Questione educativa e rinnovamento dell’iniziazione cristiana, di Maria Teresa Moscato
Presentiamo sul nostro sito la relazione della prof.ssa Maria Teresa Moscato (Università di Bologna), tenuta nel corso del XLIV Convegno nazionale dei Direttori UCD Bologna 14-17 giugno 2010 dedicato al tema La questione educativa nell’iniziazione cristiana per le nuove generazioni. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2010)
La questione educativa del nostro tempo è diventata troppo complessa per essere analizzata nel breve spazio a mia disposizione: dirò solo che assistiamo, soprattutto negli ultimi quaranta anni, ad una sparizione perfino dell’idea di educazione dall’orizzonte culturale e dall’immaginario sociale, e in parallelo a trasformazioni del costume e degli stili di vita che rendono sempre più difficile l’avvenimento dell’educazione1.
Per educazione intendo un processo interattivo, un percorso assistito da una forma di “cura” intenzionale dell’adulto, con cui il piccolo dell’uomo si fa umano, all’interno di un orizzonte culturale. Ogni immaturo, consolidando la sua personale identità, raggiunge una soglia di autonomia che fa di lui un nuovo “custode” della vita (sua e di quella degli altri).
Ciò avviene attraverso la sua progressiva corresponsabilizzazione nella relazione educativa, dentro la quale egli cambia progressivamente il suo grado di crescente autonomia. In altri termini: nessuno si educa da solo, ma nessuno può essere educato contro la propria volontà: l’essere educati e l’educarsi appaiono reciprocamente inseparabili.
C’è una bella metafora di Platone, che disegna la fine (e insieme lo scopo) dell’educazione nella costruzione di una “città interiore”, dotata di una propria costituzione e di un proprio custode:
“Non si permette [ai fanciulli] di essere liberi finché non abbiamo organizzato dentro di essi, come in uno stato, una costituzione e, coltivando la loro parte migliore con la migliore nostra, non abbiamo insediato nel fanciullo al nostro posto un custode e governatore. Allora soltanto possiamo lasciarlo libero”2
La metafora della città interiore, con la sua costituzione e il suo governatore, evidenzia l’interiorizzazione delle norme come condizione dell’autonomia personale, che è raffigurata appunto dal “custode interno”, generato nel fanciullo dal processo educativo.
È ancora da sottolineare, nella metafora platonica, quel “coltivando la loro parte migliore con la migliore nostra”, altra metafora nella metafora, che evidenzia la consapevolezza di un dinamismo interattivo, fra adulti e bambini, di una responsabilità progettuale asimmetrica, di una potenzialità germinativa che esige “coltivazione”, cioè progetto, selezione e decisione, e che non può compiersi senza rischi: l’educatore deve sempre decidere quale sia “la parte migliore” di sé con cui avviare la coltivazione della “parte migliore” dei fanciulli. Tuttavia si tratta pur sempre di una rappresentazione dell’educazione che impegna l’adulto a “rendersi progressivamente superfluo”3.
Detto ancora in altri termini, la rappresentazione dell’educazione presente per millenni nella cultura occidentale, in qualsiasi versione sia giunta fino a noi, sottintende sempre che l’umanità alla nascita sia una pura potenza, e che solo attraverso un’azione collettiva della comunità adulta (e sempre sperando nell’assistenza benevola della divinità), il figlio, quella vita nuova che costituisce sempre anche la “novità della vita”4, diverrà pienamente umano.
Cerimonie e rituali iniziatici, nelle cultura antiche, ma anche grandi narrazioni fino all’età presente5, hanno sempre messo in scena la necessità che ogni immaturo venga in qualche modo “messo alla prova”, che “dimostri” il proprio valore, rivelando quelle “virtù” (maschili e femminili) che la comunità di riferimento gli ha proposto come caratterizzanti l’umanità desiderabile. E il valore era un tempo la condizione del riconoscimento sociale e dell’accettazione personale di ciascun membro di un gruppo6.
Ciò lasciava implicita l’idea forte che ci si formasse deliberatamente per “valere”, e non che si esprimesse la propria spontaneità come valore. Gli antichi rituali iniziatici, e così tutte le forme di iniziazione simbolica, non segnano tanto l’inizio assoluto del cammino del neofita, quanto la nuova fase di esso, ad esempio l’uscita dall’infanzia, o la fine dell’adolescenza.
Ogni rituale iniziatico, in altri termini, evidenzia, per un verso, la nuova responsabilità dell’iniziato, e per l’altro, il cammino che egli ha percorso, sotto la guida dei genitori e dei maestri, prima di accedere a tale momento essenziale di verifica e di “passaggio” al nuovo stato. L’iniziazione è una struttura simbolica presente in tutta la storia umana, strutturalmente interconnessa con le concezioni educative di ogni popolo, ma anche con le sue convinzioni religiose7.
Oggi, invece, l’ambigua rappresentazione sociale dell’educazione migliore come quella più “naturale” e spontanea (cioè quella che meno “governa” e “contiene” il bambino), porta molti genitori bene intenzionati, e convinti di stimolare così creatività ed autonomia precoce nei loro bambini, ad autentiche forme di “abbandono” educativo.
Questa ambiguità nella rappresentazione dell’educazione si riflette anche sulla rappresentazione di una possibile “costruzione dell’identità”, nel senso che anche l’identità, che è un apparato psichico, viene rappresentata come originariamente data, e collocata in un “Sé autentico”, che deve essere “lasciato emergere”. In quest’ottica si lasciano “liberi” bambini e ragazzi di agire dei comportamenti sociali, e in particolare affettivi e sessuali, considerati “spontanei”, ma che un tempo si consideravano espressioni di una condotta adulta.
Contemporaneamente, si perde la percezione che tali comportamenti spontanei esigano una educazione remota e specifica. Salvo poi a venire dolorosamente sorpresi da condotte adolescenti aggressive e crudeli, e da una sessualità precoce e disordinata, apparentemente priva di significati, e di reali investimenti affettivi ed etici.
Gli elementi che confluiscono in questa emergenza educativa sono l’adultismo e lo spontaneismo per un verso e le trasformazioni della struttura familiare per l’altro. L’influenza educativa dei genitori cede di fronte a legami sentimentali e amicali precoci, nell’ambito del gruppo dei coetanei, cui di fatto l’adolescente chiede appartenenza per guadagnare sicurezza personale.
Altri elementi decisivi sono la globalizzazione economica e le migrazioni, ed infine i fenomeni mediatici e la diffusione delle realtà virtuali. Quest’ultimo elemento costituisce una novità radicale nella storia umana: i gruppi primari hanno sempre mediato, “filtrandolo”, l’orizzonte culturale circostante, svolgendo così una funzione di controllo, ma anche di protezione, delle generazioni più giovani. Oggi può accadere viceversa che sia l’orizzonte mediatico a conferire significato alle relazioni familiari, e comunque ai gruppi primari di appartenenza: anche la scuola quindi, e gli ambiti ecclesiali, vengono ridefiniti da fiction accattivanti, in cui preti, suore, o professoresse di italiano, operano soprattutto da investigatori (e con incredibile successo).
Il sistema attuale della comunicazione di massa, in tutte le sue versioni, dal cinema ai canali televisivi, e soprattutto alle reti internet, sembra presentare anche una frammentazione strutturale, una eterogeneità estrema e dispersiva, in rapporto anche alle sue smisurate dimensioni quantitative. In realtà il sistema mass-mediatico ha generato un orizzonte socio-culturale complessivamente unitario, dotato anche di forti elementi trasversali di sintesi: le “grandi narrazioni”, le mitologie sociali proprie delle diverse culture sono state tutte sostituite da nuove narrazioni unificate, in cui anche elementi culturali contaminati - come i cartoni giapponesi – mediano però modelli di condotta maschili e femminili molto più simili, in termini simbolici, di quanto non faccia percepire la ricchezza delle loro figurazioni. La forza e ampiezza della comunicazione mass-mediatica, e il canale virtuale attraverso cui essa penetra in ogni microambiente, è tale da oltrepassare tutte le possibili mediazioni dei gruppi primari, e comunque degli ambienti relazionali concreti. E sfugge alla percezione comune, soprattutto dei giovani, che anche il sistema mass-mediatico è in realtà un sistema di mediazioni culturali controllate da qualcuno (e non una finestra aperta sulla “realtà” del mondo esterno).
Anche a prescindere dai contenuti culturali mediati dalle reti, in termini di qualità e valore, la virtualità costituisce una forma di esperienza cognitiva ed emozionale con proprie caratteristiche. Dietro la sua apparente immediatezza e concretezza (vedo, sento, interagisco) la virtualità è anche una falsificazione dell’esperienza concreta, data la sua dimensione, per un verso ludica, e per l’altro decisamente illusoria: solo nel gioco l’avversario ucciso ritorna in vita. E la crescente tendenza a instaurare relazioni via internet, in chat in cui è possibile nascondere la propria reale identità, l’età, il sesso, la posizione sociale; perfino la crescita di giochi in cui si entra con un’identità deliberatamente simulata, l’avatar (e talvolta si costruiscono amicizie a partire da questi incontri), fanno pensare ad una sorta di “mutazione antropologica”.
In realtà la “mutazione” deve essere intesa con riferimento alla dimensione con cui l’esperienza culturale interviene nella concretezza della condizione umana “mutandola”. Ambiguamente però il termine viene usato con riferimento alla natura umana, quasi che essa si fosse modificata ontologicamente. In realtà, pensare a una sua mutazione evolutiva, in tempi così brevi rispetto anche ai milioni di anni dell’evoluzione umana, sarebbe comunque una sciocchezza. Il dato significativo è piuttosto l’estrema plasticità culturale della nostra natura, il fatto che l’umanizzazione è inseparabile dalla vita dentro una cultura storica. Ma questo è un altro discorso.
L’esperienza virtuale sembra eliminare la solitudine, fornendo un illusorio senso di dialogo e di compagnia, dialogo che però i giovani soggetti non sembrano più capaci di sperimentare in presenza fisica. La virtualità spalanca mondi lontani e scavalca, almeno apparentemente, ogni difficoltà d’ordine materiale che si dovrebbe affrontare nel quotidiano. Questi elementi ci pongono di fronte a generazioni infantili che hanno stili cognitivi e dinamismi emozionali apparentemente diversi da quelli delle generazioni precedenti, e quindi, presumibilmente, anche bisogni educativi diversi da quelli per noi più facilmente intuibili (pur in una comune condizione umana universale).
Intendo dire che, ad esempio, si incontrano bambini incapaci di organizzarsi spontaneamente in un gioco sociale (situazione un tempo osservabile solo in bambini gravemente traumatizzati o socialmente molto svantaggiati); la concentrazione dell’attenzione e lo sviluppo linguistico appaiono molto ridotte nella maggior parte degli adolescenti (per evidente difetto di addestramento e di esercizio).
Ma soprattutto sembrano mancare (o tardare a svilupparsi) alcune strutture dell’apparato dell’Io, essenziali per la socialità matura, ma costitutive anche della religiosità. Intendo riferirmi alla “costanza oggettuale”, cioè la percezione di una realtà esterna all’Io e ad esso non riducibile, che si riferisce alla materialità del mondo, al suo senso, e alla divinità; alla relazione originaria Io/Tu, che genera la percezione dell’altro come Soggetto, e che attraverso la catena di relazioni, dal “primo altro” materno all’ultimo Altro divino, accompagna le tappe della maturazione adulta fino alla fine della vita. Entrambi questi elementi sono apparentemente “cancellati” dal dilagante narcisismo dell’Io, perduto e imprigionato in un gioco di specchi in cui non può incontrare neppure se stesso8.
E c’è ancora un elemento essenziale che confluisce nella sparizione dell’idea di educazione, ed è la progressiva riduzione dell’esperienza (e della pratica) religiosa nelle generazioni adulte: non sto dicendo che dal momento che è sparita l’idea di educazione non educhiamo più alla religiosità. Sto dicendo che, al contrario, nella misura in cui non siamo più religiosi non riusciamo a percepire la necessità dell’educazione e la responsabilità comune verso di essa.
In questo quadro, che cosa può significare per noi oggi “rinnovare” l’iniziazione cristiana? Quel momento che tradizionalmente si faceva coincidere con la prima somministrazione dei sacramenti dell’Eucaristia e della Cresima, con il pregresso percorso catechistico presso la parrocchia (nella mia infanzia si chiamava “la dottrina”), era in realtà preparato da un’esperienza vitale e sociale di tipo religioso più o meno consapevole.
Per molti bambini, la prima esperienza della comunione era indiretta: in braccio al padre o alla madre che vi si accostavano. La preghiera cominciava con gesti infantili, diventava abituale, insieme alle narrazioni delle storie della Bibbia, molto tempo prima che nella fantasia mitizzante del bambino si aprisse un tarlo di consapevolezza.
C’erano i matrimoni e i funerali, i battesimi e le comunioni dei fratelli e dei cugini, e tutte queste cerimonie avvenivano in quella grande casa comune (spesso un po’ oscura e inquietante, per la verità) che i grandi chiamavano “chiesa”. In chiesa si incontrava di fatto (e spettegolava sempre un po’) una comunità sociale di riferimento. Il bambino alle soglie della preadolescenza desiderava ricevere i sacramenti prima di tutto per essere simile ai suoi fratelli maggiori, cugini, compagni di scuola, per avere la “sua” festosa cerimonia. Con i compagni di catechismo, e poi di azione cattolica, e comunque di gruppi parrocchiali giovanili, si potevano costruire amicizie non meno forti di quelle sorte fra i banchi di scuola.
Non che questo fosse - naturalmente - un mondo perfetto. Da sempre, nell’esperienza umana, solo la grazia divina ha garantito la possibilità dell’incontro con Dio a ciascuno di noi. Per di più, quando una religione diventa l’anima inseparabile di un sistema culturale e sociale storico (e questo è certamente avvenuto alla fede cristiana nell’arco di due millenni), esiste il rischio che anche la dimensione religiosa in senso proprio e più profondo si confonda con ideologie, convinzioni sociali e stili di vita. La pressione di conformità sociale può attenuare la religiosità personale autentica: nessuno si pone più il problema di Dio dove tutti danno per scontato che si tratti di un problema risolto e che il volto divino sia pienamente posseduto da una comunità storica. Evidentemente, nessuno si pone più il problema di Dio anche dove la società circostante lo consideri definitivamente risolto dalla certezza (scientifica) della sua impossibilità…
Perciò, per quanto il mondo imperfetto in cui è cresciuta la mia generazione fosse spesso caratterizzato da una grande ipocrisia moralistica, le opportunità di essere introdotti e sollecitati all’esperienza di Dio, attraverso l’incontro con adulti testimoni, erano per noi oggettivamente maggiori. Anche l’istruzione religiosa a scuola, dall’infanzia all’adolescenza, era per molti occasione di domande, di contestazioni, di conflitto, e riproponeva sempre il problema di Dio, della sua esistenza e della sua immagine.
Vorrei ricordare che la coscienza religiosa si spalanca nella sua dimensione abissale solo quando la persona si pone realmente alcune domande essenziali (la religiosità non nasce mai da verità socialmente scontate, le domande inquiete degli adolescenti sono la nostra maggiore garanzia). Ma è vero che un testimone adulto (più che un maestro) fa sorgere domande, più di quanto non fornisca risposte.
Vorrei insistere sulla forza educativa del testimone adulto: è sempre un “volto umano” che media il Volto divino nella sua persona, ed è anche il suggeritore, l’orientatore della “direzione dello sguardo”. Nella nota figura dantesca del sorriso di Beatrice e dell’ascesa di Dante al paradiso, guardando negli occhi di lei quel sole verso cui egli non può rivolgere direttamente lo sguardo (metafora teologica e pedagogica), si evidenzia come il problema non sia “che cosa dice” l’adulto, ma piuttosto, e soprattutto, “dove guarda” l’adulto.
Oggi riceviamo molto spesso in parrocchia per la catechesi bambini le cui famiglie non praticano alcuna religione, e non hanno fornito alcuna istruzione religiosa neppur minima: né una preghiera elementare, né una storia biblica o una parabola, né un segno di croce. Sono figli di adulti che forse non “guardano” neppure verso i propri figli. È straordinario quindi (e perfino un po’ misterioso) che ce li affidino. Forse - come mi ha spiegato con sufficienza una giovane madre istruita e “aperta” - “perché il bambino non deve sentirsi diverso rispetto ai suoi compagni”. Insomma, tanto preoccupati di non precludergli alcuna opportunità da mandarlo perfino alla catechesi di una religione che essi hanno personalmente abbandonato…
Quali bisogni educativi hanno i bambini della nuova generazione? Forse, proprio perché hanno già “tutto”, hanno bisogno di un altro “tutto”: capacità di gioco sociale, di creatività non tecnologizzata, di corporeità intelligente e armonica, di realismo, di significato, di senso etico, di contenimento esteriore per imparare a contenersi. Per quest’opera immane, oggi noi possiamo solo sensibilizzare la generazione giovane, renderla capace di pensarsi con una responsabilità educativa in tutti gli ambiti in cui incontrerà bambini e adolescenti. Per primi i giovani catechisti e animatori parrocchiali devono essere richiamati ad una più profonda comprensione dei loro effettivi percorsi educativi e dei loro presumibili bisogni personali. La comprensione e conoscenza di sé permane infatti la via maestra per la comprensione della personale umanità dell’altro.
Bisognerebbe che ogni bambino che accede al catechismo in parrocchia percepisse di avere incontrato lì una nuova “casa comune”, una comunità concreta di appartenenza possibile, di adulti e di giovani e di adolescenti, uno spazio educativo che gli si offre con disponibilità reale. Oggi a una parrocchia urbana può essere chiesta di fatto la stessa vocazione missionaria di uno sperduto avamposto nel deserto “dove la Parola non è pronunciata”. E paradossalmente l’educazione, che è la più basilare forma di “promozione umana”, diventa il primo oggetto di missione.
Naturalmente i discorsi metodologici e strategici necessari sono infiniti e tutti da sviluppare, e qui non vi stiamo neppure accennando. Ma il primo punto, il punto d’inizio per noi, è un rovesciamento di prospettiva: si tratta di fatto di operare e rinnovare una sorta di “primo annuncio”, di prima evangelizzazione, sia pure in un mondo culturale apparentemente segnato da due millenni di cristianesimo. In realtà la Buona Novella è da riconquistare per ogni nuova generazione, ma queste ultime sembrano particolarmente ignare, dimentiche, sfiduciate.
Incontrando nuove generazioni abbandonate di fatto a se stesse, rispetto al mondo del significato e del valore, la più elementare delle catechesi religiose può offrire un supporto educativo essenziale per soggetti tanto giovani. Bisogna formare i catechisti con una nuova attenzione pedagogica, segnalare ad essi gli effettivi bisogni educativi che i bambini potrebbero presentare. Ai catechisti, o aspiranti tali, vorrei affidare una sola breve meditazione pedagogica, che attiene al tema della fiducia, come esempio di quei discorsi specificamente pedagogici tutti da sviluppare.
Secondo gli psicanalisti, quella forza orientata iniziale, che possiamo chiamare “fiducia”, si genererebbe fin dal primo anno di vita dall’incontro con figure materne rassicuranti, che assolvono funzioni di “maternage” materiale, ma che soprattutto suscitano la fiducia e ne permettono il radicamento. Questo meccanismo arcaico nello sviluppo dell’Io assume un’importanza fondamentale perché la possibilità di avere/ dare fiducia ad un altro è la condizione per dare fiducia a se stessi.
In tutte le situazioni di sofferenza dell’Io nel corso dell’età evolutiva (dall’insuccesso scolastico alla socialità inadeguata, e fino alle condotte devianti) si osserva sempre un radicale difetto di fiducia di base in se stessi, da cui una diffidenza generalizzata nei confronti degli altri, da cui il soggetto si difende con forme di controllo aggressivo (oppure con forme di isolamento radicale falsamente autosufficiente). Pedagogicamente parlando, è essenziale comprendere che l’interazione continua fra la fiducia in sé e quella negli altri genera una sorta di circolo vizioso, per il quale chi non si fida di sé non può fidarsi dell’altro, e chi non si fida di nessuno non può fidarsi di se stesso.
Nelle relazioni che si instaurano con i bambini in un ambiente educativo, e a maggior motivo quando i bambini hanno già sperimentato dei vissuti di perdita e di “fiducia tradita”, l’educatore deve comprendere che solo ottenendo fiducia per l’adulto si potranno accompagnare i bambini a ritrovare fiducia in se stessi. La sfiducia non caratterizza solo i bambini provenienti da zone di guerra o di recente immigrazione: oggi la crisi di fiducia basica può emergere vistosamente in un bambino solo perché i suoi genitori si sono separati, ed egli si sente abbandonato e tradito da uno di loro, o peggio da entrambi.
Appaiono sfiduciati bambini che sentono “lontani” genitori presenti, ma troppo impegnati, e che non hanno mostrato fiducia nei figli; o ancora, per quanto possa sembrare paradossale, sono privi di fiducia basica bambini iper-protetti, viziati, e fortemente controllati da genitori eccessivamente ansiosi e possessivi. L’esperienza attuale dei giovani animatori nelle attività estive come il GREST attesta sempre più condizioni simili a quelle appena descritte.
La fiducia è la condizione indispensabile perché il processo di sviluppo dell'Io reintegri le tappe evolutive precedenti che fossero ancora lacunose. Per avviare il lavoro educativo è necessario che il bambino accetti positivamente l’ambiente (scuola, oratorio, catechismo, attività estive e sportive) come luogo di realizzazione e di protezione della sua stessa condizione infantile; questo non può accadere senza una certa fiducia del bambino nell'adulto che incontra in questo ambiente, una fiducia che gli permetta un almeno provvisorio affidamento a un tale adulto per affrontare compiti faticosi e difficili, e sostenere il rischio dell'insuccesso personale di fronte a contenuti e abilità dei quali non si conosce bene l'utilizzazione futura, ma soprattutto per le quali non si sa di essere potenzialmente capaci: mi riferisco non soltanto ad abilità/conoscenze di tipo genericamente scolastico (la catechesi è in questo senso anche un intervento didattico), ma anche ad abilità di gioco a corpo libero, ad attività sportive a squadra, al nuoto9, alle drammatizzazioni, e in genere a tutte le attività proposte da educatori e animatori nei centri diurni e/o estivi, nelle parrocchie e negli oratori.
Purtroppo, come abbiamo già detto, la capacità di "fidarsi" di un altro è inseparabile dalla fiducia in se stessi, come fondamentale orientamento dell'Io, determinato dalle primissime esperienze infantili. Erikson ha dimostrato che lo sviluppo positivo della fiducia basica determina in realtà una forza (una “virtù” dell’Io) che può meglio essere chiamata “speranza”, cioè la capacità di mantenere la fiducia, nelle persone e negli avvenimenti, pur sapendo che il bene potrebbe non avverarsi.
In effetti è la speranza la vera grande e insostituibile forza dell’Io, che accompagnerà tutto il corso della vita fino alla vecchiaia avanzata, e permetterà all’adulto di accogliere e sostenere la vita di altri. Tuttavia non c’è dubbio che la genesi della speranza come virtù personale sia determinata dall’instaurarsi della fiducia di base. Quando la capacità di aver fiducia non è stata sostenuta in termini sufficienti dall'ambiente familiare di provenienza degli allievi, l'insegnante e l’educatore non potranno ottenere fiducia a loro volta, se non stimolando in parallelo la fiducia dell'allievo in se stesso. Di norma un certo grado di "speranza" può essere indotto dagli educatori nell'allievo attraverso il supporto di una fiducia indimostrata nelle sue possibilità future; si fornisce così una provvisoria immagine di sé in termini progettuali, che poi viene lentamente sostituita da espressioni di stima e di riconoscimento oggettivo dei progressi realizzati, quando il bambino comincia a migliorare effettivamente le proprie prestazioni o le proprie condotte. Ciò vale per tutti gli ambiti di esperienza infantile.
C’è un sottinteso, in questo discorso: fede, speranza e carità sono tre virtù teologali, ma le stesse parole (fiducia, speranza, amore) indicano anche delle forze psichiche orientate, delle “virtù” umane che costituiscono il substrato materiale, che sottostanno ad analoghe energie spirituali, ma forse è meglio dire che esse “liberano” tali energie spirituali. E queste forze psichiche sono generate nel processo educativo. Vale a dire che, nella costruzione dell’identità personale, la fiducia di base e la speranza (come energie psichiche) costituiscono un buon substrato anche per la fede religiosa, che sottintende la capacità di “fidarsi” di Dio, ma anche di “fidarsi” dei testimoni privilegiati, della tradizione della cultura e dell’esperienza delle generazioni passate.
Ci vuole, viceversa, un lungo cammino di maturazione personale perché sia la fede in Dio divenuta adulta a permettere una calma fiducia piena di speranza in se stessi, negli altri e nella vita… (ma per fortuna accade anche questo).
Lo scopo del lavoro catechetico e di ogni istruzione ed educazione religiosa è che ogni figlio di Dio, generato dal Suo pensiero creatore, possa “conoscere il Padre e Colui che il Padre ha mandato”; in altri termini, che ogni creatura umana sia aiutata e sostenuta nel suo personale incontro con Dio. Se l’evangelizzazione promuove umanità, la promozione dell’umano favorisce la conversione. Anche se può sembrare strano ritornare a parlare di “promozione umana”, nel terzo millennio, in un mondo sazio e annoiato, sempre in cerca di emozioni (e di miracoli), ma allo stesso tempo chiuso in un cinismo diffidente, apparentemente impermeabile a qualsiasi annuncio. “In un’età che avanza all’indietro progressivamente”10, l’Annunzio, che rivela continuamente il Volto di Dio e il volto dell’uomo, costituisce un’impresa immane sempre da ricominciare… Perciò Eliot fa dire alla Chiesa, personificata nei suoi versi: “Non cercate di contare le onde future del Tempo/ Ma siate paghi di avere luce a sufficienza/ per trovare un appoggio al piede per fare il prossimo passo”.
Note
1 Lo ha scritto benissimo e ampiamente il saggio introduttivo al volume: AA.VV., La sfida educativa, Laterza, Roma-Bari, 2009.
2 PLATONE, La Repubblica, Libro IX, 590e-591.
3 La definizione dell’educatore come di “uno che lavora sempre per rendersi superfluo è del mio Maestro, Don Gino Corallo (Cfr. G. CORALLO, Educare la libertà, Scelta antologica a cura di M. T. Moscato, Bologna, CLUEB, 2009).
4 Il figlio come “novità della vita” (con tutte le potenzialità e tutti i rischi connessi a tale “novità” è un’immagine di G. Angelini (G. ANGELINI, Il figlio, Milano, “Vita e Pensiero”, 1992).
5 E’ stato M. Eliade a rilevare per primo come le narrazioni letterarie possano assolvere, per l’uomo moderno, la stessa funzione simbolica degli antichi rituali iniziatici. Cfr. M. ELIADE, Mito e realtà, (1963), trad. ital. Milano, Rusconi, 1974.
6 Rituali di “messa alla prova” sono tuttora evidenti nelle bande giovanili o delinquenziali. Ma ogni gruppo di adolescenti drammatizza, anche se in forme superficiali o aberranti, un dinamismo psichico arcaico di appartenenza.
7 Ho sviluppato ampiamente questi temi in: M. T. MOSCATO, Il sentiero nel labirinto. Miti e metafore nel processo educativo, Brescia, “La Scuola”, 1998. Cfr. ID, Il viaggio come metafora pedagogica, Brescia, “La Scuola”, 1994.
8 Si tratta di categorie di lettura psicanalitiche che non posso sviluppare in questa sede .Cfr. M. T. MOSCATO, Psiche e anima fra psicanalisi e pedagogia, “Orientamenti Pedagogici”, 55, n. 1 (325), gennaio-febbraio 2008, pp. 23-38; ID, Le teorie psicanalitiche e la loro antropologia implicita: una rilettura pedagogica, “Orientamenti Pedagogici”, vol. 55, n. 3 (327), maggio-giugno 2008, pp. 413-434.
9 Il nuoto, e il rapporto con l’acqua in genere, sono particolarmente importanti per sviluppare la fiducia nel sé corporeo, e la paura invincibile dell’acqua è indicativa di molte lacune nello sviluppo dell’Io infantile.
10 T. S. ELIOT, Cori da “La Rocca”, X