Arte e Torah, il divieto fecondo, di Massimo Giuliani
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Riprendiamo da Avvenire del 3/9/2010 un articolo di Massimo Giuliani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/9/2010)
Arte e giudaismo, il tema dell’undicesima Giornata europea della cultura ebraica (che si celebra in Italia e in altri 27 paesi europei, più la Turchia) può sembrare una provocazione. Infatti, nella Torah il divieto di farsi immagini, dipinte e scolpite, di tutto ciò che è vivente suona tassativo e senza eccezioni. E niente pare più idolatrico ad occhi ebraici delle rappresentazioni del sacro.
È questa la ragione per cui tra gli ebrei troviamo moltissimi scrittori e musicisti, grandi studiosi di fisica e matematica, premi Nobel in biologia e medicina ... ma così pochi pittori e scultori? È facile rispondere che anche la letteratura, la musica e il teatro sono rappresentazioni, immagini traslate che sfidano, indirettamente, il comandamento biblico: «Non ti farai scultura né immagine alcuna».
Eppure, il primo artista della Bibbia, Bezaleel, non è forse lodato da Dio per le sue qualità nello scolpire l’oro e il rame? E l’antico tempio di Gerusalemme non era pieno di «immagini», a cominciare delle figure dei due cherubini che reggevano l’arca e le tavole della Legge, ovvero proprio il divieto di scolpire cherubini?
Le apparenti contraddizioni non hanno mai turbato più di tanto i maestri di Israele, che anzi dalla triste storia del vitello d’oro hanno appreso la lezione che anche la scrittura, se sottratta al contesto dell’evento e all’oralità da cui sgorga, può diventare immagine vuota, mero simulacro, surrogato del sacro, e dunque idolo.
Questa riflessione emerge come sfondo dalle manifestazioni che domenica si svolgeranno in 62 città italiane, dove i luoghi ebraici si apriranno a quanti sono interessati a capire cosa sia il giudaismo e quale sia stato il contributo ebraico alla storia della cultura e dell’arte. E se è vero che, specie in Italia, l’architettura sinagogale è stata profondamente influenzata dalle tendenze della società circostante, soprattutto in età barocca, è anche vero che gli artisti ebrei sono riusciti a trovare il modo di esprimere la loro creatività in forme originali specialmente negli oggetti liturgici: dalle menorot (o candelabri a sette braccia) ai calici del qiddush (benedizione sul vino), dai preziosi ricami sui tessuti che avvolgono i rotoli della Torah ai disegni che illustrano le haggadot, i libri della cena pasquale, che si tramandano in famiglia per generazioni spesso macchiati di vino e pietanze, «colorati», per così dire, dall’uso domestico. In epoca recente non sono mancati artisti che hanno contribuito a «modernizzare» lo sguardo sulla natura e la riproduzione del mondo.
Amedeo Modigliani, ad esempio, che all’inizio del Novecento scelse di scolpire e dipingere la figura umana in forme totalmente nuove, era un giovane ebreo sefardita di Livorno: sottraendosi ai cliche della ritrattistica ottocentesca, segnò una rivoluzione nel modo di percepire i volti e le proporzioni. E nella Parigi d’inizio XX secolo non fu l’unico. Camille Pissarro, che in verità si chiamava Jacob Abraham ed era a sua volta di famiglia ebraico-sefardita, diede un forte contributo al diffondersi dell’impressionismo in pittura e della sua pretesa di cogliere non gli oggetti ma la luce che sugli oggetti si rifrange, cambiandone i contorni nell’arco breve della giornata.
Pretesa che ricorda vagamente l’arte spirituale della qabbalà e l’aspirazione dei qabbalisti ad unirsi a Dio attraverso le molteplici, complesse e sempre cangianti sefirot, le emanazioni del divino nel mondo. Forse scossi da queste rivoluzioni, i nazisti stigmatizzarono e misero al bando l’arte ebraica come «degenerata».
Non cogliendo, ad esempio, che il trasfigurare corpi e figure e il decostruire immagini è un altro modo di vivere la chiamata biblica a combattere l’idolatria e ad elaborare il mondo, criticando lo status quo e puntando a quel che Hermann Cohen chiamava l’ordine morale del dover essere. Non a caso un raffinato interprete di Cohen, Steven Schwarzschild, ha scritto acuti saggi di estetica ebraica ispirati al fondamentale principio anti-idolatrico secondo cui «lo spirito non è suscettibile di rappresentazione».
Dunque non solo non v’è contraddizione tra arte e fede ebraica (si vedano ad esempio le stupende raffigurazioni nelle antiche sinagoghe di Dora Europos, in Siria, o di Beth Alpha, in Israele), ma il giudaismo ha stimolato a pensare il rapporto tra l’immagine e il sacro proprio al fine di non racchiudere il sacro in alcuna immagine, neppure la più sublime, e neppure in quella negazione dell’immagine che la parola scritta presuppone.
E come ignorare Marc Chagall, forse il più noto pittore ebreo del Novecento, la cui arte si è così spesso cimentata con le storie bibliche e che ha avuto il coraggio di raffigurare il mistero del cristianesimo, la crocifissione di Gesù, naturalmente ripensandola all’interno dell’intera storia del popolo ebraico. In Italia una simile verve narrativa l’ha avuta forse solo Emanuele Luzzati, disegnatore e coreografo, al quale è dedicato un museo nei pressi della sinagoga di Genova, la sua città. Il monoteismo biblico-ebraico, che ha tra l’altro influito sul divieto di immagine in tutto il mondo musulmano, non era unico nel mondo antico. Anche la scuola di Platone avversava la riproduzione artistica, che allontanava dalla realtà del mondo delle idee, l’unico vero.
E tuttavia, come spiega il pittore ebreo Stefano Levi Della Torre, «il divieto biblico non ha quasi mai impedito la figurazione del mondo, ma l’ha investita di una certa inquietudine», ossia l’ha investita della consapevolezza che Dio e la vita sono un mistero più grande della nostra mente e della nostra pur straordinaria fantasia.