«Che cosa vince la paura in un bambino? La presenza della mamma». Antonio Polito. La paura e la presenza. La fragilità e i sogni del tecnicismo, la necessità dell’altro e l’assenza di autorità. Va in crisi una civiltà «sempre più indifferente all’idea stessa di Gesù». E ci lascia a un bivio... Un’intervista di Davide Perillo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /05 /2020 - 21:39 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito da Tracce di aprile 2020 un’intervista di Davide Perillo pubblicata il 2/4/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Cristianesimo e Musica.

Il Centro culturale Gli scritti (10/5/2020)

«È un’immagine forte. Ed è molto efficace, perché dice dell’esperienza di ognuno di noi». Quando Antonio Polito, 64 anni, editorialista del Corriere della Sera, ha letto l’intervento di Julián Carrón uscito sul suo giornale, l’1 marzo, è rimasto colpito da quel passaggio semplice e potente: «Che cosa vince la paura in un bambino? La presenza della mamma». Può sembrare strano vedere in quell’esempio una risposta al dramma che in pochi giorni ha stravolto il mondo e le nostre vite. Eppure è un punto cruciale. Il Coronavirus ci ha spinti di colpo nella crisi più grave degli ultimi decenni. Ha fatto emergere la nostra «paura profonda, quella che attanaglia l’essere», scrive Carrón: qualcosa a cui può rispondere solo «una presenza», ma non «qualsiasi presenza. È per questo che Dio si è fatto uomo», è entrato nella storia. Ed è per questo che è vitale, oggi, intercettare suoi testimoni, ovvero «presenze in cui si vede in atto una vittoria sulla paura». La chiave, insomma, è proprio quella, potente più di mille analisi: un’esperienza. Mamma e bimbo. E Polito la sottolinea così: «Ci vedo il bisogno di avere fiducia in qualcosa di più grande di noi, che ci ama infinitamente e quindi ci protegge. Come facciamo da bambini, appunto. A me, quando ho letto, è venuta in mente la Madonna della Misericordia di tanti quadri, hai presente? Apre il suo manto e ripara il popolo».

Anche lui è chiuso in casa da giorni, come (quasi) tutti. «È una forma di isolamento sociale, ma anche di avvicinamento familiare», osserva sorridendo: «Per la prima volta, dopo anni, stiamo sempre insieme...». Ed è lì, dal salotto domestico e da giornate fitte di scoperte inattese («hai mai provato a far funzionare Google Classroom? È un lavoro pazzesco») e dialoghi con i figli («anche loro stanno facendo uno sforzo eccezionale a stare blindati, ma capiscono il motivo»), che osserva l’Italia – e il resto del mondo – alle prese con uno di quegli eventi capaci di far venire a galla un’infinità di cose.

Cosa ci può liberare da questa paura?
È una delle lezioni più importanti che possiamo imparare. È urgente, perché questa vicenda del Coronavirus è qualcosa di molto profondo. Sta mettendo in crisi almeno quattro grandi miti di oggi, di una civiltà occidentale che è diventata sempre più indifferente all’idea stessa di Gesù. E lo dico, in qualche modo, da laico.

Quali sono questi miti?
Il primo, se vuoi, è quello della dea Gea. La Terra, la Natura. Per alcuni è diventata quasi un idolo. Come se fosse una divinità a sé stante da cui derivano tante ideologie: gli iperambientalisti più retrogradi, quelli che dicono che siamo troppi, che sarebbe meglio l’estinzione dell’uomo, che la Terra ha più diritti di noi... Non parlo dell’ambientalismo sano, intendiamoci: la natura è importantissima e difenderla è decisivo. Ma per le sue leggi, la vita combatte ovunque per affermarsi, anche in un virus. E questo va affrontato con ragionevolezza. La Natura non è Dio: è parte del creato. Cosa che vale anche per un altro mito, uguale e contrario: quello della Scienza.

Anche quella indispensabile, ma limitata...
Appunto. La modernità vive dell’idea che qualsiasi problema emerga o qualunque emergenza ci si pari davanti, Scienza e Tecnica saranno in grado di superarli. Troviamo il rimedio, e via: problema risolto. Non è così. Contro un virus nuovo, come questo, non esiste medicina: dobbiamo cominciare da capo, con pazienza. Cercando un vaccino che magari tra un anno potrà fermarlo, ma chissà che cosa sarà successo nel frattempo. È una prova che la tecnologia non può tutto. La scienza è fondamentale, ma non onnipotente. Può sembrare scontato, ma è una lezione importante per gli adoratori della dea Téchne.

E gli altri miti sfatati?
Vanno insieme, in un certo senso. Uno è il dio Ego, l’individualismo. Questa vicenda ci dice che in una condizione di emergenza soltanto certi comportamenti collettivi possono dare risultati. I tentativi egoistici, costruiti solo intorno all’interesse individuale, sono così inefficaci da provocare addirittura più danni: se scappo dalla “zona rossa” per tornare al Sud o mi trovo con gli amici al bar perché «tanto si ammalano solo i vecchi», divento parte del problema... La vecchia legge di fondo del mercato – cercare i propri interessi crea di per sé benessere per tutti – non sta in piedi. Ci sono campi della vita in cui non è così, e sono campi decisivi. Ma legato a questa illusione, se vuoi, c’è anche il quarto idolo, molto italiano: il Caos. Noi siamo convinti che tutto sommato le cose funzionano meglio se non si seguono le regole. Be’, non è vero.

Forse c’è anche un altro fattore che viene scardinato, legato all’Ego: quello che qualcuno ha chiamato «dirittismo». Tu lo hai formulato così, in un editoriale: «Da molto tempo abbiamo imparato a vivere di soli diritti. È giunto il momento dei doveri».
In fondo, l’idolatria dell’Ego da dove nasce? Dal benessere collettivo. È tipico di una società opulenta, sicura di sé, che pensa di aver risolto gran parte dei suoi problemi primari e quindi può dedicarsi alla cura di diritti vecchi e nuovi. Dagli anni Sessanta in poi, ne nascono in continuazione: alla privacy, alla scelta di genere, all’autodeterminazione... Ora l’emergenza ci mette di fronte alla necessità di doveri. Chiama a una responsabilità, insomma.

Carrón osserva che in una circostanza così «viene allo scoperto il cammino di maturazione che – ciascuno personalmente e tutti insieme – abbiamo fatto», emerge «la coscienza di noi stessi che abbiamo guadagnato». Tu cosa vedi affiorare?
Un tratto importante: il sentimento di vulnerabilità. Accorgersene è decisivo. Nel mondo dei nostri genitori o nonni, dove si moriva a trent’anni, un’epidemia come questa era quasi un evento normale. Oggi no, nella nostra epoca la precarietà è qualcosa che tendiamo a censurare. Anzi, c’è addirittura una ricerca dichiarata di immortalità. Mentre stiamo combattendo con il virus, nel posto più avanzato del mondo, la California della Silicon Valley, ci sono i proprietari delle Big Tech che investono miliardi nelle biotecnologie o nell’integrazione tra uomo e macchina. Abbiamo già centinaia di corpi ibernati in attesa che la scienza trovi il modo di riportarli in vita... Il sogno dell’immortalità è potentissimo nella società contemporanea. Che si ritiene l’ultima civiltà, la definitiva, quella che può raggiungere la liberazione dell’uomo dalla morte. Ecco, in una società che vive di una hybris così potente da sentirsi fiera di sé, invulnerabile, la scoperta di questa fragilità è ancora più sconvolgente. È un trauma terribile. Ma può essere utile.

E a questa situazione cosa ha da dire il richiamo a cercare i testimoni di «un Dio che si è fatto uomo ed è di ventato presenza storica, carnale»?
Non so. Ma una delle ragioni per cui il cristianesimo si è così diffuso nel mondo è stata proprio la prospettiva di sconfiggere la morte. E lo fa addirittura con il sacrificio di Dio. È l’unica religione del mondo in cui Dio si incarna e passa dalla sua morte per dire all’uomo: potete risorgere tutti. Ci sono storici che hanno sostenuto che tra i motivi del successo – chiamiamolo così – della fede c’era il fatto che nelle epidemie i cristiani si comportavano in maniera diversa: gli altri scappavano, loro assistevano i malati. Anche a costo della vita. Così si guadagnarono l’ammirazione di tutti. «Ma perché fanno così? Si vede che sono protetti dall’Onnipotente...».

È così anche oggi?
L’unico modo di combattere la morte è la speranza della risurrezione. E si identifica con la figura di Gesù. È una risposta che negli ultimi decenni, purtroppo, è stata logorata dalla secolarizzazione, ha perso la sua forza. Non mi riferisco solo alla riduzione del numero dei cristiani, ma proprio alla fede che persino i cristiani hanno nella risurrezione. Il cristianesimo è stato ridotto a una serie di precetti e valori, in parte anche condivisibili dalla società laica, ma se ne è persa completamente la portata. Eppure la proposta della risurrezione è l’unico modo di combattere alla radice la morte. Anzi, non solo la paura della morte: anche la consapevolezza quotidiana della nostra finitezza.

Cioè l’incertezza esistenziale, quella che Carrón chiama «l’incapacità di affrontare la vita che ci troviamo tra le mani»…
Esatto. Il fatto è che siamo gli unici esseri viventi capaci di immaginarsi, e di immaginare il mondo, dopo la nostra morte, dopo di noi. E questo ci rende strutturalmente precari. Viviamo sin dalla nascita la nostalgia dell’infinito. L’unico rimedio emerso nella tradizione occidentale è la fede in Cristo. Inteso proprio come il Risorto, come Dio che, da uomo, è morto e risorto. Per questo si parla di «grazia».

Ma allora questa vicenda non diventa un’opportunità per scoprire che, in fondo, dipendiamo? Dagli altri e forse da un Altro...
Be’, insieme alla crisi dell’invulnerabilità c’è anche questo: la consapevolezza, più che della dipendenza, del completamento. Per combattere una cosa del genere, da soli non bastiamo. Non solo perché sentiamo il bisogno di stare insieme, ma proprio perché siamo una comunità. Abbiamo bisogno di solidarietà, che il nostro vicino faccia qualcosa di positivo. Più che dipendenza, in senso laico, direi «interdipendenza». Di fronte a una cosa così grossa, gli altri sono necessari. In termini cristiani, se ci pensi, è il riscatto della misericordia.

Carrón parla di questo momento come di «un’occasione da non perdere»…
Sì, e lo capisco. Io non so se direi così. Nessuno è felice di trovarsi in un’occasione del genere, è come se si avvertisse un senso di punizione in quello che sta capitando. Ma sicuramente è un’esperienza. Qualcosa che tre o quattro generazioni di cittadini europei non avevano mai vissuto. Un pericolo come questo, così diffuso, che in pochi giorni ci ha portato quasi a una condizione da economia di guerra, non lo conoscevamo. È un’esperienza collettiva eccezionale, impensabile nelle circostanze normali. E di sicuro spinge a riflettere sulla condizione umana.

Come ne usciremo, secondo te?
Non so. Da una parte vedo segnali negativi. La vicenda delle rivolte nelle carceri, per dire, mi ha molto scosso. Non solo perché dei detenuti ce ne siamo dimenticati, come al solito, ma perché aggiunge un altro tratto a qualcosa che sa tanto di racconto apocalittico. E poi la sensazione è che non ci sia più un’autorità reale, figure in grado di parlare al Paese ed essere ascoltate: c’è un po’ il rischio dell’anarchia. D’altra parte vedo anche gesti di grande solidarietà, di apertura, a volte di eroismo. Resta una dimensione comunitaria forte. Insomma, siamo al bivio tra il Piave e l’8 settembre: o si accusa il colpo, ci si assesta e si riparte, o si rischia la dispersione... Spero nella prima ipotesi, ma dipende da tutti noi.