Esiste un canone della letteratura? Esistono i classici, testi cioè capaci di attraversare i secoli, universalmente riconosciuti come grandi? 1/ Su Harold Bloom, di Romano Luperini 2/ Su Harold Bloom, di Emanuele Zinato

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /11 /2019 - 22:57 pm | Permalink | Homepage
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1/ Su Harold Bloom, di Romano Luperini

Riprendiamo dal sito La letteratura e noi un articolo di Romano Luperini pubblicato il 16/10/2019. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Letteratura e Scuola ed in particolare, la sotto-sezione Leggere i classici.

Il Centro culturale Gli scritti (3/11/2019)

Quando uscì The Western Canon, nel 1994, ero a Toronto. Entrai in una libreria e vidi in terra vicino all’entrata e poi sui tavoli pile di un libro con la copertina dura in cui era rappresentato il Giudizio Universale di Michelangelo: Dio che separa i giusti dai dannati.

Era l’ultimo libro di Bloom, e la immagine della copertina era una rappresentazione del suo modo di intendere la critica: gli eletti da una parte, i reprobi dall’altra. Avevo già letto qualcosa di Bloom e soprattutto The Anxiety of Influence, che aveva sollevato parecchie discussioni in Italia.

A colpirmi fu la diffusione di massa: il libro era collocato come si fa in Italia col vincitore dello Strega, ma nessuno, nel nostro paese, avrebbe dato altrettanta importanza a un libro di critica. (Da noi Il canone occidentale uscirà da Bompiani nel 1996 suscitando un qualche interesse fra gli studiosi, ma senza grande successo di lettori).

Ne trassi una copia da una pila, la aprii, scorsi l’introduzione, e una seconda cosa mi colpì: lo spazio polemico destinato ad Antonio Gramsci. Da quaranta anni nessuno in Italia rammentava più Gramsci, neppure per discuterlo e ripudiarlo. Ma evidentemente in Nordamerica Gramsci era ancora conosciuto e studiato, se Bloom sentiva il bisogno di arruolarlo nella Scuola del Risentimento, insieme a Foucault e a qualche altro studioso contaminato dal deprecato marxismo.

Gramsci insomma era un maestro delle femministe, dei critici omosessuali o neri, dei rivalutatori delle letterature del terzo mondo, di quanti condividevano la critica al canone occidentale (un canone di maschi, bianchi e morti) esplosa nelle università americane già negli anni Settanta. Invece, ribatte Bloom, il canone non può che essere unico e occidentale: è il canone di Dante, Shakespeare, Goethe.

Contro ogni tipo di critica volto a ricollegare lo scrittore al mondo materiale e all’assetto economico di un determinato periodo, Bloom difendeva l’autonomia dell’estetica e della letteratura stessa che può essere ricollegata solo “alla sovranità dell’animo solitario” e che esige un lettore non impegnato nella società, ma attento solo al proprio “io profondo”, alla “nostra ultima interiorità”. Si tratta di frasi un po’ vaghe (cosa sarà la “sovranità dell’animo solitario”? può esistere oggi una sovranità dell’animo solitario?), ma dalle quali si capisce bene l’approccio elitario e puramente “estetico” del critico.

È stato un grande critico e teorico reazionario, Bloom, dotato di una cultura immensa e di una capacità rara di penetrare i testi.

Oggi la situazione è tale che la classe dominante non ha più bisogno di critici, neppure geniali come lo è stato talora Bloom. Anzi la sua opposizione al marxismo, al femminismo, alle letterature africane e asiatiche suona oggi del tutto superata. Che senso avrebbe oggi qualificare l’Occidente per la elevatezza del suo canone? L’Occidente si autoqualifica da solo ipostatizzando un unico valore, quello economico. Bloom, nella sua polemica contro la Scuola del Risentimento, aveva un ideale alto e nobile dell’arte letteraria che ormai è stato travolto da almeno tre o quattro decenni. Oggi fa parte, esattamente come Gramsci, opposto a lui ma per questo in qualche modo a lui complementare, di un mondo sconfitto e perduto.

2/ Su Harold Bloom, di Emanuele Zinato

Riprendiamo dal sito La letteratura e noi un articolo di Emanuele Zinato pubblicato il 17/10/2019. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Letteratura e Scuola ed in particolare, la sotto-sezione Leggere i classici.

Il Centro culturale Gli scritti (3/11/2019)

Sono due i libri per i quali Harold Bloom viene ricordato dalla critica letteraria italiana: L’angoscia dell’influenza del 1973 e Il canone occidentale del 1994. Come spesso accade, tuttavia, le traiettorie intellettuali, spesso tortuose e complesse e quasi sempre indizio di conflitti, vengono semplificate in concetti-termini un po’ ripetitivi, frutto di pigrizie e di stereotipie: Bloom è, per tutti, quello che ha guardato agli scrittori e ai loro modelli come alla scena di un conflitto edipico fra padri e figli letterari e , al contempo, il critico che ha cercato di fissare, contro le mode del “risentimento”, la lista dei nomi imperituri dei “padri” del Canone occidentale soprattutto inglese, da Shakespeare a Wallace Stevens

Si dovrebbe tuttavia osservare come la seconda operazione del critico americano costituisca un ribaltamento di prospettiva rispetto alla prima: dalla creatività come lotta freudiana in cui gli scrittori nuovi negano e distorcono i propri antenati letterari si passa infatti alla monumentalizzazione di quegli stessi antenati.

Quel ventennio decisivo del secondo Novecento che divide i due libri di Bloom ha del resto segnato, per i metodi della critica (non meno che per le ideologie e per i rapporti di potere) fratture e mutazioni: in quel medesimo periodo a esempio, in Europa, per critici come Barthes e Todorov viene meno la fiducia nelle potenzialità conoscitive dell’analisi testuale che aveva caratterizzato il campo strutturalista e più in generale “l’età d’oro della teoria”.

Negli anni Settanta, nel dipartimento di letteratura inglese di Yale, Bloom (nato nel 1930) faceva parte con Paul De Man, Geoffrey Hartman e Hillis Miller del quartetto di critici battaglieri che hanno fondato il decostruzionismo. Il quartetto, definito ironicamente “La banda dei quattro” (nome tratto dal linguaggio politico dell’epoca e riferito agli scontri al vertice del Partito a Pechino, dopo la morte di Mao) aveva pubblicato una iconoclasta raccolta di saggi (Decostruction and Criticism, 1979) in cui Bloom giocava tendenziosamente sull’accostamento fonetico di due termini meaning (senso) e moaning (gemito) per suggerire l’idea che tutte le interpretazioni non sono che fraintendimenti (misreadings). Il nume tutelare della decostruzione era Derrida e da quel momento iniziò negli Stati Uniti la fortuna – non ancora del tutto sopita - della cosiddetta French theory: ogni lettura dei testi letterari che si propone di discutere o di negoziare un senso viene percepita come una costruzione del logocentrismo, un effetto illusorio di un linguaggio retorico sempre orientato a mascherare i rapporti di dominio.

La fortuna del decostruzionismo, come gergo, atteggiamento e moda ancor più che come metodo della critica, dagli anni Ottanta in poi, è attestato dalla diffusione della parola decostruire ben oltre i confini dei campus come semplice sinonimo di smascheramento (di un mito, di una propaganda, di una certezza) e supporto discorsivo di un relativismo percepito come postmoderno e inevitabile a ogni livello della vita associata.

Il fortino dei decostruzionisti, tuttavia, presto si è scisso tra una minoranza “conservatrice” e una maggioranza di orientamento culturalista: la seconda ha trapiantato l’irriducibilità del significato nelle rivendicazioni etniche e sessuali e nel rifiuto di ogni metafisica binaria. Bloom ha preso invece le distanze dalla decostruzione, e – dopo studi cabalistici e gnostici – ha accentuato i suoi atteggiamenti polemici contro le tendenze della critica statunitense postcoloniali e femministe, percepite come “critica del risentimento” e si è rivolto al recupero della grande tradizione occidentale. Da ciò nasce negli anni Novanta il suo libro più noto, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle ere.

Il gesto conservativo di Bloom, che ha posto al centro del sistema culturale Shakespeare e Dante e che ha fissato in ventisei autori (tra cui Goethe, Cervantes e Tolstoj) l’elenco dei libri da leggere nel giorno del “naufragio”, credo vada visto come il risultato di un “allarme” e di una minaccia che grava sull’esperienza letteraria, ma al contempo come una risposta non praticabile (la museificazione) e come il segno di un dimidiamento: un gesto, cioè, dialetticamente collegabile con l’esordio decostruzionista e con i suoi limiti relativistici, di cui è l’esatto rovescio.

Nell’attività ermeneutica, e nella didattica della letteratura, infatti, l’esperienza dell’ambiguità del testo non necessariamente approdano al differimento infinito dei significati e, d’altra parte, i classici antichi e moderni, più che ingessati devono essere rivisitati e collaudati alla luce del presente.

Ai problemi posti da Bloom insomma non si risponde museificando i classici né buttandoli alle ortiche perché eurocentrici o maschilisti: piuttosto, finché ci sarà spazio, rimettendoli in gioco con il conflitto delle interpretazioni e valorizzando la negoziazione e la ridiscussione del senso delle opere “per noi”.