Bianca come il latte, rossa come il sangue. L'adolescenza dinanzi alla realtà della vita. Un'intervista ad Alessandro D'Avenia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 16 /10 /2010 - 15:23 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Tracce del maggio 2010 un'intervista allo scrittore e insegnante Alessandro D'Avenia, autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Di Alessandro D'Avenia vedi, su questo stesso sito, Lettera ai professori alla vigilia del primo giorno di scuola: stupitevi, stupiteli, di Alessandro D'Avenia. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Adolescenti e giovani nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (16/10/2010)

La trama è semplice, quasi scarna. Leo, sedicenne, si innamora di Beatrice, compagna di liceo. Lei si ammala di leucemia. Morirà: l’epilogo è chiaro da subito. Ma in questa specie di «diario di un dolore» in sedicesimo, scritto in prima persona e attraversato da personaggi che lo aiutano a crescere (il Sognatore, supplente di Lettere che lo sfida attingendo a libri e vita; Gandalf, prof di Religione di poche parole ma alta intensità; Silvia, l’amica che vorrebbe essere qualcosa di più; e un padre più vicino di quanto si aspetti), Leo scopre se stesso. E fa i conti con le poche, grandi cose che riempiono la vita di domande e - se prese sul serio - fanno uomini. Il desiderio. Il male. La felicità. Dio.

Ecco, in Bianca come il latte, rossa come il sangue, best seller che ha scalato le classifiche infilandosi alla voce “letteratura adolescenziale”, c’è proprio questo: domande dense affrontate in modo lieve. Con lingua - e cuore - da adolescenti, ma con una sapienza di scrittura e un’immedesimazione che rendono il tutto per nulla artificioso. Non sarà un capolavoro, chiaro. Ma ha dentro abbastanza spessore per grattar via le etichette appiccicate in fretta dai giornali («arriva il Moccia cattolico») e cercare di conoscere l’autore: Alessandro D’Avenia, 33 anni, riccioli biondi e occhi azzurri da normanno (è un palermitano trapiantato a Milano, dove fa il prof di Lettere al biennio di un Classico) che, a vederlo, ti fanno venire in mente il Piccolo principe. Non glielo abbiamo detto, subito. Ma dopo le due ore che ha passato in redazione, a dialogare a cuore aperto e lasciarsi colpire - davvero - da domande e osservazioni di due colleghi e tre studenti (Dado Peluso e Alberto De Simoni, docenti di Lettere; e Giovanni, Paola, Caterina), ci è venuta l’idea che il paragone non gli scoccerebbe. L’apertura alla realtà è la stessa. Non a caso, quello che segue è il resoconto di quel dialogo. Ma soprattutto di un incontro. Vero.


Partiamo da lì, allora. Da quelle che, a un certo punto, chiama «le domande giuste»: quelle vere, serie, reali. E quelle più censurate e bistrattate anche da chi si rivolge ai ragazzi. Perché ha deciso di prenderle sul serio in un libro che parla di loro e si rivolge a loro?
D’Avenia: Sto in classe da dieci anni. E ho visto - vedo - una distanza straordinaria, dolorosa, tra quello che ci viene raccontato di questi ragazzi dai media e quello che sono realmente. Insegnando Lettere, poi, è inevitabile toccare i punti vitali. Questo essere a contatto con il loro cuore profondo mi ha fatto sorgere un moto di ribellione verso tutta una letteratura come quella, appunto, di Moccia - che mi sono letto tutta, per capire come intercetta il loro cuore. I numeri parlano chiaro: non vendi un milione di copie di Ho voglia di te o Tre metri sopra il cielo se non c’è qualcosa che intercetta il cuore. E la risposta che ho visto è proprio questa: a essere intercettata è la sete di educazione sentimentale che è propria della loro età. Questo cuore che, per la prima volta, si affaccia alla realtà con un’apertura straordinaria, che esce dal pensiero magico dell’infanzia e incomincia a guardarsi intorno per capire che ingredienti servono per vivere la vita. Ecco, il primo impulso è stata una ribellione verso di questa letteratura: comprende i sentimenti del cuore di un adolescente, ma poi lo lascia confuso come prima. Un po’ come l’iPod: ti metti gli auricolari, ti estranei un’ora dalla realtà e, quando te li togli, la realtà è rimasta lì, ferma. Per un po’ ne hai sentito meno il peso e il dolore, ma poi ti ritorna tutto addosso. Poi c’è un altro motivo.

Quale?
D’Avenia: La bellezza. Una bellezza che ti investe e che non puoi fare a meno di comunicare. Quando uno si innamora non fa che dirlo al mondo intero, no? Be’, questo mio innamoramento continuo verso i miei ragazzi, cioè per la loro identità profonda, mi ha portato a dire: io questa bellezza la devo raccontare, perché nessuno la vuole raccontare. Ecco, questi due ingredienti si sono sommati. Ed è venuta fuori una storia che avevo dentro da un po’: un ragazzo che cresce, che diventa uomo, che all’inizio del romanzo crede che la propria identità si basi su come tiene i capelli e poi, a poco a poco, capisce che l’identità non sta lì, ma da qualche altra parte che lui deve scoprire. Non tanto perché gli vengano date nel romanzo delle risposte giuste, ma perché inizia lui a porsi le domande giuste. E infatti il romanzo finisce con l’apertura alla realtà.

Scoprire l’identità sotto la superficie vuol dire scoprire l’io. È interessante che per lei questo venga fuori dall’impatto con la realtà.
D’Avenia: Inizio sempre le lezioni del primo anno del biennio spiegando un quadro: il Narciso di Caravaggio. Dico ai ragazzi: «Questa mattina abbiamo tutti condiviso questo dramma straordinario dello specchio. Non potevate uscire dal bagno». Il primo giorno di scuola al biennio è una specie di prova del sangue, ti manifesti per la prima volta ai compagni e dici: «Chissà che pensano di me? Come mi vesto oggi?». Ti svegli con due ore di anticipo e prepari i vestiti la sera prima... Poi aggiungo: «Però la cosa straordinaria, la differenza fra voi e noi adulti qual è? Mentre noi abbiamo un po’ imparato come siamo fatti, per cui ci guardiamo allo specchio e abbiamo acquisito quel coraggio che ci consente di aprire la porta del bagno e affrontare il mondo, voi tenete quella porta chiusa. Avete una paura matta di quel che c’è fuori, perché quel mondo non conosce chi siete in profondità. Temete che non vi comprenda, che vi massacri. Ma benedetta questa prima volta in cui si percepisce la distanza fra quello che si vede in superficie e quello che cominciate a percepire di essere. Benedetto questo momento dello specchio. Se mettete di fronte allo specchio un gatto o un neonato, pensano di avere di fronte un altro gatto e un altro bimbo». L’adolescente è chi per la prima volta dice: «Cavolo, quello sono io. Ma sono più di quello, perché riesco a dire “quello sono io”». Allora si comincia a lavorare su quel «sono io». Solo che cosa accade? Si cerca di costruire sulla superficie che si vede nello specchio quell’identità che invece va costruita nel profondo.

Questo, in qualche modo, non è anche il bello di quell’età?
D’Avenia: In un certo senso, sì. Basta pensare a una cosa: perché noi vogliamo amare persone profonde e non superficiali? Perché lo dobbiamo diventare, profondi. Non è che uno nasce profondo. Uno scopre che è fatto “a strati”, però non ha ancora gli strumenti per attivare quelli più profondi. Allora prova con i piercing, i vestiti, la pettinatura... Se poi ha la fortuna di incontrare qualcuno che lo aiuta a fare questo, come succede a Leo, allora forse uno comincia a crescere. Se no, il rischio è che rimanga in superficie. E magari finisce il liceo che non sa neanche quale Facoltà scegliere, che è una cosa che a me fa venire i brividi... Non nel senso che uno deve avere tutto chiaro. Però almeno deve sapere dove si indirizza il suo sguardo, cosa lo mette in movimento e cosa invece lo lascia inerte.

Nel libro, c’è molto dei suoi alunni?
D’Avenia: Ci sono pezzi delle loro vite. Per esempio, a un certo punto, ricevo la mail di una di loro. Due righe: «Dio non esiste». E poi, a capo: «Dio non mi vuole bene». Sono due righe meravigliose, perché la seconda contraddice la prima. Io ti dico che in realtà esiste; solo che non mi vuole bene. Quindi non esiste per me. E questo è l’altro tema che mi stava a cuore: non possono farci credere che i ragazzi non si fanno domande su Dio. Non ne potevo più di questo. Perché non è vero. Un tema su due ha dentro questa domanda. Fai i Promessi sposi e quello ti interrompe: «Ma com’è possibile che Dio permetta quello che è successo?». Parli dell’Innominato, e si alza la mano: «Perché la conversione?». Ecco, questa era una delle cose che volevo affrontare. Sapevo di attirarmi tante critiche da un certo mondo, che di queste cose non vuol sentir parlare.

Antonio: Man mano che leggevo, mi ha sorpreso il livello di profondità che Leo raggiunge. Però mi è rimasto un certo fastidio per un accento sentimentale molto spiccato. Perché questo tono? Non si rischia di annacquare il problema trattandolo così? E poi: se il problema è incontrare chi ti aiuti ad “attivare gli strati profondi”, deve essere qualcuno diverso da te. Nel libro, il Sognatore dà l’impressione di essere un adulto che prova a mettersi al livello dei suoi ragazzi...

D’Avenia: Uno dei motivi per cui ho deciso di diventare insegnante è stato padre Pino Puglisi (il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993, ndr), che ho avuto come prof a Palermo. Liceo pubblico: eravamo in 1500, un caos. Noi, tra un’occupazione e l’altra, eravamo convinti di avere il mondo in mano. Guardavo questo sacerdote piccolino, magro, sempre sorridente, e dicevo: «Ma figurati!». Poi, quando è morto, poco prima della seconda liceo, ho capito la differenza fra noi (e gli altri prof) e lui: lui le parole che diceva le viveva veramente, anzi c’era morto. Poi vedevo il mio insegnante di Lettere, che era un sognatore davvero: a 65 anni ancora balbettava nel raccontare Dante. Infine, un film: L’attimo fuggente. L’ho visto e ho detto: voglio fare questo. A poco a poco, quella figura l’ho ridimensionata, perché è abbastanza pericolosa: Keating porta i ragazzi a se stesso, mentre il sognatore porta Leo a Leo. Cioè, aiuta Leo a diventare più Leo. Io sono un nemico assoluto del professore “amicone” e un sostenitore sfegatato dell’asimmetria del rapporto. Ma credo che la luce guida per ogni insegnante sia il principio di Incarnazione.

In che senso?
D’Avenia: Nostro Signore, per spiegarci chi è l’uomo, si è fatto uomo: ha dovuto provare la fame, la sete, sudare, addormentarsi sulla poppa di una barca in tempesta... Lui è Maestro perché si è immerso in maniera sconvolgente in quello che siamo noi. Non ha rinunciato ad essere Dio: è perfetto Dio e perfetto uomo. E proprio per questo ci viene a tirare su: sposa tutte le contraddizioni del nostro cuore, però rimane Dio. Questa è la luce che mi guida nell’insegnamento: per me, non è altro che partecipare a questo aspetto di maestro, che c’è in Dio. Mi devo in qualche modo incarnare nei miei alunni. Il che non significa mai smettere di essere un adulto, ma sposi le loro contraddizioni. Mi ha scritto un ragazzo di 17 anni: «Grazie per questo libro, perché c’è dentro tutto quello di cui abbiamo bisogno. Ci comprende, ma non ci fa sconti». Per me è stata la critica più bella. In classe, sono molto esigente, ma allo stesso tempo provo a non dimenticare tutto ciò che è successo a quell’età. Sono un adulto disposto ad accompagnarti in questo viaggio: se hai bisogno, sai che io ci sono e che mi metto in gioco. Certo, trovare la giusta distanza in un lavoro di incarnazione è difficilissimo: a volte sbagli, perché esageri. Però ci provi. Questo è legato al problema del sentimentalismo. Oggi siamo in una grande melassa sentimentale: in qualche modo bisogna immergersi. Sperimentare le contraddizioni, magari un linguaggio un po’ da Facebook. E da lì risalire. Non vorrei che suonasse un assurdo, ma quando a Nostro Signore dicono che è un mangione e beone perché mangia con quella gente lì... in fondo gli fanno questa critica. Insomma, è vero che è un libro sentimentale. Io sono un po’ così...

Dado Peluso: L’uso della prima persona è accattivante, perché fa sentire il lettore immerso nella storia. E mostra come cresce questo ragazzetto. È interessante che nel libro il tema della vocazione, cioè di cosa può costruire uno nella vita, rimanga aperto: perché è un cammino che deve fare il ragazzo. E mi colpisce il rapporto con il padre: è il rapporto con un adulto che ha una proposta chiara.

D’Avenia: La figura di questo padre mi sta molto a cuore. Il prossimo romanzo lo scriverò su questo, ci sto già lavorando. Oggi, la grande assenza è dei padri. È il motivo per cui, poi, il Padre sembra ancora più assente. Leggendo la cosiddetta “letteratura adolescenziale”, trovi mamme-carabiniere, cioè rompiscatole clamorose, e padri falliti. Adulti che, al massimo, hanno la nostalgia dell’essere adolescenti. Allora perché devo crescere, se crescere è diventare uno che ha nostalgia di essere come sono io ora?

Più che della letteratura, è il problema dell’educazione: che riguarda innanzitutto gli adulti.
D’Avenia: Il bello è manifestare che vale la pena essere adulti senza nascondere le proprie debolezze. Io ho avuto un padre così. Questa presenza paterna è l’ingrediente educativo forse oggi più mancante. Con la madre abbiamo questo rapporto simbiotico di protezione: c’è nel momento in cui abbiamo bisogno. Ma è il padre che ti lancia in aria. Quando il papà prende il bambino e lo lancia in aria, la mamma, la madre terra Gea, dice: «Che fai, stai attento...». Mentre è Urano che lancia il bambino al cielo, perché lo lancia nella realtà. Questa diversità di stili educativi tra uomo e donna, secondo me, è uno dei problemi che c’è oggi. Il padre di Leo è un uomo che lo sfida, investe su di lui.

I momenti topici del rapporto tra il Sognatore e Leo sono due momenti di sfida. Non è un rapporto così soft. Mentre l’aspetto fondamentale del rapporto con il padre è quando gli dice: «Mi fido di te». Mi sembrano due momenti fondamentali dell’educazione: tu provochi l’altro perché venga fuori per quello che è, e contemporaneamente investi sulla sua libertà. Voi che ne dite, ragazzi?

Caterina: Quando vedo un professore, io mi appassiono di più alla sua materia se vedo che dà fiducia alla mia capacità. Se trovo un interesse che lui ha per me, per me tutta intera, per quello che io sono.

D’Avenia: Hai usato un’espressione meravigliosa: «Me tutta intera». È il bisogno che venga presa tutta la persona, e non solo il cervello da riempire di nozioni. Per la correzione dei temi, ho iniziato a usare una legenda con 15 simboli: in modo che scoprano loro gli errori, perché se li correggo direttamente non imparano. L’ultimo simbolo è un punto esclamativo, che significa «passaggio notevole». Una mia alunna mi dice: «È la prima volta che qualcuno, nel correggere i temi, metterà che abbiamo fatto qualcosa di positivo e non solo gli errori». Mi sono detto: cavolo, ma ci ho messo dieci anni a capire questa cosa? Se sbagliano, glielo diciamo subito. Se fanno qualcosa di bello, perché siamo così avari nel dirglielo? Li aiuta. È proprio questo punto: la fiducia. È come dire: «Tu sei questo, e io sono fiero che tu sia questo. Ed è da questo che prendi forza per superare le tue difficoltà, i tuoi limiti». Ha dentro il «mi fido di te», ma anche una sfida. Per me, sono due fortissimi ingredienti educativi: la capacità di contenere, l’altra di rilanciare.

Nel libro, il bianco è il colore che spaventa Leo. È segno del vuoto, del male. Da dove hai preso questa idea?
D’Avenia: Dai miei alunni. Un giorno mi ero dimenticato di preparare il tema in classe, ho improvvisato il titolo: «Ricordi bianchi, azzurri e rossi». I ricordi associati al rosso erano le esperienze che mi aspettavo: l’amore, la passione, la battaglia, la sfida. L’azzurro era associato alla tranquillità, all’amicizia. E poi mi ritrovo con questo bianco associato quasi sempre ad esperienze negative. Io amo Dante. Lì il bianco è la luce, c’è dentro tutto. Invece ti trovi che per un ragazzino il bianco è un colore associato a esperienze di perdite, di paura, di dolore. Mi sono detto: questa cosa mi interessa, ci voglio guardare dentro. Mi sembra che abbia dentro gli ingredienti tipici dell’adolescenza: sei in un’epoca della vita in cui non vuoi più avere limiti, ma allo stesso tempo cominci a fare esperienza che certe cose ti spaventano proprio perché non hanno limiti. Il bianco ha dentro questa ambiguità: è un colore senza limiti, che ti fa l’effetto della vertigine. Allo stesso tempo ti fa paura, perché dici: se veramente non ha limiti? Leo, in pratica, si chiede se veramente l’amore è più forte della morte. Che poi è la domanda di fondo di tutto il romanzo: a un certo punto c’è la citazione esplicita del Cantico dei cantici. L’idea ha dentro questo aspetto: il bisogno di qualcuno che mi contenga un po’, quando il bianco sembra prevalere e, insieme, questo desiderio di farmi strada da solo. Sono io che me la devo giocare. Però tu mi devi contenere, cioè mi devi dire che c’è qualcosa per cui vale la pena vivere e che la parola “morte” non è la fine.

Perché dice “contenere”?
D’Avenia: C’è un momento in cui tu non riesci a decodificare la tempesta che ti prende. Allora hai bisogno che qualcuno ti dica: «Guarda, questo che ti succede è normale. Non sei strano, non sei pazzo». E che quindi ti rassicuri su un futuro che sarà diverso, se impari a “decodificare” quello che ti sta succedendo.

Ragazzi, cosa vi ha colpito del libro?
Caterina: Quando ho letto “Beatrice” ci ho messo un po’ a collegarlo alla Divina Commedia. La Beatrice di Dante, come la Laura di Petrarca, porta l’autore, il poeta, a fargli pensare qualcosa d’altro: lo portano oltre quello che sono loro. Anche la sua Beatrice è così, no? Richiama Leo alla realtà. Lo fa accorgere di Silvia. Gli ricorda che c’è Silvia, che c’è la realtà.

D’Avenia: Sono allibito dall’osservazione. Nel libro, Beatrice è la realtà. Il fatto che sia “bianca come il latte e rossa come il sangue” è perché la realtà è così. Leo all’inizio pensa che l’amore sia rosso e basta. Poi scopre che c’è un altro lato che dà forza, che c’è bisogno di questi due colori. Beatrice di fatto è un simbolo della realtà. Perché? Quando ci innamoriamo per la prima volta, noi capiamo che il senso della realtà sta lì. Nell’amore. Poi siamo talmente inermi di fronte alla realtà che questo ci investe in una maniera incontrollabile: ma lì, c’è la prima intuizione che la realtà si impernia su questa cosa. Poi è tutto un cammino per imparare a farlo.

Paola: Perché, allora, nel libro parla così tanto di “sogno”? Sembra una cosa un po’ irreale. Ma il sogno cambia, insieme al personaggio? Cioè: “sognare” per lei vuol dire “desiderare”?

D’Avenia: Sì. Però questo parte dal fatto che tu ti conosca per quello che sei, cioè capisci di essere un progetto voluto da qualcuno. A me l’ha spiegato in maniera chiarissima mia mamma, che un giorno mi ha detto: «Io e tuo padre abbiamo voluto un bambino, Dio ha voluto te». Non ti lascia scampo. Dio ha voluto te. Vuol dire che tu, come sei, sei voluto bene. Dante fa questo: comincia a guardare il male che ha dentro, la selva oscura, e fa tutto il percorso per riuscire a capire se l’amore che muove il sole e le altre stelle contiene lui stesso. Arriva a guardare la Trinità. Ci guarda dentro, ne vede il centro, che è Gesù Cristo e il suo volto. E dice: io sono contenuto nell’amore che muove tutto. Allora torna alla realtà. Perché Dante questo viaggio lo fa dalla realtà e ci ritorna, non è che poi finisce. Ecco, questo è il mio “sognare”: stare nella realtà. Nelle 24 ore hai la misura sufficiente per la tua felicità. Comunque, hai colto bene: il sogno si evolve.

Paola: Leo all’inizio quasi sfida Dio: «Se esisti, fai guarire Beatrice». Però mi ha entusiasmato quando dice: se Beatrice scrive a Dio nel suo diario, allora sicuramente esiste. Perché è così. Vedi una persona che dice «Dio esiste» e ti accorgi che è più felice di te. Però, alla fine, lui non scopre niente di così certo.

D’Avenia: Scopre la realtà. E se scopri la realtà, a Dio, prima o poi, ci arrivi. Io ho questa grande fiducia. Leo, per com’è all’inizio, Dio non lo vede manco di striscio. Il fatto stesso che lo cerchi anche solo per prendersela con lui - c’è un passaggio molto duro in cui lui bestemmia - vuol dire che cerca un rapporto con lui. Quindi non è vero che non si arriva a niente. Poi arriva a dire: io voglio un rapporto con te, ma non riesco a capire se tu sei veramente un padre. Questa è l’ambiguità che rimane in Leo.

Antonio: L’idea che se scopri la realtà prima o poi a Dio ci arrivi, mi convince molto. Al funerale di Beatrice, Leo sente la predica di Gandalf, poi sente la consacrazione e dice: «Anche Dio spreca il suo sangue: una pioggia infinita di amore rosso sangue bagna il mondo ogni giorno nel tentativo di renderci vivi, ma noi restiamo più morti dei morti. Mi sono sempre chiesto perché amore e sangue avessero lo stesso colore: adesso lo so, tutta colpa di Dio!».

D’Avenia: È la realtà che ha Dio dentro. Il problema è se noi entriamo veramente, o no, nella realtà.

Il rapporto con i ragazzi è cambiato da quando è diventato famoso?
D’Avenia: Con i miei no, perché sono parte di questa avventura. Avevo fatto leggere loro la prima versione del romanzo, chiedendo che cosa pensassero. È stato bello vedere che, per esempio, nella prima versione Niko quasi non c’era. Ma un alunno mi ha detto: «Questo Niko è più figo di Leo, io lo voglio conoscere. Che fa questo? Come la pensa?». Da lì è nato il torneo di calcio, che non c’era e che ha reso il romanzo ancora più forte, perché c’è il momento in cui Beatrice lo chiama e lui deve rinunciare alla finale. Oppure un’altra mi dice: «Qui si vede troppo che il linguaggio è suo e non è di Leo»... Mi è servito anche per limare. È un po’ anche loro.

Antonio: Il prossimo libro sarà sempre di questo genere, “adolescenziale”?

D’Avenia: Vorrei raccontare una storia che ha come protagonista sempre un’adolescente, però questa volta in terza persona, perché è una ragazzina. Che un giorno scopre che il papà non tornerà più a casa. E allora che succede? Cosa accade nel cuore di questa ragazzina? Che succede nella storia? Non lo so, lo sto scrivendo, vediamo. Ma mi interessa moltissimo questo. Vedo che i miei alunni, con genitori separati, hanno degli occhi diversi rispetto agli altri. È un dolore che io non ho provato, grazie a Dio. Ma mi interessa guardarci dentro. Anche per capire un po’ di più come aiutarli a ritrovare fiducia. Vorrei arrivare fino a dire che proprio dal dolore, poi, nascono le cose più belle della vita: il punto di forza di questa ragazzina, così come il suo punto debole, sarà proprio questa assenza. Nella nostra vita, il paradosso è un po’ quello: i nostri talenti sono anche i nostri punti deboli.

Giovanni: Fino a un certo punto del libro, mi sono sentito identico a Leo. Però a me non è mai capitato di trovare qualcosa che mi facesse appassionare alla scuola. Forse è il fatto di scoprire cosa può cambiare, che mi ha tenuto attaccato al libro.

D’Avenia: Il regalo che mi ha fatto questo romanzo è semplice: recuperare uno sguardo. Tempo fa ho letto una frase di Benedetto XVI: «Il segreto della giovinezza è scoprire cosa rimane stabile quando la giovinezza passa». Mi ha fatto capire che cosa mi aveva dato il romanzo. Che cosa dell’adolescenza vale la pena mantenere per tutta la vita, senza diventare adolescenti di ritorno? È proprio questa apertura al bene, alla bellezza, alla verità che per la prima volta si scatena a quell’età. Ecco, il bello di Leo che io desidero mantenere è questo: a cinquanta o sessant’anni, spero di mantenere questa apertura al reale. La cosa che mi fa paura è il momento in cui mi stancherò di fare il mestiere che facciamo. Spero non accada.

Per non stancarsi, bisogna stare in compagnia di gente che ti rilancia di continuo questa sfida.
D’Avenia: Infatti questi ragazzi, se li prendi sul serio, ti costringono a questo.