Il Padre nostro, dalla Lettera a Proba di sant’Agostino di Ippona

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 27 /10 /2020 - 22:55 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito dalla Lettera a Proba di sant’Agostino di Ippona (Lett. 130, 11, 21 – 12, 22; CSEL 44, 63-64) un brano sul Padre nostro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Maestri nello Spirito. In particolare sulla Lettera a Proba, cfr. La lettera a Proba, di Andrea Lonardo e File audio di una catechesi di Andrea Lonardo sulla Lettera a Proba, con antologia di testi.

Il Centro culturale Gli scritti (27/10/2020)

A noi sono necessarie le parole per richiamarci alla mente e considerare quello che chiediamo, ma non crediamo di dovere informare con esse il Signore, o piegarlo ai nostri voleri.
Quando dunque diciamo: «Sia santificato il tuo nome», stimoliamo noi stessi a desiderare che il suo nome, che è sempre santo, sia ritenuto santo anche presso gli uomini, cioè non sia disprezzato. Cosa questa che giova non a Dio, ma agli uomini.
Quando poi diciamo: «Venga il tuo regno» che, volere o no, certamente verrà, eccitiamo la nostra aspirazione verso quel regno, perché venga per noi e meritiamo di regnare in esso.
Quando diciamo: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra», gli domandiamo la grazia dell’obbedienza, perché la sua volontà sia adempiuta da noi, come in cielo viene eseguita dagli angeli.
Dicendo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», con la parola «oggi» intendiamo nel tempo presente. Con il termine «pane» chiediamo tutto quello che ci è necessario, indicandolo con quanto ci occorre maggiormente per il sostentamento quotidiano. Domandiamo anche il sacramento dei fedeli, necessario nella vita presente per conseguire la felicità, non quella temporale, ma l’eterna.
Quando diciamo: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori», richiamiamo alla memoria sia quello che dobbiamo domandare, sia quello che dobbiamo fare per meritare di ricevere il perdono.
Quando diciamo: «E non ci indurre in tentazione», siamo esortati a chiedere l’aiuto indispensabile per non cedere alle tentazioni e per non rimanere vinti dall’inganno o dal dolore.
Quando diciamo: «Liberaci dal male», ricordiamo a noi stessi che non siamo ancora in possesso di quel bene nel quale non soffriremo più alcun male. Questa domanda è l’ultima dell’orazione domenicale. Essa ha un significato larghissimo. Perciò, in qualunque tribolazione si trovi il cristiano, con essa esprima i suoi gemiti, con essa accompagni le sue lacrime, da essa inizi la sua preghiera, in essa la prolunghi e con essa la termini.
Le espressioni che abbiamo passato in rassegna hanno il vantaggio di ricordarci le realtà che esse significano. Tutte le altre formule destinate o a suscitare o ad intensificare il fervore interiore, non contengono nulla che non si trovi già nella preghiera del Signore, purché naturalmente la recitiamo bene e con intelligenza.
Chiunque prega con parole che non hanno alcun rapporto con questa preghiera evangelica, forse non fa una preghiera mal fatta, ma certo troppo umana e terrestre. Del resto stenterei a capacitarmi che una tale preghiera si possa dire ancora ben fatta per i cristiani. E la ragione è che, essendo essi rinati dallo Spirito, devono pregare solo in modo spirituale.