiali più utilizzati nella costruzione delle case, gli incendi che si sviluppavano erano devastanti ed una compagnia di pompieri vigilava per poter intervenire prontamente. La parte più interessante di questa caserma è il Caesareum o Augusteum, cioè il sacello nel quale il corpo dei vigili venerava gli imperatori. Le statue sono andate perdute, ma sono rimasti i basamenti, sui quali si leggono i nomi dei diversi imperatori venerati come esseri divinizzati: Marc’Aurelio, Giulia della famiglia di Augusto, Marco Antonino, Settimio Severo.
Da questo piccolo tempio inerente alla caserma dei vigili potete ben capire quale fosse la difficile questione che si dovevano porre coloro che diventavano cristiani e prestavano servizio in corpi come questi, così come nell'esercito. La difficoltà, prima dell'editto di Costatino, era quella di poter svolgere tali professioni, senza essere costretti a venerare le statue degli imperatori. Prima della svolta costantiniana solo gli ebrei erano esonerati dal culto imperiale perché c’era una legge, emanata ai tempi di Cesare, che li esentava, stabilendo che l'ebraismo era una religio licita: tutte le altre persone erano, invece, tenute alla venerazione delle divinità di Roma ed al culto agli imperatori divinizzati.
IV.4/ Il problema del male in Sant'Agostino ed il superamento del manicheismo
Qui, in questo luogo tranquillo della caserma dei vigili, facciamo un'ulteriore sosta per meditare un altro aspetto del pensiero di Sant'Agostino. Ce ne danno lo spunto proprio le terme che abbiamo appena visitato. Vi siete accorti che Agostino non cerca rifugio solo nella preghiera, ma cerca anche di rasserenarsi con il bagno alle terme, con il sonno e con lo sfogo del pianto che, infine, non disprezza, sebbene quelle lacrime debbano convertirsi in pianto per i peccati e non solo per la morte fisica della madre.
Già da queste semplici notazioni si vede il valore che Agostino, divenuto cristiano, attribuiva alla carne, alla materia, alla concretezza del creato. Ma se torniamo all'estasi di Ostia questa attenzione al valore della materia è ancora più evidente: vi ricordate come Monica e suo figlio contemplano tutte le cose esistenti come segni che rimandano al creatore. Tutto parla di Dio, perché è opera sua: «Se qualcuno ancora le ascolta, tutte le cose dicono: non ci siamo fatte da noi, ma ci ha fatto Colui che rimane in eterno»(Confessioni IX,10.24).
Cerchiamo di capire come queste affermazioni semplicissime ed insieme straordinarie si colleghino nel pensiero agostiniano alla sua ricerca sul grande problema del male. Sant’Agostino è uno dei pensatori che ha affrontato con più decisione questa questione. Una delle grandi domande che ha sempre avuto presente e a cui ha cercato instancabilmente una risposta era proprio questa: perché c’è il male? da dove viene il male? e se c'è il male, Dio non ha il potere di eliminarlo? Questo grande problema è stato così determinante per lui al punto che, finché non lo ha chiarito, non ha potuto diventare cristiano. Per lui - e per noi - la grande questione del male è decisiva per fare veramente il passo della fede.
Agostino parla più volte del male nelle Confessioni. In particolare nel Libro VII esplode con una serie di questioni: «Dicevo: "Ecco Dio, ed ecco le creature di Dio. Dio è buono, potente al massimo grado e enormemente superiore ad esse. Ma in quanto buono creò cose buone e così le abbraccia e le riempie. Allora dov'è il male, da dove e per quale via è penetrato qui dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme? O forse non esiste affatto? Perché allora temiamo ed evitiamo una cosa inesistente? [...] Ma da dove proviene il male, se Dio ha fatto, lui buono, buone tutte queste cose? Certamente egli è un bene più grande, il sommo bene, e meno buone sono le cose che fece; tuttavia e creatore e creature tutto è bene. Da dove viene dunque il male? Forse da ciò da cui le fece, perché nella materia c'era del male, e Dio nel darle una forma, un ordine, vi lasciò qualche parte che non convertì in bene? Ma anche questo, perché? Era forse impotente l'onnipotente a convertirla e trasformarla tutta, in modo che non vi rimanesse nulla di male? Infine, perché volle trarne qualcosa e non impiegò piuttosto la sua onnipotenza per annientarla del tutto? O forse la materia poteva esistere contro il suo volere? O, se la materia era eterna, perché la lasciò sussistere in questo stato così a lungo, per spazi infiniti di tempi, e solo dopo tanto tempo decise di trarne qualcosa? O ancora, se gli venne un desiderio improvviso di agire, perché con la sua onnipotenza non agì piuttosto nel senso di annientare la materia e rimanere lui solo, bene integralmente vero, sommo, infinito? O, se non era bene che chi era buono non creasse, anche, qualcosa di buono, non avrebbe dovuto eliminare e annientare la materia cattiva, per istituirne da capo una buona, da cui trarre ogni cosa? Quale onnipotenza infatti era la sua, se non poteva creare alcun bene senza l'aiuto di una materia non creata da lui?". Questi pensieri rimescolavo nel mio povero cuore gravido di assilli che mi incalzavano, frutto del timore della morte e della mancata scoperta della verità» (Confessioni VII,5.7).
Agostino era stato attratto dai manichei proprio perché erano fra i pochi che affrontavano il problema del male. Per divenire cristiano dovette rinnegare le loro posizioni, ma esse avevano per lui almeno il merito di avere posto il grande problema del male, indirizzandosi ad una visione del mondo che rifiutava un buonista sempliciotto che non corrisponde all'esperienza vera e concreta della vita.
Dunque i manichei affermavano che il male esisteva perché all'origine di tutto non c'era un unico Dio buono, bensì fin dall'origine coesistevano due divinità in lotta fra di loro, l'una responsabile del male e l'altra del bene. Dall'evidenza dell'esistenza del male essi traevano dunque la conclusione che non vi era solo un Dio buono.
Capite immediatamente come il problema del male e quello di Dio siano connessi inestricabilmente. D'altro canto potremmo ulteriormente riflettere che proprio l'uomo si pone insieme il problema del male e quello di Dio. Se fosse vera una visione puramente materialistica della vita, non si potrebbe parlare propriamente di “male”, che è una categoria spirituale e morale. È male che un pesce grande mangi un pesce piccolo, è male che i dinosauri si estinguano per un motivo non meglio precisato? In una visione strettamente materialista della vita, queste cose appartengono ai meccanismi della trasformazione e dell'evoluzione della materia. Ma perché allora l'uomo afferma che è male se uno stato potente schiaccia le nazioni più deboli? Con domande come queste viene posta una domanda che utilizza la nozione di bene e di male, mostrando che l'uomo è quell'essere che si rifiuta di ammettere che esista solo l'incessante sviluppo della materia. Due genitori che debbono assistere alla morte del loro bambino non possono non ribellarsi dicendo che questo “non è giusto”. Affermare che qualcosa non è giusto implica il riconoscimento che non esiste solo l'evoluzione incessante del tutto: è per questo che, misteriosamente, ognuno si rivolge a Dio chiedendogli conto del male con la domanda: perché? Se non esistesse un riferimento a Dio, la domanda “perché” non avrebbe senso. La morte di un bambino sarebbe solo un momento insignificante ed irrilevante dell'eterna trasformazione della materia. Ma ecco che l'uomo possiede in sé il senso del bene e del male, perché trascende la materia e si rivolge a Dio. E per questo non può non dire “non è giusto” e non può non domandare “perché?”.
I manichei rispondevano alla grande domanda sul perché del male sostenendo che il Dio buono non era il creatore della materia, perché essa è evidentemente incurante del bene della singola persona. Dio era responsabile solo del bene che esisteva. Il male era da attribuirsi ad una divinità del male, che era anche responsabile della creazione della materia.
Si vede chiaramente come il manicheismo fosse un sistema dualistico. Abbiamo già detto che l'iniziatore di questa prospettiva filosofico-religiosa era un personaggio di origine persiana, Mani appunto, vissuto nel III secolo d.C., pochi decenni prima di Agostino. Il suo pensiero poi si era diffuso nell'impero romano, che garantiva la circolazioni di persone, mezzi e messaggi, grazie alla sicurezza delle comunicazioni.
Anche la comprensione della vita interiore dell'uomo propria dei manichei dipendeva da questa visione. Essi affermavano che c'è nell'uomo una propensione al male, così come c'è il desiderio del bene ed attribuivano la prima alla divinità del male ed il secondo al Dio vero e buono.
Proprio a partire da questa falsa analisi dell'interiorità umana iniziò il distacco di Agostino dal manicheismo. Agostino, infatti, rivendicava la responsabilità piena delle proprie azioni nella consapevolezza che non si poteva attribuire ad una divinità “cattiva” il male che l'uomo commetteva:
«Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. Quando volevo o non volevo una cosa ero certissimo di essere io, non un altro, a volere e non volere; e capivo sempre meglio che qui si annidava la causa del mio peccato. Ma mi accorgevo di subire piuttosto che fare ciò che facevo contro volontà e non lo ritenevo una colpa, bensì un castigo mediante cui Tu, come subito ammettevo, mi colpivi, e non ingiustamente, perché ti pensavo giusto. Ma a questo punto mi chiedevo: "Chi mi ha creato? Il mio Dio, vero? che non è soltanto buono, ma la bontà in persona. Da chi mi viene dunque il consenso che do al male e il rifiuto che oppongo al bene? Accade così per farmi scontare giusti castighi? Ma chi ha piantato e innestato in me questa piantagione d'infelicità, se io sono integralmente opera del mio dolcissimo Dio? E se fossi creatura del diavolo, da dove viene a sua volta il diavolo? Se anch'egli diventò diavolo, da angelo buono che era, per un atto di volontà perversa, questa volontà maligna che doveva renderlo diavolo da dove entrò anche in lui, che era stato creato integralmente angelo da un creatore buono?". Queste riflessioni tornavano a deprimermi, a soffocarmi, ma non riuscivano a trascinarmi fino al baratro di quell'errore dove nessuno più ti loda, se preferisce pensare che sei Tu ad essere sottoposto al male, piuttosto che crederne l'uomo capace» (Confessioni VII,3.5).
Agostino cominciò così a capire che l'uomo è realmente responsabile delle proprie azioni ed anche del male che compie. Si faceva strada in lui l'idea che il male non era necessario, non era coeterno con Dio e Dio non era costretto a subirlo; non riusciva però ancora a trovare una visione dell'origine del male che lo convisse.
Solamente la certezza che Dio è il creatore di tutto e che tutto è buono, lo aiutò a incamminarsi verso la soluzione dell'enigma:
«Osservando [...] tutte le altre cose poste al di sotto di te, scoprii che né esistono del tutto, né non esistono del tutto. Esistono, poiché derivano da te; e non esistono, poiché non sono ciò che tu sei, e davvero esiste soltanto ciò che esiste immutabilmente. […] Mi si rivelò anche nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero comunque beni. Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; se non fossero beni affatto, non avrebbero nulla in se stessi di corruttibile. La corruzione è infatti un danno, ma non vi è danno senza una diminuzione di bene. Dunque o la corruzione non è un danno, il che non può essere, o, come è invece certissimo, tutte le cose che si corrompono subiscono una privazione di bene. [...] Dunque, finché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l'origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé e assai buone tutte insieme, avendo il nostro Dio fatto tutte le cose molto buone»(Confessioni VII,11.17-12.18).
In questo importantissimo brano si vede come Agostino sia giunto finalmente ad apprezzare tutto il creato come opera di Dio: non c'è nessuna cosa creata che sia cattiva e il male non è allora qualcosa che è stato creato già maligno bensì è, piuttosto, una privazione di bene.
Solo il bene è all'origine di tutto e tutto ciò che è creato è bene, ma, a causa del peccato, è possibile perdere il bene: ecco allora che il male è “privazione di bene”!
Agostino elaborò così, in piena consonanza con San Paolo e con tutto il messaggio biblico, il concetto che il male è assenza di bene. Il male, cioè, non è un principio che ha una forza pari a quella di Dio. Con la fede cristiana Agostino afferma con forza che c’è un unico creatore: non esistono una divinità del bene ed una del male, come sostenevano i manichei.
Il male interviene nella creazione successivamente, tramite il peccato, perché il peccato viene commesso dalle creature. È il male a voler far credere agli uomini di essere originario come Dio, indispensabile come Dio, invincibile come Dio, mentre in realtà non lo è assolutamente.
E che cosa è precisamente il peccato, cosa è precisamente questa “privazione” del bene? Nella sua radice ultima è il rifiuto di Dio. Ogni cosa è buona perché è in relazione a Dio, perché da Dio riceve esistenza e perché da Lui è conservata in vita. Anche la creatura, che pure è un bene corruttibile, se resta in relazione a Dio incorruttibile può ricevere da lui la vita eterna, può scoprire di essere amata, pur sapendo di non essere il tutto.
Ma quando la creatura si sottrae a Dio, gli volta le spalle e si taglia fuori da Lui, ecco che, da sola, scopre di non bastare a se stessa, scopre di essere priva del bene.
Proprio questo è il “peccato originale”, il primo peccato, il peccato che porta con sé tutti gli altri. Il primo uomo non si fidò di Dio, si rivoltò contro di Lui, se lo “gettò” alle spalle. Ed ecco che, al posto di trovare la vita, si ritrovò nella morte, perché aveva perso il suo bene. Agostino ha ben chiaro che il peccato originale non è affatto un peccato sessuale, bensì consiste in questo rifiuto di dare fiducia a Dio.
Il fatto che il male sia lo stravolgimento del disegno originale di Dio lo si vede in maniera evidente se si considera bene chi sia il maligno. È straordinaria un'espressione con cui l'allora cardinale Ratzinger lo definì come “la persona nella forma della non persona”[4]. Il fatto che il maligno sia “persona” lo si vede, infatti, dal fatto che egli cerca personalmente ogni persona per fargli del male. Ma che egli sia “nella forma della non persona” appare dal fatto che egli si oppone precisamente a quella che è la ricchezza della persona: le sue relazioni di amore. Il maligno è il distruttore delle relazioni. Egli non vuole che l'uomo si fidi di Dio, che abbia relazione con Lui. Più uno ama e più è persona e se si vuole capire chi è qualcuno basta domandargli chi egli ami, per chi egli viva. Non si può capire se stessi, senza sapere quali relazioni si vivono e si amano. La contraddizione del maligno è quella di essere colui che cerca tutti, senza che esista persona a cui egli vuole bene.
Il maligno vuole che l'uomo non dia fiducia a Dio. E, al contempo, vuole che l'uomo smetta di amare e di fidarsi dei suoi fratelli. Ecco che vuole privare l'uomo del bene! Il male è privazione del bene. Invece solo nella relazione con Dio e con i fratelli consiste il bene.
Agostino esclama ancora: «In Te [Dio] il male non esiste affatto, e non solo in Te, ma neppure in tutto il tuo creato, fuori del quale non esiste nulla che possa irrompere e corrompere l'ordine che vi hai imposto»(Confessioni VII,13.19).
Il male è piuttosto distogliersi da Dio, è assenza di Lui, è, soprattutto, rifiuto di Lui che è la vita, l'essere, il bene:
«Cercai l'essenza della malvagità e trovai che non è una sostanza, ma la perversione della volontà, che si allontana dalla sostanza suprema, cioè da te, Dio, per volgersi alle cose più basse»(Confessioni VII,16.22). In questo ultimo testo si vede ancora una volta chiaramente la visione agostiniana del male. Quando egli afferma che il male è assenza di bene, non ha in mente una semplice mancanza, ma una vera avversione, una vera “distrazione” dal bene: chi si rivolta contro Dio, chi lo esclude, chi toglie la fiducia all'Unico che è affidabile, si ritrova nel non senso, nell'inimicizia, nella morte. Chi nega la carità che nasce da Dio e la speranza che da Lui è fondata, si trova senza amore e senza prospettiva, solo con se stesso.
Ecco che ad Agostino appare tutto l'errore dei manichei[5] che ritenevano invece il male una sostanza parimenti esistente come il bene: «Mentre mi allontanavo dalla verità, credevo di camminare verso di lei, senza sapere che il male non è se non privazione del bene fino al nulla assoluto» (Confessioni III,7.12).
Come spiegherà bene G. K. Chesterton, questa visione del male non solo non è pessimistica, ma è anzi la garanzia della bellezza della vita: «Il peccato originale è una visione del mondo. È la visione del mondo non solo più illuminante, ma anche più incoraggiante [...]: abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia. Trova l'origine del male nell'uso sbagliato della volontà, e quindi dichiara che può eventualmente venire corretto utilizzando in maniera propria la volontà» (G. K. Chesterton, Perché sono cattolico (e altri scritti), Torino, Gribaudi 2007, pp.136-137).
IV.5/ Gli ultimi tre capitoli delle Confessioni
Agostino ha ben chiaro, ormai, così che tutto il creato è buono e che il male ha origine quando le creature libere negano la loro fiducia a Dio e si ritrovano sole, senza di Lui. Questo tema della bontà del creato è così importante che ritorna poi ancora nelle Confessioni negli ultimi tre libri dell'opera.
Qualche autore si è domandato cosa c'entrino questi libri - che trattano dei capitoli della Genesi dedicati alla creazione - con il resto dell'opera che è tutta una confessione dell'azione di Dio nella vita di Sant'Agostino. In realtà essi sono, invece, in stretta correlazione con i libri precedenti delle Confessioni: è come se Agostino istituisse un parallelo tra l'opera di Dio nel creato e l'opera di Dio in lui. Come Dio per grazia ha dato origine al mondo[6], così ha reso cristiano per grazia Agostino.
Anche da questo punto di vista si vede bene che le Confessioni non sono innanzitutto una confessio dei peccati di Agostino, bensì, molto più radicalmente la confessione di fede della misericordia di Dio e dell'opera della sua grazia. La struttura dell'opera si compone, infatti, di 9 libri iniziali nei quali si narra la vita di Agostino prima dell’anno 399-402; segue poi il libro X nel quale Agostino parla della sua vita presente e infine ci sono ben 3 libri nei quali si parla del tempo, della memoria e della creazione.
La confessione di fede non si limita così alla celebrazione dell'opera di Dio nella vita di Agostino, ma si allarga all'universo intero. È così che nelle Confessioni l’uomo non è visto come un essere isolato dal mondo, bensì come un essere in relazione con i fratelli e con l'intero creato.
In questi ultimi tre libri Agostino ricorda ancora una volta l'errore dei manichei che non riconoscono il creatore come artefice del creato: «Ho udito, Signore Dio mio, ho gustato una goccia della tua dolce verità. Ho compreso che esistono uomini, cui le tue opere non piacciono. Essi sostengono che ne hai create molte per forza di necessità, ad esempio gli edifici celesti e le costellazioni delle stelle; per di più, esse non deriverebbero la loro materia da te, ma già esistevano, create altrove e da altri. Tu non avresti fatto altro che concentrarle, elaborarle e collegarle [...] Il resto poi non sarebbe stato creato e neppure costruito dalle tue mani, ad esempio tutti i corpi fatti di carne, gli animali minuscoli e quanto si radica in terra; li avrebbe prodotti e formati invece nelle regioni inferiori dell'universo uno spirito avverso, un'altra natura non stabilita da te e a te ostile. Così parlano i pazzi, che non vedono le tue opere alla luce del tuo spirito e non ti riconoscono in esse»(Confessioni XIII,30.45).
Se il male è voltare le spalle a Dio e rifiutargli la fiducia, il bene consiste esattamente nel volgersi a Lui, nel tornare, per opera della grazia, alla comunione con Dio: «Di lui solo [dello Spirito Santo] fu detto che è dono tuo, il dono ove riposiamo, ove ti godiamo. Il nostro riposo è il nostro luogo. Là ci solleva l'amore, e il tuo spirito buono eleva la nostra bassezza, strappandola alle porte della morte. Nella buona volontà è la nostra pace. Ogni corpo a motivo del suo peso tende al luogo che gli è proprio. Un peso non trascina soltanto verso il basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l'alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. [...] Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto. Il tuo Dono ci accende e ci porta verso l'alto»(Confessioni XIII,9.10).
Ecco che ritorna quanto Agostino aveva scritto all'inizio delle Confessioni, spiegando perché il cuore umano poteva trovare pace solo in Dio: «Nulla meno di te stesso, e quindi neppure se stessa basta [alla creatura razionale] per la sua felicità e il suo riposo» (Confessioni XIII,8.9). La felicità consiste allora nel volgersi a Dio[7].
IV.6/ Il teatro di Ostia antica
Uscendo dalla caserma dei Vigili, passiamo per la via della Fontana, ai cui lati si ergono ancora caseggiati che raggiungono il secondo piano. In una di queste abitazioni possiamo immaginare la casa nella quale avvenne il dialogo fra Agostino e sua madre, di cui abbiamo parlato, l'“estasi” di Ostia.
Giungiamo ora nei pressi del teatro. Si vedono, subito prima di esso, i resti di un oratorio cristiano che risale al periodo tardo imperiale (IV-V secolo d.C.). Esso fu dedicato a San Ciriaco e agli altri martiri di Ostia, fra cui Sant'Aurea, che vennero uccisi, secondo la tradizione, presso un arco che era di fronte al teatro stesso. Anche qui possiamo immaginare si siano fermati Agostino ed i suoi a pregare nei mesi della permanenza in città.
Entriamo anche oggi nel teatro tramite l'antico ingresso principale che conserva ancora, al suo interno, tracce delle decorazioni a stucco che dovevano essere un tempo molto belle, ma che il tempo ha rovinato. Questo ci ricorda che tutti gli edifici dei quali oggi vediamo solo la struttura in laterizio dovevano un tempo essere ricoperti di marmi, che sono poi stati prelevati per essere riutilizzati, e di stucchi e decorazioni purtroppo scomparse.
Salendo le gradinate del teatro ci si ritrova nel punto più alto delle rovine da cui si gode una magnifica vista su tutto il sito. Il teatro dovette sorgere al tempo di Augusto ed ampliato poi, come ricorda un'iscrizione ancora leggibile, al tempo di Settimio Severo e Caracalla. È stato molto restaurato per poter essere utilizzato ancora oggi. Si vede la scena con avanzi marmorei e, dietro di essa, tre maschere di marmo che la abbellivano. L'orchestra è un semicerchio perfetto. Secondo calcoli recenti il teatro doveva contenere, per le sue rappresentazioni, fra le 3.000 e le 4.000 persone.
Dal lato opposto al decumano si vede il cosiddetto “Piazzale delle Corporazioni”. Gli studiosi discutono su quale fosse la reale finalità di questo grande piazzale. Quello che è certo è che consta di un grande porticato che si apre su sessantuno ambienti che, a motivo dei mosaici pavimentali tuttora conservati, rimandano ai diversi mestieri che erano esercitati in Ostia ed alle città di provenienza delle diverse mercanzie che qui erano trattate.
Si leggono iscrizioni come stuppatores restiones, cioè commercianti di stoppa e corde, corpus pellion(um) Ost(iensium) et Port(ensium), cioè corporazione dei conciatori di pelli di Ostia e Porto, naviculariorum lignariorum, cioè armatori addetti al legno, navicularii Misuenses hic, cioè marinai di Misua, porto africano, statio Sabratensium, cioè della “stazione” di Sabratha in Africa, navicularii Karthag(iniensium), cioè marinai di Cartagine, navicularii Turritani, cioè di Porto Torres, ecc.
Per noi particolarmente suggestiva è proprio la menzione di Cartagine. Se questi erano gli edifici di rappresentanza delle navi che da qui partivano per Cartagine, sicuramente Agostino sarà venuto più volte a chiedere informazioni per il suo imbarco alla volta dell'Africa. Il complesso del piazzale e dei locali che vi affacciavano risale al tempo dell'imperatore Claudio, ma conobbe una radicale ristrutturazione nel II e nel III secolo.
Al centro del piazzale si erge un edificio sacro che viene identificato come il Tempio di Cerere, dea delle messi e dell'abbondanza: si conserva di esso l'alto podio.
Quando usciremo dal piazzale, troveremo una copia di un altare con le raffigurazioni delle origini di Roma, con Faustolo ed i gemelli Romolo e Remo allattati da una lupa (come è noto la “lupa” è figurazione nobilitata per “prostituta”: si ricordi il termine “lupanare”).
IV.7/ Agostino e lo scisma donatista
Proprio questo luogo che permette un ampio panorama sulla città, ci può aiutare ad evocare simbolicamente un altro aspetto della vita di Agostino. Quando ritornò in Africa dovette affrontare il divampare della crisi donatista di cui abbiamo già parlato negli scorsi incontri.
Lo scisma donatista sorse dopo la grande persecuzione di Diocleziano, quella del 303-305. Quando essa terminò, il gruppo di coloro che non si erano piegati alla persecuzione contestarono quei cristiani - e soprattutto quei vescovi e sacerdoti - che invece, per salvarsi, avevano rinnegato la fede o, comunque, erano scesi a compromessi con l'impero. I cristiani integerrimi cominciarono ad affermare che i traditores non appartenevano più alla chiesa. La loro opposizione si rivolse anche a contestare i rapporti che una parte della chiesa africana andava intrattenendo ora con l'impero, una volta che Costantino era salito al potere.
La situazione precipitò quando fu eletto, nel 311-312, vescovo di Cartagine Ceciliano, che era accusato di una condotta non irreprensibile al tempo della persecuzione. La chiesa si spaccò in due ed una parte affermò che Ceciliano era deposto e consacrò un nuovo vescovo. A questo vescovo “non cattolico” successe poi Donato, già nel 313. Dal suo nome, il gruppo venne poi soprannominato “donatista”. Nonostante Costantino si schierasse a favore della parte cattolica, nel 320 i donatisti erano probabilmente la maggioranza in Africa.
Donato morì nel 355, ma lo scisma era talmente radicato che proseguì dopo di lui, anzi si complicò con ulteriori divisioni.
Agostino tornato in Africa, aveva deciso di condurre una vita monastica cenobitica, insieme ai suoi amici. Egli non concepiva cioè la vita cristiana come vita solitaria, ma come vita comunitaria: desiderava vivere circondato di persone che sceglievano di vivere insieme, di avere la mensa in comune, così come la preghiera in comunità.
Si vede qui come Agostino continuasse ad essere convinto che non si poteva godere di niente se non insieme agli altri: per questo volle fondare una comunità di persone che condividevano la stessa prospettiva di vita. Scrisse una regola di vita comunitaria che è tuttora utilizzata per la sua saggezza. Vi cito solo un'espressione famosa fra i consigli che Agostino dava per la vita comune e che è scolpita anche sull’architrave di ingresso del refettorio del Collegio Capranica: “Quisquis amat dictis absentum rodere famam noverit hanc mensam indignam esse sibi” cioè “Chiunque crede di poter far pettegolezzi (rosicchiare) sulla vita degli amici assenti sappia che non è degno di mangiare a questa mensa”.
Agostino voleva dedicarsi con la sua comunità alla contemplazione ed allo studio e solo contro la propria volontà fu infine consacrato sacerdote. Infatti, per un po' di tempo, si rifiutò di entrare nelle chiese che mancavano di un presbitero, perché sapeva che altrimenti lo avrebbero obbligato a diventare prete.
Ad Ippona, però, fu infine costretto a diventare prete. Racconta che pianse quando dovette accettare, perché capiva che non avrebbe più goduto della tranquillità e della libertà della vita monastica, ma non si sottrasse alla scelta perché la chiesa aveva bisogno di sacerdoti. L’unica condizione che pose fu quella di poter comunque conservare la vita comunitaria con gli altri con cui era stato monaco e così avvenne.
Nell’anno 395 venne poi fatto vescovo in ausilio del vescovo di Ippona e poi, alla morte del vescovo titolare, acclamato vescovo di Ippona. Anche molti dei confratelli di Agostino divennero a loro volta vescovi, negli anni successivi. Nelle Confessioni troviamo un rapido accenno a questa nuova responsabilità che dovette assumere: «Sono questi i tuoi servi e i miei fratelli, che volesti fossero tuoi figli e miei padroni, che mi ordinasti di servire, se voglio vivere con te di te»(Confessioni X,4.6).
Agostino si trovò quindi ad affrontare lo scisma donatista in qualità di vescovo, di guida della chiesa di Ippona, in un momento in in essa era tormentata dallo scisma ancora vivo. I donatisti, fra l'altro, vennero supportati in quegli anni dai cosiddetti circoncellioni, cioè un gruppo di “monaci che vivevano intorno alle cellae”, cioè presso i sepolcri dei martiri: i circoncellioni compirono numerosi atti di violenza contro i cattolici, ma anche contro la proprietà privata, poiché rifiutavano, in qualche modo, la relazione che la chiesa andava strutturando nei confronti dell'impero di allora. Agostino si servì anche di questi eccessi per stigmatizzare l'operato degli scismatici ed invocare le leggi antieretiche che erano state emanate dallo stato.
La disputa cominciò a pendere dalla parte di Agostino a partire dal 403 e già nel 420 la maggioranza della chiesa nord-africana aveva abbandonato il donatismo. L'argomentazione che Agostino portò avanti e che è illuminante anche oggi si basa sulla confessione di fede nella misericordia di Dio che non vuole una chiesa di pochi puri e giusti, non desidera una élite che si contrapponga ai semplici cristiani, bensì ha inviato suo figlio a salvare i peccatori. Come dice un bellissimo passaggio del Discorso sul Salmo 95, XI: «Dite in mezzo alle nazioni: Il Signore ha regnato dal legno. Egli ha sostenuto l'universo, che non sarà smosso. Quali testimonianze sulla costruzione della casa di Dio! Le nubi del cielo affermano con voce di tuono che la casa di Dio sta costruendosi su tutta la terra, e dalla palude alcune rane gracidano: "Noi soltanto siamo cristiani"».
Qui si vede chiaramente la chiesa per cui Agostino lavora: non una chiesa di pochi che si vantano di essere veri cristiani disprezzando gli altri, bensì una chiesa aperta e capace di sostenere anche i deboli.
Non che non fosse consapevole dei peccati di tanti cristiani, come abbiamo visto leggendo il De catechizandis rudibus dove si afferma che nella chiesa ci sono anche persone indegne, fattucchieri, adulteri, ladri, ecc. che non vivono una vita morale all'altezza dell’ideale evangelico.
Ma Agostino, dinanzi al peccato presente anche nei credenti, continuò a sostenere l'unità della chiesa. Un grande studioso di Sant’Agostino, Peter Brown, ha riassunto in tre punti la posizione del santo di Ippona dinanzi alla questione donatista[8]: per prima cosa è necessario diventare santi, è necessario poi coesistere con i peccatori, bisogna infine correggere ed istruire i peccatori per aiutarli a diventare anch'essi più santi.
L'ampio panorama che da qui si ammira ci può richiamare a questa concezione aperta di chiesa che caratterizzò Agostino: egli non volle mai ridurre la comunità del Cristo ad un ristretto gruppo di puri.
IV.8/ Il Foro di Ostia
Proseguendo lungo il decumano, siamo giunti ora al centro della città, nell'antico Foro. Nelle città romane, il Foro era la piazza centrale, spesso creata là dove il Decumano e il Cardo si incrociavano e dove, comunque, si ergevano gli edifici più importanti. Si vedono chiaramente, alla destra della piazza del Foro, i resti del Capitolium, con il suo alto podio: era il “Campidoglio” di Ostia, ossia il Tempio delle tre divinità di Roma, Giove, Giunone e Minerva, eretto intorno al 120 d.C. In tutti i possedimenti di Roma veniva costruito un Tempio in onore della triade capitolina e così lo ritroviamo anche qui ad Ostia.
Dal lato opposto si vedono le rovine del Tempio di Roma e di Augusto, dedicato anch'esso all'urbe personificata come dea ed al suo primo imperatore divinizzato: il tempio risale ai primi decenni del I secolo d.C. A sinistra del Tempio stesso sono state posti i frammenti superstiti della decorazione del timpano. Oltre ai due Templi, affacciavano sulla piazza una basilica, nella quale si amministrava la giustizia e si trattavano gli affari pubblici, e la curia, dove si riuniva il consiglio cittadino.
Se ci si inoltra nelle vie alla destra del Foro è possibile raggiungere gli Horrea Epagathiana et Epaphroditiana. Gli horrea erano grandi magazzini nei quali venivano custodite le merci appena giunte ad Ostia dai lontani porti. Epagathus ed Epaphroditus erano i nomi dei due proprietari di questi magazzini ed il loro nome figura ancora nell'iscrizione del portale.
Più indietro si può visitare uno dei luoghi più caratteristici degli scavi di Ostia e precisamente il thermopolium. Esso affaccia nella cosiddetta via di Diana ed è evidentemente un locale che era adibito alla vendita di bevande ed alimenti. Si vedono ancora i banconi per esporre i prodotti e gli affreschi che riproducono le vivande ed i cibi che qui venivano serviti.
IV.9/ La basilica cristiana
Procedendo ancora lungo il decumano che, a un certo punto, devia verso sinistra in direzione della Porta Marina, la Porta di Ostia che dava sulla riva del mare, si raggiungono, sulla destra, i resti di quella che è stata identificata con certezza come una basilica cristiana.
Questa basilica consta di una navata centrale e di una navata laterale. L'edificio risale alla seconda metà del IV secolo, ma insiste su edifici precedenti. La navata laterale conserva un architrave sul quale si legge l'iscrizione In Christo Geon Fison Tigris Eufrata Cristianorum sumite fontes, che rimanda ai quattro fiumi di Genesi ripresi nell'Apocalisse ad indicare l'acqua della vita nuova donata da Cristo. L'iscrizione potrebbe rimandare alla presenza di un fonte battesimale o semplicemente riferirsi alla chiesa come sorgente della nuova vita.
È molto probabile che Agostino, Adeodato e Monica siano venuti qui a pregare e a dialogare con la comunità locale.
Un altro edificio cristiano è stato individuato proprio presso Porta Marina a motivo di una decorazione in opus sectile che rappresenta un Cristo aureolato. L'opera si trova ora presso il Museo dell’Alto medioevo all’Eur e non è più in situ. L'edificio di cui l'opera in opus sectile fa parte doveva appartenere ad una famiglia di elevate condizioni. Nelle pareti realizzate ad intarsio sono raffigurati anche leoni ed altre figure.
Da Porta Marina si accedeva alla riva del mare. Merita ricordare che su questa riva, proprio fuori Ostia, è ambientato l'Octavius, un'opera di un altro autore cristiano, Minucio Felice, un apologista dei tempi di Giustino, che immagina di fare da arbitro in un dialogo sul tema della verità e della falsità delle diverse religioni.
Proseguendo a sinistra di Porta Marina, in mezzo alla campagna, ma un tempo sulla riva del mare, si raggiungono i resti della più antica sinagoga conosciuta d’occidente. La si costeggia anche andando verso l’aeroporto di Fiumicino con la macchina. Si tratta di un edificio colonnato di cui sono superstiti anche alcuni capitelli; su uno di questi è raffigurato il candelabro a sette braccia. Il simbolo non da adito ad alcun equivoco ed indica l'edificio come appartenete alla comunità ebraica.
IV.10/ La crisi pelagiana
Nella basilica cristiana vogliamo soffermarci per un'ultima breve tappa di riflessione sulla figura di Agostino. Questo luogo di culto ci ricorda come sia tipica della fede cristiana la consapevolezza che la salvezza non è opera dell'uomo e che noi possiamo solo ricevere la grazia, non fabbricarla. Ogni sacramento possiamo riceverlo e donarlo, ma non autocostruirlo.
Agostino si trovò ad affrontare la discussione che sorse intorno a questa questione quando già era divenuto vescovo di Ippona. Si potrebbe dire che con la crisi “pelagiana” la questione antropologica irrompe nella storia del cristianesimo. Fino a questo momento le grandi discussioni dogmatiche aveva riguardato direttamente la fede in Cristo e nella Trinità: con la crisi pelagiana divenne evidente che la fede cristiana portava con sé anche una ben precisa idea di uomo. Prima della crisi pelagiana erano “eresie” solo gli errori sulla divinità, non ancora quelli sulla grazia e il libero arbitrio!
La crisi “pelagiana” trae nome da Pelagio, un monaco che nacque in Britannia verso il 354 e venne poi battezzato a Roma, dove visse a lungo, dimorando nella zona dell'Aventino, maturando qui anche la sua scelta di vita celibataria.
La crisi era già in atto prima dell'anno 411, anche se le fonti sono povere di informazioni per questo periodo. Si sa che Pelagio contestò in quegli anni un tal Gioviniano che affermava l'impeccabilità del cristiano dopo il battesimo e contestava la proposta della verginità, affermando che con la venuta di Cristo tutti erano ugualmente meritevoli dinanzi a lui e quindi non bisognava cercare la santità in alcun modo.
Pelagio gli si oppose manifestandosi subito come un cultore di un rigoroso impegno morale e spirituale del cristiano: egli affermava che bisognava tenersi lontano dal peccato, perché esso era sempre possibile, ed incitava con grande vigore al celibato ed alla verginità.
Negli anni che vanno dal 411 al 418 la polemica si precisò. Pelagio ed il suo discepolo Celestio - che visse anch'egli in quegli anni in Roma - affermavano che la salvezza era raggiungibile dall'uomo con le proprie forze e che ognuno era assolutamente libero di seguire gli impegnativi comandi evangelici o di rifiutarli, decidendo così del proprio destino eterno. Pelagio difendeva la capacità dell'uomo di divenire santo attraverso il semplice sforzo di impegno personale.
Dopo il 418 le tesi di Pelagio - che già erano state severamente criticate non solo in Africa, ma anche in un sinodo romano tenuto da papa Zosimo nel 417 nella basilica di San Clemente in Roma, senza che Celestio che era presente fosse però anatematizzato - vennero portate avanti da Giuliano d'Eclano, vescovo di Mirabella Eclano presso Avellino. Pelagio morì poi nel 427, mentre Celestio e Giuliano vennero esiliati.
Pelagio, Celestio e Giuliano condividevano forti idee ascetiche che si possono riassumere in una frase che è una richiesta a tutti i cristiani di un grande rigore morale: «Forse a quanti si dicono cristiani non è stata data la medesima legge della cristianità?» (Divitiis 6).
Ma soprattutto, essi affermavano che l'uomo, utilizzando semplicemente la propria libertà, era in grado di seguire i comandi del Signore, avendo da lui ricevuto l'esempio. Pelagio affermava, ad esempio: «Sta in mio potere fare il bene, sono io a gestire la mia libertà» (Epistola 216,5). Essi negavano il peccato originale e la necessità della grazia. Si può notare subito lo strettissimo legame che unisce l'affermazione della necessità della grazia a quella dell'esistenza del peccato: se l'uomo non si trova a lottare contro un peccato insuperabile, allora la grazia non è necessaria e, viceversa, se riesce ad ottenere il bene con le sue sole forze, questo vuol dire che la vita dell'uomo non è ferita in maniera radicale.
Da queste tesi derivava anche una conseguenza sacramentale: i pelagiani contestavano l'importanza del battesimo dei bambini, perché i piccoli non avevano bisogno della grazia divina che li accompagnasse.
Furono convocati vari concili ed, infine, si giunse alla condanna definitiva del pelagianesimo con il concilio di Cartagine del 418.
Agostino comprese che ciò che dicevano Pelagio e Celestio - cioè che per diventare cristiani bastava volerlo e che la fede era solo questione di volontà - era un'eresia e soprattutto riuscì a mostrare alla chiesa di allora che quelle affermazioni non corrispondevano alla verità della condizione umana.
L'uomo - affermò a ragione il santo di Ippona - non può diventare cristiano se la grazia di Dio non lo previene e non lo aiuta. Vorrei citare qui solo un passaggio che esprime in maniera straordinaria il pensiero di Agostino che così si rivolge ai pelagiani: «Questo è l’orrendo e occulto veleno del vostro errore: che pretendiate di far consistere la grazia di Cristo nel Suo esempio e non nel dono della Sua persona» (Contra Iulianum. Opus imperfectum II, 146).
Notate la precisione affascinante con cui questo passaggio spiega l'“orrendo” errore: Cristo veniva da loro presentato come un maestro di morale e non come l'amore che salva, la grazia che rinnova, il bene che attira. Agostino sottolineava invece che la conversione non poteva avvenire a partire dall'uomo come se abbisognasse solo di buoni esempi.
Voi dite - continua Agostino - «che gli uomini diventano giusti per l'imitazione di lui [Cristo] e non per il dono da parte di lui dello Spirito Santo che li induca ad imitarlo e che egli ha effuso nel modo più abbondante sopra i suoi. E aggiungete: dopo tuttavia l'incarnazione del Cristo. Evidentemente a differenza degli antichi, che dite essere stati giusti senza la sua grazia, poiché non ebbero il suo esempio [...] Se dunque la giustizia viene dall'imitazione dei giusti, il Cristo è morto invano, perché anche prima di lui ci furono giusti da poter essere imitati da coloro che avessero voluto essere giusti» (Contra Iulianum. Opus imperfectum II, 146).
Qui si vede come la visione proposta dai pelagiani rendeva irrilevante la salvezza operata da Cristo: la fede si riduceva alle esigenze morali che già la filosofia aveva proposto.
E nei suoi scritti Agostino afferma ancora: «Voi enumerate molte vie attraverso le quali Dio ci soccorre: i comandamenti delle Scritture, le benedizioni, le guarigioni, le mortificazioni, gli incitamenti e le ispirazioni; ma che egli ci dà l'amore e che in tal modo ci aiuta, questo non lo dite» (Op. imp. III 106).
Cristo è così ridotto ad un esempio, ad un modello da imitare e non è più l'amante dell'uomo. Secondo Agostino, invece, solo l'amore con cui Cristo ci ama è la forza che ci permette di vivere da cristiani.
Agostino affronta in questo modo nuovamente la questione del male. Se l’uomo non trova l’amore di Cristo che lo ama, l’uomo non ha la forza di vincere da solo il male. Si svela così anche la terribile serietà del peccato originale che non è una menzogna, non è un’invenzione, ma è una delle affermazioni più serie del cristianesimo. Se vi ricordate, ne parlammo già nell'incontro sulla lettera ai Romani, il primo anno, riflettendo su come il Concilio Vaticano II affermi addirittura che l'esistenza del peccato originale è un dato di esperienza e non solo di fede![9] In quell'occasione leggemmo anche dei testi di Chesterton e di Soloviev per chiarificare cosa la chiesa intende quando parla del peccato di origine.
Dinanzi alla polemica sulla grazia si approfondì anche la riflessione sulla grande novità apportata dal cristianesimo in relazione alla libertà umana. Certo, per il cristianesimo, gli uomini sono liberi di fare molte scelte senza la venuta di Cristo e la presenza della sua grazia, ma, allo stesso tempo, non sono liberi di vivere pienamente l’amore finché non incontrano l'amore di Cristo che si rivela a loro.
Qui Agostino entra in un dialogo fecondo con le posizioni razionaliste che volevano che l'unica pietra di paragone per l'uomo fosse l'uomo stesso e la sua ragione. Agostino, ritornando al vangelo, afferma invece che è solo la verità che rende liberi e che senza di essa la libertà dell'uomo non è piena.
Una distinzione che nacque nel contesto del dibattito della crisi pelagiana fu così quella tra “libero arbitrio” e “libertà” - distinzione che sarà successivamente approfondita nei secoli dalla riflessione filosofica. Ogni uomo, per dono di creazione, possiede il libero arbitrio, la libertà cioè di operare una scelta fra tante cose. Ma solo dopo la venuta di Cristo nasce, per dono della grazia, la libertà di scoprire l'amore di Dio e di vivere conformemente ad esso.
Innanzitutto perché solo l'incontro con Cristo rende possibile di conoscerlo e di conoscere così il vero Dio: non si poteva essere cristiani prima che Cristo venisse nel mondo ed ogni idea di Dio, prima della croce di Cristo, non raggiungeva la profondità del suo amore per noi. Ma, in secondo luogo, la vera libertà nasce con lui perché solo la sua presenza di amore rende possibile giungere fino all'amore del nemico, fino al perdono di chi ci ha tradito, fino alla speranza dinanzi al male ed alla morte. In questo senso l'uomo, prima di Cristo, aveva sì il “libero arbitrio”, cioè la possibilità di operare una scelta fra diverse possibilità, ma non aveva ancora la “libertà”, cioè la reale e concreta occasione di vivere nella pienezza della comunione con Dio e con i fratelli. L'uomo pre-cristiano, insomma, non conosceva ancora l'amore crocifisso che prende su di sé il male fino alla croce per salvare i peccatori e non viveva ancora della speranza che solo la resurrezione può donare.
Vedete come ci stiamo inoltrando di nuovo in questioni importantissime ed anche molto concrete. Agostino afferma: «Nessun argomento mi procura maggior piacere. Che cosa, infatti, può essere più attraente per noi uomini malati che la grazia, la grazia dalla quale siamo guariti; per noi uomini pigri che la grazia, la grazia dalla quale siamo stimolati; per noi uomini bramosi d'azione che la grazia, la grazia dalla quale siamo aiutati?» (Ep. 186.12.39).
Questa debolezza della libertà senza Cristo - che è libero arbitrio, ma non piena libertà – è evidente proprio a motivo della presenza del peccato originale che ha reso schiavo l'uomo, impedendogli la piena comunione con Dio e con i fratelli. Ed è questo - afferma Agostino - il dramma dell'esistenza: «Nessuno in questa carne, nessuno in questo corruttibile corpo, nessuno sulla faccia di tutta la terra, in questa esistenza malevola, in questa vita piena di tentazioni, nessuno può vivere senza peccato» (Serm. 181.1). È per questo che deve diventare evidente che i pelagiani non propongono una visione dell'uomo secondo il messaggio della Scrittura: «Che essi (pelagiani e celestiani) e la loro purezza restino fuori» (Serm. 181.3).
Essi sostengono l'esistenza di uno stato di purezza, a motivo del quale chiedono poi a tutti di vivere indistintamente secondo i consigli del vangelo, ma impediscono così ai fratelli di trovare la via per vivere nella grazia.
Ed ancora nel conflitto con Giuliano Agostino afferma in merito al peccato originale: «nulla fa parte in maniera più ovvia della nostra predicazione del cristianesimo. Tuttavia nulla è più impenetrabile al nostro intelletto» (De mor. eccl. cath., I 22.40). La contesa chiarificò anche il rapporto del peccato con la morte che Giuliano di Eclano negava - questione che per ragioni di tempo non possiamo ora affrontare.
Paradossalmente i pelagiani, che negavano il peccato originale, si rivelavano più severi nei confronti delle esigenze morali dell'uomo. Pelagio, in particolare, si indignava che gli uomini continuassero a venir meno ai comandamenti di Dio, poiché - a suo dire - all’uomo bastava essere ragionevole e bene intenzionato per vivere tutte le esigenze del vangelo. Il monaco di origini britanniche insisteva allora sul terrore del giudizio finale per motivare l'uomo al vangelo. Queste richieste etiche e la loro perentorietà manifestavano che il movimento pelagiano era in realtà ben radicato nei vecchi ideali etici del paganesimo, in particolare quelli dello stoicismo.
Agostino, più fedele alla Scrittura, si ritrovava ad essere anche più fedele all'uomo. Per lui era evidente che la libertà doveva essere conquistata pian piano. Ed, infatti, egli parlò sempre di “libertà più grande”, “libertà più piena”, “libertà perfetta” (cfr. Ep. 157.2.8), perché la libertà può essere solo l'epilogo di un lungo processo che matura a partire dall'incontro con Cristo.
E certamente, per Agostino, la libertà non dipende mai semplicemente dal capire, ma dall'essere toccati dall'amore e dalla grazia: «L'intelligenza ci precede rapida ed ecco che segue - oh! così lentamente, e talvolta non segue affatto - la nostra indebolita capacità umana di sentire» (Enarr. oct. in Ps. 118.4).
Note
[1] Per il testo integrale, cfr. su questo stesso sito Le conferenze sulla crisi della catechesi tenute a Lione ed a Parigi nel 1983 dall'allora cardinal Joseph Ratzinger: la trasmissione della fede ed il problema delle fonti.
[2] Il Direttorio generale per la catechesi, 128, afferma in proposito in maniera molto sintetica e vera: «La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede».
[3] Su questo, cfr. su questo stesso sito Il potere necessario. I vescovi di Roma e la dimensione temporale nel “Liber pontificalis” da Sabiniano a Zaccaria (604-752), di Andrea Lonardo.
[4] Questo il testo cui si fa riferimento: «Quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia», in J. Ratzinger, Liquidazione del diavolo, ripubblicato in J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, pp.189-197. Cfr. su questo l'articolo Unde malum? Da dove viene il male? Per una riflessione teologica. Pensieri da condividere, leggendo insieme testi dei teologi Joseph Ratzinger e Walter Kasper e del filosofo Vittorio Possenti, di Andrea Lonardo.
[5] Un ulteriore argomento contro il concetto di male come di un'essenza pari al bene era già stato proposto da Nebridio, come le Confessioni ricordano: «Mi sarebbe bastato [per capire l'errore dei manichei] di usare l'argomento che fin dai tempi di Cartagine Nebridio era solito ripetere, e che tutti ci aveva scossi, quanti l'avevamo udito: cosa avrebbe potuto farti quella, chissà poi quale, genìa delle tenebre, che come massa nemica essi sono soliti contrapporre a Te, se ti fossi rifiutato di combattere contro di essa? Se si risponde che avrebbe potuto danneggiarti in qualcosa, allora non saresti inviolabile e incorruttibile. Se invece si risponde che non avrebbe potuto danneggiarti in niente, allora non ci sarebbe più stato motivo per combattere»(Confessioni VII,2.3).
[6] Gli ultimi libri insistono molto sul fatto che la creazione, che è buona e bella, non ha meriti per esistere. Essa esiste per grazia, ma, proprio per questo, è buona e bella, perché l'esistenza è un bene! «Tu esistevi prima che io esistessi, mentre io non esistevo così che potessi offrirmi il dono dell'esistenza. Eccomi invece esistere grazie alla tua bontà» (Confessioni XIII,1.1). E ancora: «La tua creatura ebbe l'esistenza dalla pienezza della tua bontà, affinché un bene del tutto inutile per te e, sebbene uscito da te, non uguale a te, poiché da te poteva però esser creato, non mancasse di esistere. Quali meriti avevano nei tuoi confronti il cielo e la terra, da te creati in principio?» (Confessioni XIII,2.2). Sul significato degli ultimi tre libri delle Confessioni, vedi, su questo stesso sito, G. Lettieri, Le Confessioni di Sant'Agostino e la paradossale gioia della felix culpa.
[7] E ancora: «[La vita] ha bisogno di volgersi al suo creatore, di vivere sempre più vicino alla fonte della vita e di vedere nella sua luce la luce, per essere perfetta, illuminata e felice» (Confessioni XIII,4.5).
[8] P. Brown, Agostino d'Ippona, Torino, Einaudi, 1971, p. 215.
[9] Cfr. il testo con commento al link Basilica di Santa Maria in Aracoeli al Campidoglio, piazza del Campidoglio e carcere Mamertino: la Lettera di san Paolo apostolo ai Romani ed il primato di Dio.