L'11 dicembre 384 moriva l'autore degli «Epigrammi» sui martiri. L'autoepitaffio di Papa Damaso, di Carlo Carletti
Riprendiamo da L’Osservatore Romano dell'11/12/2009 un articolo scritto da Carlo Carletti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (17/7/2010)
È ormai un dato storiografico acquisito che con Damaso si avvia un'epoca nuova nella storia della Chiesa di Roma. Non sempre indifferente alla lusinga dell'ambizione, dell'autoritarismo, dello sfarzo, ma anche dotato di indiscutibili capacità progettuali e realizzative, Damaso fin dall'inizio del suo episcopato, destinato a estendersi per quasi un ventennio (366-384), impresse alla sua azione uno stile e un ritmo certamente nuovi, che gli consentirono, anche in virtù del suo pragmatismo "tutto romano", di concentrare la sua attenzione e le sue - peraltro notevolissime - capacità organizzative e gestionali verso molteplici obiettivi, alcuni dei quali di rilevante incidenza per la fisionomia e il ruolo della sede romana.
Le informazioni antecedenti il suo mandato episcopale sono episodiche, scarsamente documentate, talvolta oscure e contraddittorie. Allo stato attuale, una lettura critica coordinata delle testimonianze disponibili consente di concludere con sufficiente attendibilità che Damaso nacque a Roma (e non in Spagna come dalla biografia del Liber Pontificalis I, pp. 212-213, redatta nella metà del VI secolo) intorno al 305-306 da una famiglia di ecclesiastici (il padre Antonius percorse i vari gradi della gerarchia fino all'episcopato) e che morì a Roma l'11 dicembre del 384, come ricorda Girolamo, che del Pontefice fu segretario nel triennio 382-384: Damasus romanae urbis episcopus prope octogenarius sub Theodosio mortuus est (De viris illustribus, 103).
Per seguire e comprendere l'accidentato percorso che condusse Damaso alla cattedra romana è necessario partire dalla profonda crisi che contrassegnò il pontificato del suo predecessore, Papa Liberio (352-366). I disagi sofferti dalla Chiesa di Roma in questo periodo - ivi compresi l'umiliante destituzione di Liberio e il susseguente esilio a Beroea, in Tracia - furono in gran parte determinati dalle pesanti ingerenze del filoariano Costanzo II (337-361) nelle questioni ecclesiastiche.
È in questo frangente che Damaso, componente del collegio diaconale, si affaccia per la prima volta sulla scena della politica ecclesiastica romana, mostrando immediatamente un deciso pragmatismo e una straordinaria capacità - si direbbe oggi - di "leggere il territorio". Alla morte di Papa Liberio si accende immediatamente la lotta per la successione che, attraverso momenti di grave tensione e di scontri cruenti, si protrasse per oltre un anno: dal 24 settembre 366 al 16 novembre 367, cioè dalla elezione al definitivo esilio del suo antagonista Ursino.
Con il sostegno delle autorità laiche - dissimulato sotto forma di una benevola non-ingerenza - Damaso raggiunse il suo obiettivo, anche perché era abilmente riuscito a intessere rapporti di "civile convivenza" con la ancora maggioritaria componente pagana della società e soprattutto con le sue rappresentanze più altolocate. Ciò naturalmente non impedì che contro la sua persona si intentasse un'azione giudiziaria da parte di Isacco - un ebreo convertito - partigiano di Ursino, il quale lo accusava de vi, cioè della responsabilità diretta delle violenze subite dagli ursiniani negli anni 366-368.
L'imperatore, Valentiniano I (364-375), avocò a sé il processo e salvò Damaso dalla condanna: nel rescritto imperiale Ordinariorum (Collectio Avellana 13, 4-5, 9, Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 35, 1, pp. 55-57) emanato da Graziano (367-383), le accuse rivolte al Pontefice vengono sanzionate come turpissimae calumniae e Isacco viene relegato in Spagna.
Alla liberazione da questa grave accusa Damaso fa implicito riferimento nell'epigramma votivo dedicato a san Felice di Nola: "Poiché sotto la tua protezione ho scampato un pericolo mortale, sconfitti i nemici che avevano affermato il falso, Damaso supplice con questi versi a te scioglie i voti" (Epigrammata Damasiana, recensuit et adnotavit Antonius Ferrua, Città del Vaticano 1942, n. 59, 3-5).
Damaso non fu certo un teologo, né si cimentò direttamente nelle complesse problematiche dottrinali che pure si dibattevano ai suoi tempi: era d'altra parte un pragmatico, tutto teso al consolidamento del primato di Roma, probabilmente impreparato, oltre che per natura alieno a comprendere e ad affrontare - soprattutto in relazione alle complesse questioni che emergevano nella riflessione dottrinale delle Chiese di Oriente - quegli aspetti dialettici del dibattito teologico che andassero al di là della semplicistica dicotomia niceni-antiniceni.
L'interesse preminente di Damaso era essenzialmente rivolto al consolidamento e alla legittimazione della primazia della sede romana sulle altre Chiese, non soltanto in termini di "onore e dignità" (come da tradizione), ma anche e soprattutto in termini giurisdizionali.
Con Damaso inizia la tradizione di una assemblea sinodale annuale in occasione del dies natalis pontificale, l'anniversario della consacrazione, e, per la prima volta, la sede romana esprime giudizi e indicazioni disciplinari non più nei termini "ufficiosi" della lettera, ma attraverso la decretale, cioè con un documento formalmente ufficiale della autorità pontificia, modellato sui rescritti della burocrazia amministrativa tardo-imperiale.
Il prototipo è la cosiddetta Epistula ad Gallos, con cui Damaso risponde ai vescovi della Gallia riuniti in concilio a Valence nel 374, che richiedevano di conoscere tradizione e disposizioni circa le condizioni di accesso agli ordini sacri.
Nell'articolata geografia delle Chiese cristiane tardoantiche, emergevano problemi di diversa natura - sia disciplinari, sia dottrinali, sia pastorali - che richiedevano interventi tempestivi da parte di un'autorità riconosciuta. Nell'area occidentale si avviò una decisa attività di contrasto contro le posizioni residuali antinicene e filo ariane che, segnatamente nell'Italia settentrionale, trovavano un importante e influente referente nell'ariano Aussenzio, titolare della sede milanese dal 355, scomunicato dall'episcopato niceno riunito in concilio a Roma nel 372.
Dimensione ben più ampia - quasi ecumenica - assunse invece il concilio romano del 377/378. La motivazione immediata che ne sollecitò la convocazione fu il pressante e accorato appello di Basilio di Cesarea ai fratelli d'Occidente, e personalmente anche a Damaso, perché si pronunciasse sugli errori dottrinali di Eustazio di Sebaste e di Apollinare di Laodicea - limitazione della integrale umanità di Cristo - e indicasse una via di uscita in merito al conflitto che ad Antiochia opponeva Paolino e Melezio, ambedue di fede nicena, per la conquista dell'episcopato. È questa la prima assise conciliare romana che si occupa ex professo di questioni dottrinali e disciplinari relative all'Oriente cristiano.
A poca distanza di tempo - alla fine del 378 - un altro sinodo romano ratifica definitivamente la giurisdizione del presule romano sugli altri vescovi d'Italia e dell'intero Occidente anche in relazione ai conflitti tra un ecclesiastico - ingiustamente accusato o meno - e il proprio vescovo o il proprio metropolita ovvero nei riguardi di un decreto sinodale.
In questa stessa sede fu poi avanzata formale richiesta alla autorità imperiale di consentire all'episcopus urbis di ricorrere in materia penale direttamente al tribunale del principe o al giudizio di un concilio e, dunque, superare la competenza giurisdizionale del praefectus urbi o del vicarius.
Gli imperatori del tempo - Graziano (367-383) e Valentiniano II (375-392) - rifiutarono di sottrarre il vescovo di Roma alla giustizia ordinaria, ma in compenso riconobbero la costituzione di un tribunale ecclesiastico romano - il Pontefice coadiuvato da cinque o sette vescovi - con la facoltà di giudicare i vescovi ordinari e i metropoliti, in teoria, dell'area occidentale, di fatto, della sola Italia.
Due anni dopo (380) la sede romana - e dunque Damaso - raggiunge un altro importante obiettivo che nel futuro segnerà profondamente la storia delle Chiese: il riconoscimento da parte dell'autorità imperiale del suo ruolo di depositaria e garante dell'unica fede ortodossa, quella nicena. È il celebre editto Cunctos populos promulgato da Teodosio a Tessalonica il 27 febbraio 380, con il quale si impone a tutti i popoli sottoposti l'osservanza della fede cattolica, quella che "il divino apostolo Pietro ha trasmesso ai romani e che seguono il Pontefice Damaso e Pietro vescovo di Alessandria"; quelli che professano tale fede - aggiunge la costituzione imperiale - devono definirsi christiani catholici, tutti gli altri sono eretici e come tali dovranno temere non soltanto il castigo divino ma anche quello imperiale (Codex Theodosianus, 16, 1, 2).
La reazione di una parte almeno delle Chiese orientali a questa costituzione imperiale fu immediata. Il concilio di Costantinopoli del 381, per il quale Damaso delega Acolio di Tessalonica, ha come effetto immediato la ricomposizione di un episcopato ortodosso in Oriente, che rivendica tutti i diritti di una "seconda Roma".
La risposta di Damaso, altrettanto immediata anche perché energicamente sollecitata da Ambrogio di Milano, è nella convocazione a Roma del concilio del 382, dove la pericope di Matteo, 16, 17 (Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam...) è per la prima volta esplicitamente impiegata per la giustificazione teologica del primato romano: si ribadiva, in opposizione alle pretese di Costantinopoli, che nella gerarchia delle Chiese non avevano peso alcuno i deliberati conciliari e meno che mai il ruolo di capitale riconosciuto di fatto alle due città.
Primato e autorità della sede di Roma trovavano direttamente il loro fondamento, attraverso l'Annuncio, nella vox Domini: sancta tamen Romana Ecclesia nullis synodicis constitutis ceteris ecclesiis praelata est sed evangelica voce Domini et salvatoris nostri primatum obtinuit: tu es, inquit, Petrus... (Patrologia Latina, 19, col. 793). Sedes apostolica - entrata in uso per la prima volta al tempo di Liberio (352-366) - diviene così vera e propria definizione "tecnica" della Chiesa di Roma, la cui autorità primaziale è riconosciuta non solo dagli occidentali ma anche da quelle Chiese orientali tradizionalmente legate a Roma, come in primo luogo quella di Alessandria di Egitto.
In questo frangente riemerge la figura di san Paolo che, rimasta in ombra soprattutto durante il pontificato di Giulio per valorizzare in termini rigidamente gerarchici il primato petrino e dunque del vescovo romano, viene ora riproposta come societas beatissimi Pauli: un prestigioso "valore aggiunto" alla apostolicità della sede romana, solennemente definita nel concilio del 382 che, subito dopo la menzione del passo di Matteo, 16, 17-19, aggiungeva: addita est societas beatissimi Pauli, vasi electionis, qui non diverso, sicut haeretici garriunt, sed uno tempore, uno eodemque die gloriosa morte cum Petro in urbe Roma sub Caesare Nerone agonizans coronatus est... (Patrologia Latina, 19, coll. 793-794).
Nella sua azione, insieme pastorale e ideologica, Damaso doveva rendere materialmente percepibile e fruibile, sia agli occhi della massa - non sempre consapevole - dei nuovi convertiti sia ai sensibili e ricettivi orecchi di una parte almeno della nobiltà, una "fonte autentica" che concorreva a giustificare e alimentare il primato della sede romana (una Petri sedes dice Damaso nell'epigramma per il battistero Vaticano: Epigrammata damasiana, 4, 5): la "riscoperta" delle originarie tombe dei martiri e l'acquisizione della storicità delle loro imprese.
Per conquistare, conservare e consegnare questo "patrimonio di santità" Damaso procede a una preliminare azione ricognitiva, che è insieme storico-archeologica e agiografica: progetta e organizza una sistematica ricognizione delle tombe dei martiri e procede alla ricerca di quei sepolcri di cui si era smarrita l'ubicazione; contestualmente indaga a fondo sulle testimonianze, anche orali, che potessero consentire di ricostruire e autenticare le vicende degli eroi della fede.
Questo aspetto caratterizzante del pontificato damasiano è esplicitamente ricordato dal Liber Pontificalis (i, p. 212, "qui ricercò e ritrovò molti corpi di santi" parlando di Roma).
Nel progetto damasiano erano previste non soltanto le composizioni poetiche incise su grandi lastre marmoree, ma anche gli organismi monumentali che dovevano adeguatamente accoglierle, in genere di modeste dimensioni e tipologicamente uniformi (tombe di san Gennaro, di Felicissimo e Agapito di Pietro e Marcellino, di Nereo e Achilleo, di santa Agnese dei santi Vitale Marziale e Alessandro dei santi Felice e Filippo).
Il conposuit tumulum sanctorum limina adornans (Epigramma Damasiana, 7, 7, "sistemò la tomba adornando il santuario dei santi") del carme posto presso il sepolcro dei santi Felice e Adautto nella catacomba di Commodilla (via Ostiense) definisce esattamente la ratio degli interventi damasiani, che miravano concretamente a ottenere una degna e visibile sistemazione dei sepolcri venerati e a predisporre condizioni sufficienti per una reale utenza di queste aree sacre, con la realizzazione di scale di accesso diretto, lucernari, percorsi "obbligati" che non interferissero con le esigenze delle attività funerarie ordinarie.
L'esito ultimo di questa azione è il "monumento-memoriale", sanctorum monumenta vides (Epigrammata damasiana, 472, 2) dice Damaso - che non solo mostrat, "fa vedere", (Epigrammata damasiana, 21, 3; 41, 5; 47, 2; 62, 5; 60, 17) ma, sul piano più generale delle coordinate agiografiche e liturgiche, supporta e integra le sintetiche ed ellittiche informazioni contenute del più antico calendario (depositio martyrum) e, con l'inserimento di nuovi anniversari martiriali, estende l'anno liturgico ben oltre i tempi tradizionali, precedentemente concentrati in circa venti giorni da giugno a settembre.
Damaso esplicita come meglio non si sarebbe potuto il forte valore rievocativo della sintesi monumentum-memoria, anticipando in termini di concreta realizzazione - vale a dire con un organismo monumentale e con un'iscrizione - quanto circa quarant'anni dopo sant'Agostino spiegherà lucidamente nel De cura gerenda pro mortuis (4, 5, 7): "I sepolcri particolarmente solenni" come appunto quelli dei martiri, "vengono chiamati memorie o monumenti, perché, ridestando la memoria e ammonendo, richiamano il ricordo di coloro che la morte ha sottratto agli occhi dei vivi... Lo dice chiaramente la parola stessa memoria, e anche monumento, perché ammonisce, muove la mente. I greci dicono mnemèion quello che noi chiamiamo memoria o monumento, perché nella loro lingua la facoltà di ricordare si dice mnème".
Il fulcro della pastorale martiriale di Damaso e della "teologia" a essa sottesa si incarna, formalmente e concettualmente, negli elogia martyrum, frutto maturo di una strategia politico-religiosa perseguita per un ventennio.
Damaso, attraverso le sue composizioni, presenta ai fedeli della città e delle altre Chiese dell'Orbis Christianus antiquus, la sede romana come detentrice del più grande "deposito" di reliquie di martiri: una situazione di irripetibile eccezionalità, alla quale Damaso risponde con un progetto a sua volta eccezionale, come mai prima s'era visto nel mondo antico.
Il locativo hic - la forma avverbiale che più di ogni altra occorre negli epigrammi damasiani - assume forma quasi "sacrale" nel segnalare materialmente i singoli loca sancta e implicitamente l'intera città cui essi appartengono.
Le solenni, e spesso ripetitive, cadenze degli epigrammi damasiani manifestano un accentuato carattere celebrativo anche in virtù del ritmo dell'esametro eroico virgiliano, in passato impiegato per celebrare gli eroi del mito e i fasti dell'impero e ora ripreso per la glorificazione dei martiri, i "nuovi eroi".
In questa direzione Damaso elabora un ampio repertorio di immagini, che fissano i temi e i momenti centrali dei suoi epigrammi. Nell'elogium dell'eroe della fede si inserisce e si sviluppa il concetto della cristianità romana e del suo primato: il martire, in virtù del supplizio subito a Roma, diviene civis romanus. Così Roma può rivendicare a sé Pietro e Paolo, Roma suos potius meruit defendere civies (Epigrammata damasiana 20, 6); sant'Ermete,... te Graecia misit / sanguine mutasti patriam...(Epigrammata damasiana, 48, 1-2); san Saturnino, incola nunc Christi fuerat Carthaginis ante /... sanguine mutavit patriam nomenque genusque / romanum civem sanctorum fecit origo (Epigrammata damasiana, 46, 2-5).
Le gesta dei martiri sono accuratamente documentate e di esse, talvolta, viene esplicitamente menzionata la fonte sulla quale il Pontefice si fonda: così, per i santi Marcellino e Pietro, Damaso ricorda di aver appreso, ancora fanciullo (cum puer esset), il luogo della sepoltura dei due martiri dalla parola stessa del carnefice (Epigrammata damasiana, 28, 1- 2).
In assenza di notizie dirette o comunque non compiutamente documentate, fa chiaramente capire di avere raccolto gli elementi del suo racconto dall'opinione corrente: in questi casi ricorre a espressioni cautelative come haec audita refert Damasus, haec breviter Damasus voluit conperta referre, fama refert (Epigrammata damasiana, 35, 8; 40, 7; 37, 1; 48, 1).
Nel racconto delle gesta è naturalmente predominate il registro patetico: l'età delle persecuzioni è così presentata con l'immagine della spada che squarcia il santo ventre della madre Chiesa (tempore quo gladius secuit pia viscera matris: Epigrammata damasiana, 17, 1; 31, 1; 35, 3; 43, 1; 46, 2) e i mille modi di infliggere tormenti, le viae mille nocendi (Epigrammata damasiana, 21, 1), vengono descritti da Damaso con dovizia di particolari, quasi con compiacenza: Eutichio, oltre allo squallore del carcere, subisce la mancanza di cibo e il tormento dei frammenti di coccio che gli impediscono di prendere sonno per dodici giorni (Epigrammata damasiana, 21, 4-6: carceris inluviem sequitur nova poena per artus / testarum fragmenta parant ne somnus adiret / bis seni transiere dies alimenta negantur); Lorenzo solo con la sua fede può vincere "i flagelli, i carnefici, le fiamme, le torture, le catene", verbera, carnifices, flammas, tormentas, catenas / vincere Laurenti sola fides potuit, (Epigrammata damasiana, 33, 1- 2); Agnese, la più celebre e venerata delle martiri romane, uditi i lugubri squilli delle trombe dei praecones (cum lugubres cantus tuba concrepuisset) si offre spontaneamente alla rabbia e alle minacce del tiranno (sponte trucis calcasse minas rabienque tyranni) e copre con i propri capelli la nudità del corpo destinato alle fiamme (urere cum flammis voluisset nobile corpus / viribus immensum parvis superasse timorem / nudaque profusum crinem per membra dedisse); (Epigrammata damasiana, 37); Tarsicio si fa uccidere piuttosto che consegnare ai cani rabbiosi le specie eucaristiche che recava con sé: ipse animam potius voluit dimittere caesus | prodere quam canibus rabidis caelestia membra) (Epigrammata damasiana, 15, 8-9); Marcellino e Pietro sono nascostamente decapitati in mezzo ai cespugli perché nessuno potesse ritrovare i loro sepolcri: sentibus in mediis vestra ut tunc colla secaret, / ne tumulum vestrum quisquam cognoscere posset (Epigrammata damasiana, 28, 4-5).
A trasferire su marmo gli elogia martyrum Damaso chiamò il più celebre calligrafo dell'epoca - Furius Dionysius Filocalus - che elaborò una stilizzazione grafica di altissimo livello tecnico-esecutivo ed estetico, rielaborando con tratti di originale genialità la capitale quadrata di tradizione augustea.
Tra il Pontefice e il calligrafo maturò una salda consuetudine e - come pare - una devota amicizia, esito quasi naturale di una collaborazione ultradecennale: nella sottoscrizione incisa sui margini dell'elogio di Papa Eusebio si poteva leggere: Damasi s(ancti) papae cultor atque amator Furius Dionysius Filocalus scripsit (Epigrammata damasiana, 18).
Contestualmente all'allestimento del sepolcro di famiglia, nei primi anni del suo pontificato, Damaso compose un "autoepitaffio", che in nulla ripropone tipologia e contenuti dell'elogium. È una meditazione personale costruita su paradigmi neotestamentari - Gesù che cammina sulle acque, la parabola del seminatore, la risurrezione di Lazzaro - che assume forma e sostanza di una vera e propria confessione di fede (Epigrammata damasiana, 12): "Colui che camminando calcò gli amari (cioè salati) flutti del mare sul mistero della morte, / Colui che restituisce vita ai semi della terra destinati a morire, / Colui che poté sciogliere dopo la morte i lacci letali della morte / e, trascorsi tre giorni, rendere vivo il fratello alla sorella Marta, / dalle ceneri - credo - farà risorgere Damaso": post cineres Damasum faciet quia surgere credo.
(©L'Osservatore Romano 11 dicembre 2009)