L’antislavismo di Adolf Hitler: contro polacchi, ucraini, russi, di Jerzy W. Borejsza

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /09 /2019 - 00:24 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito uno studio di Jerzy W. Borejsza. Borejsza è storico del XIX e XX secolo, pubblicista, direttore dell’Istituto sui Sistemi Totalitari e la Storia della Seconda Guerra Mondiale dell’Istituto di Storia dell’Accademia Polacca delle Scienze di Varsavia, professore ordinario dell’Università “Mikołaj Kopernik” di Toruń. La traduzione del suo testo è di Alessandro Amenta ed è stata da noi ripresa dal sito http://www.poloniaeuropae.it/pdf/Borejsza_Lantislavismo-Hitler.pdf. Per approfondimenti, cfr. sul nostro sito La riduzione dei polacchi al rango di servi della “razza ariana”, con lo sterminio del clero e della borghesia, nella Polonia occupata dai nazisti. L’«Azione straordinaria di pacificazione» (Ausserordentliche Befriedigungsaktion - AB), di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione la sezione Il novecento: fascismo e nazismo e la mostra Voci dalla Shoah.

Il Centro culturale Gli scritti (9/9/2019)

L’antislavismo di Adolf Hitler: contro polacchi, ucraini, russi, di Jerzy W. Borejsza[1]

Una società totalitaria non può essere complessa: le sue strutture politiche, sociali, economiche sono semplificate al massimo. Una società totalitaria non può neanche possedere un programma ideologico articolato da inculcare a masse di milioni di persone. Al contrario: viene loro imposta una visione del mondo ridotta di solito a poche idee di base. Queste idee vengono ripetute spesso in tutti i contesti possibili. Nello Stato di Adolf Hitler non c’era posto per alcuna alternativa. Tutti gli obiettivi e tutte le soluzioni dovevano essere chiari.

Hitler ha selezionato e messo insieme idee che riteneva giuste e di facile presa, ha messo insieme ogni stereotipo negativo di stampo razzista e nazionalista gli facesse comodo. Li ha sfruttati e trasformati in un programma globale, nell’ideologia del Terzo Reich. Il meccanismo del suo Stato totalitario gli ha permesso di eliminare a tempo di record ogni stereotipo positivo, ogni idea contraria alle sue dalle scuole, dalle università, dal circuito ufficiale.

La trasformazione in una dominante assoluta di idee e stereotipi che fino al 1933 non riempivano neppure metà dell’immaginario politico tedesco ha rappresentato una rottura con il pluralismo ideologico della Repubblica di Weimar e dell’Impero guglielmino, con la continuità delle tradizioni pluralistiche tedesche tanto nella politica quanto nell’ideologia. Allo stesso tempo, però, Hitler ha sfruttato stereotipi e idee funzionanti da decenni, anzi da secoli nella vita politica prussiana e tedesca. E in questo senso è stato indubbiamente un continuatore.

Gli stereotipi nazionali

L’immagine negativa degli slavi ha una lunga tradizione nei paesi di lingua tedesca, a partire dalla frequente equazione, basata su un principio pseudo-etimologico, tra il concetto di “Slave” (slavo) e di “Sklave” (schiavo). Agli occhi di molti teorici dell’Elba e del Reno, la Russia di Nicola I — un paese di schiavi governati da una ristretta cerchia di uomini liberi, tra cui molti politici e generali di origine tedesca — pareva confermare questa tesi. A parte i russi, fino agli anni Settanta del XIX secolo nessun popolo slavo possedeva un proprio Stato. Questo non faceva altro che confermare l’opinione che gli slavi fossero servi nati e non uomini liberi, mettendo radici durature negli stereotipi tedeschi.

I tedeschi rappresentavano spesso gli slavi come popoli privi di una propria cultura, a cui era necessario portare la lingua e la cultura tedesca. Sebbene ad alcuni popoli slavi fossero attribuite caratteristiche positive, il concetto collettivo di “slavi” aveva un significato chiaramente negativo. «Così come i tedeschi venivano raffigurati come personificazione della cultura, a differenza degli slavi, che incarnavano tutto ciò che era estraneo e persino ostile e antitetico alla cultura, allo stesso modo venivano contrapposte le caratteristiche negative degli slavi alle caratteristiche positive dei tedeschi» — scrive Maria Lammich[2]. Già nel XIX secolo i russi vengono descritti come mezzo-asiatici o mezzo-barbari. “Barbaro” e  “asiatico” sono le espressione più usate in riferimento alla Russia[3].

 I pregiudizi nei confronti dei cechi, che aumentarono a dismisura dopo il 1919, vennero rappresentati dalla propaganda nazista degli anni Trenta come una lotta millenaria in cui i cechi si lasciavano guidare da “un odio legittimato su basi razziali” contro i tedeschi, di cui avevano invaso i territori in Europa centrale[4].

I vocabolari di tedesco, i dizionari regionali e le enciclopedie tedesche forniscono un’immagine piuttosto chiara dei polacchi con i lemmi “Polack”, “polatschen”, “polnisch”, “polaken”. Dagli inizi del XIX secolo il concetto di “polacco” indicava nella lingua tedesca un individuo stupido, vile, abietto, rozzo, sporco, incapace, ubriaco (“polenvoll”, “voll wie ein Pole”), selvaggio, impulsivo, incompetente e inetto al lavoro. Il parlamento polacco (“polnischer Reichstag”, perlomeno dal XVIII secolo), l’economia polacca (“polnische Wirtschaft”, a partire dal periodo a cavallo tra XVIII e XIX secolo) sono divenuti per secoli concetti comuni nella lingua tedesca.

Nel 1883 Heinrich Füschbier, autore del Preussisches Wörterbuch, affermò che «la Polonia compare spesso modi di dire spregiativi». Tomasz Szarota è giunto alla conclusione che questo giudizio può essere riferito non soltanto alla Prussia, ma all’intera Germania[5].

La rinascita della Polonia nel 1918 venne accolta dalla maggioranza dei tedeschi come un evento negativo, suscitando un’ostilità di massa e un’ondata collettiva di richieste revisionistiche. In quest’atmosfera generale l’immagine della Polonia e dei polacchi assunse caratteristiche ancora più negative che non prima del 1914. Il concetto di “patriottismo polacco” divenne un’espressione peggiorativa, perché cominciò a essere inteso come una minaccia per lo Stato tedesco, mentre la religiosità polacca appariva come un’arma dei polacchi contro i tedeschi. Anche nella letteratura dei tempi della Repubblica di Weimar i polacchi compaiono come individui subdoli, malvagi e brutali. Come afferma Dorothea Friedrich nel suo studio sull’immagine della Polonia nella letteratura della Repubblica di Weimar, «le formulazioni nazionalistiche che compaiono più spesso possono essere raggruppate intorno ai seguenti concetti: eredità paterna, sangue, aquila tedesca e polacca, corpo mutilato della nazione e inondazione slava»[6].

Un autore polacco che scriveva prima del 1914 giunge a conclusioni simili: «nelle brevi opere letterarie tedesche in circolazione il mondo sano è quello dei distinti proprietari terrieri, dei laboriosi coloni e dei bravi pedagoghi tedeschi, mentre il mondo moralmente malato è quello della nobiltà latifondista, superficiale, allegra e spendacciona dal carattere indeciso e dagli istinti criminali, e dei contadini sporchi, pigri e ubriachi, trattati come forza lavoro»[7].

Nel suo libro, che in Germania ha suscitato molte polemiche, Henryk Olszewski ha ragione su più di un punto, perlomeno quando scrive: «La storiografia dell’epoca guglielmina e di Weimar ha trattato con tale ostilità le questioni polacche e ha inteso in modo così nazionalistico il problema delle spartizioni che agli autori nazisti è rimasto a malapena un piccolo spazio di critica alle negligenze degli specialisti»[8]. Di opinione simile è anche lo storico della Germania occidentale Christoph Klessman[9].

Con poche eccezioni (gli anni Trenta, Polenheder, le posizioni di Marx, Engels, Herwegh, Vogt, di altre personalità legate al 1848 e di leader socialdemocratici come Wilhelm Liebknecht) in Germania l’intero secolo XIX ha visto la creazione di stereotipi sull’arretratezza e sulla disonestà dei polacchi. La responsabilità per le spartizioni della Polonia venivano addossate agli stessi polacchi. L’occupazione e la colonizzazione dei territori occidentali dell’antica Res Publica polacca da parte dei tedeschi venivano rappresentate come un beneficio.

A questo proposito Gilbert K. Chesterton ha ironizzato dicendo che i prussiani organizzavano con magnanimità lezioni sulle malattie ereditarie dell’uomo che avevano ucciso.

A partire dalla primavera del 1939 la propaganda di Goebbels cominciò a rifarsi agli antichi stereotipi negativi sui polacchi e la Polonia. Sulla stampa riapparve l’espressione “polnische Wirtschaft”. Dopo il breve intermezzo degli anni 1934-1938, si iniziò nuovamente a rappresentare la Polonia come un nemico storico. Veniva descritta come un paese che non rispettava le norme del diritto internazionale, i diritti umani, le norme etiche. «Per un tedesco medio» — scrive Tomasz Szarota — «la parola “polacco” doveva far venire subito in mente la violenza, l’omicidio e la rapina, e come reazione doveva suscitare invece un sentimento di odio e rabbia»[10]. A questo dovevano servire le informazioni sulla crudele persecuzione della minoranza tedesca in Polonia. Lo stereotipo del nemico polacco doveva scatenare l’odio dell’esercito e dell’intera nazione tedesca, e giustificare l’appello di Hitler ai comandanti militari all’Obersalzberg il 22 agosto 1939: «Siate spietati, siate brutali».

Il mito della “domenica di sangue di Bydgoszcz” (Bromberger Blutsonntag), il 3 settembre 1939, sull’uccisione di centinaia di tedeschi indifesi da parte di polacchi armati, mise radici durature nella coscienza collettiva tedesca. Nella propaganda di Goebbels le centinaia di vittime si trasformarono in migliaia, e le migliaia in decine di migliaia. Secondo le direttive, l’espressione “Bromberger Mörder” attecchì davvero nella lingua tedesca. Durante la seconda guerra mondiale la propaganda tedesca diffuse, non senza successo, lo stereotipo del polacco assassino in Europa occidentale.

Lo stereotipo del polacco assassino era affiancato da altri preconcetti minori: i polacchi come individui sconsiderati e folli, guidati principalmente da persone di origine straniera (tedesca), privi della capacità di creare una propria cultura.

Durante la guerra la propaganda razziale occupò un posto di primo piano nella formazione delle idee dei tedeschi sui polacchi. Già nell’agosto 1939 si scriveva che «la Polonia come paese dall’alta percentuale di popolazione ebraica costituisce una minaccia per l’Europa intera». Rifacendosi al vecchio arsenale di pregiudizi antipolacchi si scriveva che «l’antica Polonia non era né una nazione, né uno Stato, ma la negazione di entrambi»[11].

Una specifica direttiva del Ministero della Propaganda del Reich del 24 ottobre 1939 invitava a trattare i polacchi come esseri subumani. Czesław Madajczyk fa notare che alla stampa era ordinato di rappresentare la società polacca in modo tale che «ogni tedesco, non importa se agricoltore o intellettuale, nel suo subconscio tratti ogni polacco come un insetto»[12].

Lo stereotipo del polacco come insetto si avvicinava allo stereotipo dell’ebreo come parassita. «In entrambi i casi» — scrive Szarota — «l’obiettivo era identico: superare la barriera psicologica che accompagna l’uccisione di esseri umani, convincere i tedeschi che hanno a che fare con degli Untermenschen, degli insetti che bisogna non tanto combattere (perché questo significa essere allo stesso livello), quanto debellare per motivi di salute, proprio come si fa con gli insetti. Servirsi dello stereotipo zoomorfo significava richiamarsi non più solo a sentimenti di odio o rabbia, ma doveva suscitare una sensazione di ribrezzo e disgusto nei confronti dei rappresentanti di quella che era una sorta di specie animale diversa»[13].

Non è pura retorica affermare che, secondo le teorie sulla razza del Terzo Reich, ai polacchi spettava la stessa sorte degli ebrei. Alcuni tedeschi chiedevano apertamente di seguire la strada dello sterminio totale dei polacchi, altri di convincere i polacchi che non li attendeva la “soluzione finale”. Il 29 marzo 1943 Friedrich Gollert, direttore dell’ufficio per la pianificazione territoriale di Varsavia, scriveva che era necessario contrastare le opinioni del movimento di resistenza polacco riguardo al fatto «che il destino degli ebrei diverrà un giorno anche quello dei polacchi. Il fatto che nel Reich, e in parte persino nella legislazione, poniamo sullo stesso piano ebrei e polacchi alimenta nel modo migliore questa agitazione»[14].

Quando nel 1985, durante una discussione scientifica a Berlino Ovest, ho concluso le mie riflessioni sul futuro dei polacchi nel “Nuovo Ordine” di Hitler affermando che lo sterminio degli ebrei ne era la componente principale ma non l’unica, perché nel programma di Adolf Hitler anche i polacchi, oltre ai russi, dovevano diventare gli “ebrei del futuro”, uno storico mi accusò di fare retorica, tanto grande è la forza degli stereotipi che limitano il razzismo del Terzo Reich di Hitler al solo antisemitismo. Bisogna quindi ricordare che sia in relazione ai russi che ai polacchi esistevano molte direttive pubbliche che invitavano a trattarli come esseri subumani, insetti, elementi destinati in parte allo sterminio.

A questo proposito Czesław Madajczyk scrive che «una parte degli studiosi polacchi identifica l’obiettivo principale della politica dell’occupante nazista in Polonia (un rapido annientamento del popolo polacco) con lo sterminio biologico. Questa è senza dubbio una semplificazione»[15]. Dopo aver elencato le forme già esistenti di sterminio biologico della popolazione polacca, l’autore sviluppa le sue affermazioni: «Quando furono svelati i piani a lungo termine nei confronti dei polacchi, quando in certe zone essi iniziarono a sentirsi minacciati, così come gli ebrei, venne fuori che erano indispensabili per accrescere gli sforzi della macchina da guerra tedesca, e allo stesso tempo, in settori in cui la polonità veniva minacciata direttamente, fece la sua comparsa, con forza sorprendente, la resistenza dei polacchi. In definitiva, però, il pericolo di annientamento venne scongiurato solo al momento della liberazione. Un esempio eclatante è Varsavia, distrutta sei mesi prima della capitolazione del Terzo Reich. Le enormi perdite umane subite permettono di prevedere quelle che avrebbe subito il popolo polacco se i tedeschi fossero riusciti a realizzare fino in fondo i propri piani. Il periodo della guerra avrebbe dovuto essere soltanto il primo atto del dramma»[16].

Dopo la conclusione definitiva dello sterminio degli ebrei, il Terzo Reich avrebbe dovuto mobilitare quanto meglio poteva l’odio totale contro i successivi nemici mitizzati, i russi, seguiti poi dai polacchi. Contro i russi non venne più raggiunto quel livello di odio assoluto? I piani di Adolf Hitler non erano precisi, ma presupponevano l’annientamento e non escludevano lo sterminio totale.

Sui polacchi il programma era delineato in maniera piuttosto chiara: soppressione degli intellettuali, del clero e delle classi dirigenziali, distruzione del sistema scolastico e della cultura, successiva riduzione dei polacchi al rango di massa lavoratrice non pensante asservita al Terzo Reich, infine trasferimento dei polacchi in Bielorussia o ancora più lontano e restituzione delle terre ai coloni tedeschi.

Franciszek Ryszka afferma che «il nazismo non creò l’ostilità verso i polacchi dal niente […]. Il nazismo le conferì nuovi significati e diffuse l’immagine demonizzata del polacco come barbaro ben oltre le regioni limitrofe ai conflitti, ma ovunque (sull’Elba, il Reno e l’Isar) le informazioni sui polacchi erano praticamente inesistenti»[17].

Non sono convinto che l’immagine demonizzata dei polacchi come barbari abbia iniziato a diffondersi soltanto con il nazismo. Prima del 1939 il movimento hitleriano non si era occupato troppo dei polacchi. Non si era nemmeno distinto in maniera particolare nel delineare la Polonia — ironia della storia (Treppenwitz der Geschichte) — sullo sfondo di altre tendenze revisioniste. Fino alla primavera del 1939 (ad eccezione, forse, dei primi mesi dopo l’ascesa al potere di Hitler) la Polonia e i polacchi non solo erano protetti dagli attacchi della stampa, di cui furono oggetto durante la Repubblica di Weimar, ma nei film nazisti degli anni dell’intesa (1934-1938) ne venivano, al contrario, propagandate le virtù in qualità di difensori dell’Europa dai russi-asiatici e dal bolscevismo, venendo rappresentati come insorti coraggiosi e soldati che amavano la propria patria.

Se, dopo il cambiamento di corso, la propaganda nazista riuscì nel giro di pochi mesi — a partire dell’estate del 1939 — a imporre così rapidamente l’immagine del polacco come bandito, barbaro, assassino di tedeschi, nemico dell’intera umanità difesa dalla Germania, forse è soprattutto perché gli stereotipi antipolacchi erano radicati da tempo e ampiamente diffusi in Germania e non solo nelle regioni di confine, ma anche sull’Isar e sul Reno. Lo confermano gli studi lessicologici di Tomasz Szarota, che mostrano l’esistenza di molte espressioni dispregiative sui polacchi tanto in Prussia quanto lungo il Reno. Ne parlano studi tedeschi sull’opinione pubblica in Germania all’atto della nascita del Terzo Reich[18].

Dando avvio alla propaganda antipolacca nell’estate del 1939, Hitler e il suo seguito si richiamavano a immagini nate perlomeno a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Il “merito” di Hitler è stato di inquadrare l’avversione e l’ostilità nell’ambito di una dottrina esplicitamente razziale, di sfruttarle per risvegliare sentimenti di aggressività generale nei confronti dei polacchi e, infine, di impiegarle per i piani di distruzione di massa del popolo polacco.

Allo stesso modo vennero usati i pregiudizi verso russi, ebrei e bolscevichi, stereotipi otto e novecenteschi. Secondo le raccomandazioni di Hitler, l’odio si sarebbe dovuto concentrare su un unico nemico, non era permesso disperderlo. Ebrei—bolscevichi—russi— URSS erano il primo nemico del Terzo Reich a essere nominato chiaramente. La propaganda antibolscevica aveva vari scopi: legittimava i piani di conquista del Lebensraum per l’espansivo popolo tedesco, legittimava la politica degli armamenti tedesca, doveva far capire ai tedeschi che le mancanze del Terzo Reich erano un’inezia in confronto alla miseria che portava con sé il bolscevismo. Grazie alla propaganda antibolscevica ci si aspettava, infine, di ottenere il riconoscimento dell’opinione pubblica europea per il Terzo Reich come difensore dell’Europa dai selvaggi asiatici. Questa propaganda venne sospesa per un breve periodo solo negli anni 1939-1940. In seguito, a partire dal 1941, i nemici venivano spesso riuniti sotto il nome collettivo di “slavi”.

La propaganda era supportata “scientificamente” e guidata con precisione. Il noto storico di Wrocław Werner Markert scriveva nel 1934: «Per la scienza, la strada verso est significa lotta, lotta in prima linea per nuove terre. Dobbiamo realizzare un lavoro particolare nella costruzione della strada che ci ha indicato il Führer. Oggi questo è il compito scientifico e politico degli studi sull’Europa orientale»[19].

La diatriba se il Terzo Reich sia stato o meno un continuatore della politica statale tedesca nei confronti dell’oriente europeo assume spesso toni del tutto astratti o accademici, nell’accezione negativa del termine. Alcuni studiosi avanzano la tesi che, considerate le dimensioni del genocidio nazista e i piani di aggressione illimitata nei confronti del mondo intero, il Terzo reich costituisca una rottura, dal punto di vista qualitativo, con le tradizioni della politica estera tedesca. I concetti di “qualità” e “quantità” sono in questo caso più che relativi, così come è difficile definire chiaramente concetti come “continuazione”, “rottura”, “interruzione nel continuum storico”[20].

Lo stereotipo del comandante

Il concetto di Lebensraum non può essere preso in esame indipendentemente dall’idea della “superiorità tedesca” o, come si diceva nel Terzo Reich, della “superiorità razziale” che si cela sempre dietro di esso. Il razzismo nazista si esprimeva soprattutto nell’antisemitismo e, in seguito, in riferimento ai popoli dell’Europa orientale, e dunque principalmente in riferimento agli slavi. Dietro uno dei due elementi fissi del programma di Hitler, dietro il concetto di Lebensraum si celava un razzismo delineato e articolato in maniera imprecisa, ma del tutto chiaro: l’antislavismo.

Nell’immagine degli slavi di Hitler si possono riconoscere due fonti: una tedesca e una austriaca. La sua avversione nei confronti dei cechi traeva chiaramente origine da Linz e Vienna, non da Monaco o Berlino, dove l’ostilità nei confronti dei cechi era minore. Neppure gli sloveni, che ogni tanto compaiono nelle sue riflessioni, erano un concetto esistente nell’immaginario di un cittadino medio dell’Impero guglielmino o della Repubblica di Weimar. Invece l’immagine dei polacchi di Hitler non era inizialmente intrisa di quella molteplicità di tratti negativi che aveva negli stereotipi prussiani o tedeschi. Per i cittadini dell’antico Impero guglielmino il nemico slavo numero uno era il polacco. Per Hitler no. Quando il 22 agosto 1939 disse ai suoi generali: «Sinora la mia politica polacca è stata contraria alle idee della nazione», aveva ragione.

Si può parlare di un rapporto molto personale di Hitler nei confronti di ebrei e bolscevichi, ci si può chiedere se la sua avversione nei riguardi dei russi non portasse spesso un marchio più austriaco che tedesco, ma descrivendo il rapporto di Hitler nei confronti dei polacchi a partire dal 1939 è difficile non ricordare le parole di Konrad Heiden: «Hitler ist ein deutscher Zustand», «Hitler è una condizione tedesca»[21].

All’austriaco Hitler erano estranee le simpatie, le passioni o le “illusioni pro-russe” tipiche di molti diplomatici e militari del Secondo Reich e della Repubblica di Weimar. L’antica Russia dei Romanov appariva all’austriaco Hitler come un centro del panslavismo che avrebbe potuto, con l’aiuto di altre nazioni slave, inondare l’Europa centrale. Per l’austriaco Hitler il panslavismo come minaccia per la germanicità suonava in maniera decisamente più minacciosa che non per un tedesco medio.

Presso gli austriaci e gli abitanti dell’Impero guglielmino le immagini degli slavi si soprapponevano nei loro tratti generali. Qua e là il movimento pangermanico vedeva gli slavi come sinonimo di arretratezza, civiltà inferiore, razza inferiore, come minaccia per la germanicità. L’asprezza di questa visione era accresciuta dal fatto che nei territori dell’Europa orientale e meridionale, estranei dal punto di vista nazionale e razziale, si erano stabilite, in epoche diverse, centinaia di migliaia di tedeschi. I loro diritti prioritari verso queste terre venivano legittimati con la superiorità culturale e razziale. Questi toni, ancora forti nella stampa tedesca prima del 1914, trovano pieno sbocco nel programma di Hitler: il programma dell’Anschluss e dell’occupazione della Cecoslovacchia e della Polonia in difesa dei diritti calpestati delle minoranze tedesche.

Nel 1938, dando avvio alla conquista dell’Europa centro-orientale, affermando, al suo ingresso a Vienna, di essere diventato “ultraprussiano” (Überpreuße), l’austriaco Hitler aveva riunito nel suo programma tutti i possibili elementi negativi dell’immagine degli slavi di origine prussiana, austriaca e tedesca. Cercò di sfruttare appieno la loro forza mobilitante per conquistare e annientare le nazioni europee negli anni 1939-1945 (quest’immagine degli slavi nella monarchia austro-ungarica comprendeva del resto molti più elementi positivi che non nell’Impero guglielmino). L’immagine degli slavi come esseri subumani non era un’invenzione esclusiva né del prussiano, né dell’austriaco, né del bavarese Adolf Hitler. Il Führer non ebbe bisogno di imporla ai suoi seguaci.

Quest’immagine non era identica nei dettagli all’immagine che degli slavi avevano Rosenberg, Darré, Himmler, Koch o Frank. Era un insieme di stereotipi negativi funzionanti nella mentalità tedesca che il grande distruttore dell’Europa impiegò per compiere omicidi di massa nei suoi territori orientali. L’uso di questi stereotipi per commettere un genocidio può essere considerato a suo modo un “merito” originale di Adolf Hitler, poiché i piani di genocidio di massa in nome della superiorità razziale erano estranei alla stragrande maggioranza dei tedeschi quando aveva assunto il potere il 30 gennaio 1933. I tedeschi dovevano ancora sperimentare sulla propria pelle che chi approva un sistema di potere totalitario deve essere pronto a diventare compartecipe e corresponsabile di un genocidio di massa.

La caratteristica principale del nazismo, a differenza del fascismo italiano o del franchismo, era il razzismo, che si manifestava soprattutto nella teoria e nella pratica dell’antisemitismo. L’ascesa di Hitler al potere determinò indubbiamente il risveglio di campagne antisemite e di teorie razziste nell’Europa centrale e orientale, in Austria, Ungheria, Romania, Cecoslovacchia e in altri paesi. Mussolini, a lungo maldisposto e persino ostile all’antisemitismo nazista, nel 1938 decise tuttavia di introdurre le leggi razziali sapendo quanto peso il Führer tedesco attribuisse a questo problema. Brandendo slogan razzisti, sperava anche di esercitare un potere totalitario sulla società italiana sul modello hitleriano, eliminando le influenze della monarchia e del papato. Questa imitazione si dimostrò un grande fiasco. Renzo De Felice, che non solo è il più famoso biografo di Mussolini, ma è anche esperto di storia degli ebrei italiani, scrive che «proprio in occasione del lancio della campagna della razza la propaganda fascista fallì per la prima volta la prova e per la prima volta grandi masse di italiani, che sino a quel momento erano state fasciste, o, se si vuole, mussoliniane, ma non certo antifasciste, incominciarono a guardare con occhi diversi il fascismo e lo stesso Mussolini»[22].

Nel contesto tedesco, il razzismo di Hitler — in primo luogo il suo antisemitismo, ma anche l’antislavismo, il sentimento di superiorità razziale nei confronti dei popoli dell’Europa orientale, la missione razziale e culturale nell’oriente europeo — non allontanò le masse dal regime. Al contrario, divenne un potente fattore di mobilitazione intorno al movimento e allo Stato nazista.

Hitler non smise mai di pronunciare dichiarazioni antisemite e razziste. Subito dopo aver preso il potere, mentre rassicurava il mondo sui suoi intenti pacifici, continuò senza sosta a ricordare che i principi razzisti erano un rinnovamento dell’idea nazionalsocialista. Le espressioni “Rassengrundsätze” o “Rassenlehre” ricorrono incessantemente nei suoi discorsi ufficiali dopo il 1938. Fa riflettere quanti impiegati dell’Auswärtiges Amt abbiano accolto praticamente da subito la sua politica antisemita. Durante i colloqui con i rappresentanti dell’NSDAP nel novembre del 1934 l’Auswärtiges Amt insistette soltanto sul fatto di “limitare le leggi razziali agli ebrei per questioni di politica interna”. Vico von Bülow-Schwante, in una nota sull’argomento, affermò che «le leggi di Norimberga hanno sostituito il concetto negativo di “non ariano” con quello positivo di “ebreo”» e sottolineò con forza i danni politici che avrebbe arrecato in politica estera un’esplicita estensione dei principi di consanguineità con i tedeschi o di estraneità razziale di altri popoli. Affermò che quello che doveva essere una norma per i membri dell’NSDAP non poteva regolare i sistemi esterni del Terzo Reich. Il direttore dell’Ufficio per le Politiche Razziali dell’NSDAP (Rassenpolitisches Amt der NSDAP), il medico Walter Gross, era invece dell’opinione che ai principi razziali (la difesa del sangue tedesco) non si potesse rinunciare, sempre che non si dovessero fare talvolta delle concessioni per questioni tattiche[23].

La storia dei tempi moderni mostra che l’immagine del nemico mitizzato, spesso camuffato o nascosto, è sempre connesso a presupposti già esistenti: pregiudizi, avversione, stereotipi, fatti e concetti reali (il “nemico del popolo”, l’ebreo, il bolscevico, il massone, il partigiano, il capitalista, lo slavo).

I sistemi totalitari sono caratterizzati dalla particolare abilità di creare nemici e seminare odio; nel concetto di rinnegato, traditore o apostata, di eretico ideologico, di nemico o avversario del sistema si può fare rientrare chiunque, a prescindere dall’appartenenza nazionale o di classe. La manifestazione di approvazione nei confronti di sistemi esistenti e la condanna dei suoi avversari sono una norma che deve facilitare la sopravvivenza in un sistema totalitario.

La mobilitazione dell’odio verso un nemico interno o esterno costituisce la caratteristica fondamentale dei sistemi totalitari. Quest’odio viene mitizzato e assolutizzato, così come a essere mitizzati sono i vantaggi che deve apportare il nuovo sistema. Il nemico è l’incarnazione di ogni male, mentre il rappresentante del nuovo regime è l’incarnazione di ogni bene. Questo serve a spiegare le manifestazioni attive di odio, l’aggressione, l’annientamento fisico, lo sterminio. La mobilitazione dell’odio assolve a molte funzioni: unisce la maggioranza contro la minoranza, unisce la nazione contro un nemico mitizzato, distoglie l’attenzione delle masse dalle difficoltà interne del sistema, giustifica queste difficoltà, ne addossa la colpa al nemico mitizzato, assicura una piena mobilitazione verso le aggressioni interne che finora si sono rivelate una necessità per tutti i grandi Stati totalitari.

Le visioni politiche del futuro del mondo tracciate da Hitler e dal suo seguito erano spesso consapevolmente generiche e imprecise. Questo derivava da un’effettiva mancanza di precisione e da un camuffamento intenzionale dei veri obiettivi. La banalità e la monotonia delle dichiarazioni di Hitler, il carattere puramente propagandistico dei suoi discorsi pubblici hanno scoraggiato molti studiosi dall’occuparsi della sua vera visione del mondo. Hanno dimenticato che gli agitatori e i propagandisti non devono essere per definizione dei bugiardi consapevoli. La strumentalizzazione di molte idee al servizio di un’idea principale — l’“idea nazionalsocialista”, per servirci della terminologia di Hitler — non escludeva la fiducia in esse.

Hitler era un individuo dal sapere selettivo, asistematico e superficiale, ma si è rivelato uno straordinario manipolatore di idee. Quando scriveva o teneva discorsi non perdeva quasi mai di vista l’obiettivo principale, non si affidava al caso o al destino. Forse ha ragione Jerzy Krasuski quando afferma che persino il noto e già citato frammento del Mein Kampf in cui Hitler a est della Germania vedeva solo la Russia e i paesi limitrofi a essa sottomessi era un modo per andare incontro all’opinione dei lettori che non volevano prendere atto della rinascita dello Stato polacco[24].

Il Mein Kampf è stato definito talvolta come il bestseller meno letto del mondo. Ma sarebbe esagerato affermare che prima della guerra non fosse conosciuto in Unione Sovietica, in Polonia o in Cecoslovacchia. Nella stampa sovietica veniva menzionato per illustrare cosa fosse il movimento nazista. Nel gennaio del 1935, pronunciando un discorso sui principi della politica estera dell’URSS alla VI Riunione dei Soviet, Molotov citò un’affermazione di Hitler sulla Russia dal Mein Kampf[25].

Nel 1933 l’anziano presidente della Cecoslovacchia Tomáš Masaryk, parlando con Richard Coudenhove-Kalergi, sottolineò di aver letto con attenzione il Mein Kampf, aggiungendo però «di essere perplesso nei confronti di alcuni capitoli»[26]. Il nocciolo della questione consisteva nel fatto che molti lettori del Mein Kampf, in accordo, del resto, alle dichiarazioni ufficiali di Hitler nei primi anni di cancellariato, trattavano questo libro più come un documento storico di difficile lettura che non come il programma del Terzo Reich.

Negli anni trenta in Polonia il Mein Kampf veniva citato in molti articoli, opuscoli e libri[27]. Talvolta venivano espresse simpatie per l’antisemitismo di Hitler, ma prevaleva un atteggiamento di condanna. Nel 1938 padre Józef Pastuszka scriveva che «la Germania, sconfitta con le armi e moralmente umiliata, internamente lacerata e minacciata nelle sue fondamenta dal socialismo, ha trovato nel razzismo un perfetto strumento di autodifesa, una fonte di nutrimento per il suo orgoglio nazionale e un fattore di rivincita»[28]. Profetizzava che il razzismo di Hitler non avrebbe superato la prova del tempo, mentre i suoi meriti come organizzatore del Terzo Reich e difensore della civiltà occidentale dal bolscevismo sarebbero rimasti.

Fino al 1939 spesso non ci si accorgeva che dalla lotta contro il bolscevismo, dalla lotta contro l’URSS, alla lotta in nome dei principi razziali contro i russi, i popoli dell’Europa orientale, gli slavi, contro tutti coloro i quali avrebbero potuto ostacolare la crociata nazista per la conquista del Lebensraum, e dunque anche contro i polacchi, il passo era breve. I politici dell’Europa centro-orientale videro abbastanza presto nel Mein Kampf una continuazione dell’idea dell’imperialismo tedesco, ma non notarono che dietro la spinta verso est c’erano le idee razziste, le idee dell’antislavismo.

È significativo che alle soglie del XXI secolo i tentativi di ripubblicare e diffondere il Mein Kampf in traduzione polacca incontrino in Polonia una debole resistenza.

Sin dall’inizio Hitler riteneva gli accordi con l’URSS dell’agosto e del settembre 1939 solo come una mossa tattica ed era cosciente che sarebbero stati trattati come un grande tradimento ideologico. Una parte dei Gauleiter e dell’opinione pubblica tedesca riteneva, a torto, gli accordi con l’URSS firmati da Ribbentrop un ritorno alle antiche tradizioni di intesa e di alleanza della Prussia e del Secondo Reich con la Russia.

Mussolini e i fascisti italiani erano indignati dal “tradimento ideologico” di Hitler. Fino all’ultimo il Führer non svelò neppure al duce le sue intenzioni, temendo le indiscrezioni degli italiani. Rimase fedele alla sua tattica di mantenere in assoluta segretezza le questioni di massima importanza. Pertanto Mussolini, inconsapevole della cosa, lo ammonì duramente che non poteva sacrificare di continuo i principi della “sua rivoluzione” per motivi tattici[29]. Hitler rimase sempre fedele ai suoi principi fondamentali: l’antisemitismo e la conquista del Lebensraum nella lotta contro la “Russia bolscevica”. La seconda guerra mondiale ha mostrato che in lui questi presupposti ideologici predominavano in maniera netta sul pragmatismo politico. Inoltre Mussolini non era certo mai stato così antibolscevico e anticomunista quanto Hitler. Come gli antichi seguaci dei fratelli Strasser — la sinistra dell’NSDAP — il duce era spesso incline a vedere il nemico principale non a Mosca, ma nella plutocrazia capitalista della City e di Wall Street. L’antisemitismo di Mussolini era congiunturale, di fresca data, proclamato sotto pressione della Germania nazista.

Se non fosse stato per i suoi presupposti ideologici, Hitler, come ha giustamente sottolineato Jäckel, non si sarebbe occupato dello sterminio degli ebrei come obiettivo principale al momento delle battaglie decisive sul fronte orientale, privando la sua industria degli armamenti di una preziosa forza lavoro e impegnando per altri scopi forze necessarie a portare avanti la guerra. Se non fosse stato per i suoi presupposti ideologici non si sarebbe opposto in maniera così decisa a qualsiasi tentativo di sfruttare i sentimenti religiosi della popolazione delle campagne sovietiche e di creare formazioni militari con prigionieri di guerra sovietici, non avrebbe attuato, contro i principi della strategia di guerra, la tattica di spietato annullamento fisico della popolazione civile dell’Unione Sovietica. Se non fosse stato per i suoi presupposti ideologici, negli anni 1944-1945 Hitler avrebbe
accolto il suggerimento di Hans Frank di coinvolgere i polacchi nella lotta contro i bolscevichi
.

Quando parliamo delle tradizioni politiche prussiane o tedesche nei confronti della Polonia e della Russia nel XIX e XX secolo, è facile notare quanto fossero diversificate nei confronti della Russia, comprese forti e persistenti tendenze pro-russe, soprattutto ai vertici, e allo stesso tempo quanto fosse coerente e quasi senz’eccezione antipolacca la politica dei governi prussiani e tedeschi. Le cerchie governative di Pietroburgo e Mosca non erano mai state così compatte e chiare nel loro antipolonismo. Il breve intermezzo nazista degli anni 1934-1938 rasenta l’ironia. Del resto è praticamente l’unica eccezione nella politica antipolacca prussiana e tedesca dopo il 1848.

Hitler —che agiva spesso secondo il principio: peggio per la realtà se non è d’accordo con i miei piani — non era cosciente di quanto anche i polacchi fossero capaci, a modo loro, di non fare i conti con la realtà quando entrava in gioco l’indipendenza del loro paese, le questioni dei confini polacchi, gli antiquati concetti di onore e offesa. A conoscere e prendere spesso in considerazione questa specificità della Polonia erano soprattutto i comandanti militari tedeschi, rappresentanti della casta degli ufficiali provenienti dai territori orientali dell’antico Impero. Sin dall’inizio della seconda guerra mondiale temevano la protesta, il movimento di resistenza, i partigiani sui territori occupati. Nei suoi calcoli generali Hitler non prendeva in considerazione questi elementi così come, nonostante ogni evidenza, non sfruttava per i suoi scopi, secondo i vecchi piani ancora antecedenti alla prima guerra mondiale, i nazionalismi dell’Europa orientale.

Gli obiettivi che si poneva Hitler e i metodi inumani ai quali faceva ricorso costituirono un enorme salto di qualità rispetto al periodo antecedente al 1933.

Hitler ha mobilitato l’avversione e l’odio dei tedeschi contro i nemici della Germania e della germanicità, quelli veri ma soprattutto quelli immaginari, in misura inaudita e mai incontrata prima nella storia moderna dell’Europa e del mondo. Contrariamente a quanto afferma Martin Broszat, con la teoria dei polacchi di razza inferiore, da essere comandati e civilizzati da una ristretta cerchia di individui di “sangue tedesco”, Hitler ha iniziato a fare giochi di prestigio non nella seconda metà del 1939, ma già nei primi anni dell’NSDAP. In seguito questa vecchia teoria dei razzisti prussiani e tedeschi è scomparsa dal suo repertorio per tornarvi nel 1939. Ma Hitler l’ha sfruttata per la motivazione ideologica dello sterminio dei polacchi su una scala e in una forma impensate persino per i più accaniti mangiapolacchi fra i junker prussiani.

Lo ha inteso molto bene Franciszek Ryszka scrivendo che nell’ottica hitleriana l’ostilità non si riferiva solo allo Stato polacco, perché «il nemico erano i polacchi, ogni polacco, per il fatto stesso di appartenere a una specie definita […]. L’ostilità doveva esprimersi nei sentimenti di ogni tedesco e accompagnarlo in ogni rapporto che intratteneva con la specie ritenuta nemica […]. Questo non è un desiderio di lottare fino alla vittoria, di arrestare il nemico, è un desiderio di distruzione»[30].

Hitler ha sfruttato i risentimenti e le tradizioni antislave prussiane e tedesche per realizzare l’antica utopia reazionaria tedesca — giungere a conquistare spazio vitale a est — pianificandoli e attuandoli in una misura che superava i sogni più arditi sul Lebensraum dei suoi predecessori. Józef Beck ha avuto un momento di preveggenza quando, all’inizio del 1939 dichiarò che Hitler mirava a far confinare la Germania con il Giappone.

Nella visione globale di Hitler, come in altri grandi totalitarismi che si sono realizzati in una aggressione imperialistica esterna, fare i conti con le tradizioni o con il carattere di altre nazioni giocava un ruolo marginale, passava in secondo piano. Spesso i leader di paesi totalitari, come ha dimostrato l’esperienza del ventesimo secolo, non sono inclini a prendere in considerazione la specificità di altre nazioni. Hitler, stipulando un patto di non aggressione con la Polonia come pure attaccandola cinque anni dopo, sottometteva tutto alle sue visioni globali. Ma c’erano tradizioni con cui spesso faceva i conti e che, quando risultava comodo, necessario o persino indispensabile, tentava di sfruttare al massimo: le tradizioni della nazione tedesca, comprese quelle prussiane.

Nel Terzo Reich si intrecciavano tradizioni antiche e nuove, portate dal movimento hitleriano. La storia degli ultimi duecento anni mostra che nessuno movimento che abbia realizzato cambiamenti rivoluzionari negando le tradizioni del passato è riuscito, però, ad allontanarsene del tutto. Queste tradizioni tornavano o venivano consapevolmente richiamate subito dopo l’ascesa al potere da parte dei nuovi movimenti. Nel caso della teoria e della pratica del Terzo Reich era necessario ricalcare le tradizioni tedesche, ma spesso lo studio del rapporto con le tradizioni di altre nazioni e la loro importanza nei calcoli politici di Hitler e del suo seguito si rivela infruttuoso. Hitler attribuiva scarso peso alle tradizioni dei rapporti polacco-tedeschi (contrapponendosi a pressoché tutto il Ministero degli Esteri negli anni 1933-1939), come anche a quelli russo-tedeschi negli anni 1940-1941, senza fare quasi per niente i conti con i piani di Ribbentrop e con l’orientamento pro-russo.

È riuscito invece a strumentalizzare e guadagnare a sé negli anni 1939-1945 qualsiasi possibile sentimento antipolacco dei tedeschi, e negli anni 1941-1945 quelli antirussi e antisovietici, e a richiamarsi alle antiche tradizioni della Prussia come paese colonizzatore.

Si può parlare, con tutte le riserve del caso, di tradizioni stabili, di complessi di superiorità e inferiorità, di sentimenti e risentimenti della nazione tedesca verso altri popoli. Nell’atteggiamento mutevole di Hitler, tuttavia, queste componenti — a parte il sentimento di affinità o forse anche di ammirazione per gli inglesi, di odio assoluto verso gli ebrei e di superiorità razziale verso gli slavi — avevano poco peso. Basta dare uno sguardo alle sue opinioni sprezzanti sui popoli latini, alle osservazioni sarcastiche sugli austriaci o alle argomentazioni degli ultimi anni di guerra sulla nazione tedesca indegna di lui per comprendere che, con il passare degli anni, il Führer era guidato sempre più da un odio verso le persone — individui e popoli — a prescindere dalla loro provenienza e nazionalità. Questo è un campo di ricerca molto più adatto a uno psicologo che non a uno storico. A Hitler non è possibile applicare la misura della normalità umana e quella dei sistemi politici tradizionali.

Ma sarebbe molto rischioso trarre conclusioni sulle predisposizioni nazionali al totalitarismo. Quando si riesce a introdurre un sistema pienamente totalitario, i suoi timonieri sono in grado di rompere con le tradizioni nazionali e di imporre nuove forme di rapporti interpersonali anche al prezzo dello sterminio fisico di milioni di concittadini. Un sistema pienamente totalitario implica uno strappo e un’abolizione delle tradizioni in molti ambiti, e soprattutto lo smantellamento delle vigenti norme morali.

Nel settembre del 1939 Hitler si rifaceva alle tradizioni prussiane e tedesche in materia polacca, non alle antiche tradizioni sassoni o a quelle austriache successive al 1867. Il supporto incontrato, la motivazione usata richiamandosi expressis verbis agli stereotipi tedeschi di “polnische Wirtschaft”, “polnische Organisation”, il riferimento ai Cavalieri teutonici, al Drang nach Osten, alle campagne dei coloni e dei colonizzatori tedeschi nelle terre polacche dai tempi del medioevo erano, da parte di Hitler, pienamente consapevoli.

Negli anni della seconda guerra mondiale Hitler crede pienamente alle sue argomentazioni sugli slavi, eterno nemico di razza inferiore della razza tedesca. Vede la continuità ideologica e politica di lotte portate avanti da dieci secoli[31]. Questa continuità funzionava e funziona tanto nella coscienza collettiva polacca quanto in quella tedesca, in maniera pressoché ininterrotta dai tempi di Bismarck fino all’ultimo dopoguerra. Gli storici non possono far altro che ricordare come il Drang nach Osten, che riduceva diverse campagne, attività e metodi politici a un unico denominatore, non è un concetto eterno ma ha invece iniziato a funzionare a metà del secolo scorso.

Sono pienamente d’accordo con Wolfgang Wippermann quando dice che «parlare di strutture di espansione verso est pressoché identiche in epoca feudale e in epoca capitalista è astorico, perché in questo modo la storia è vista come un qualcosa di più o meno statico e le strutture di classe come immutabili. Rimane da stabilire se il Drang nach Osten tedesco sia stato e sia un’ideologia»[32]. Ma questi miti astorici esistono accanto alle verità nell’immaginario di massa e lo governano. Hitler è riuscito a sfruttarli in modo straordinario, mobilitando l’opinione tedesca contro russi, polacchi o ucraini.

La lotta per il Lebensraum contro gli slavi quali esseri subumani era direttamente collegata alla tradizione della storiografia e della pubblicista tedesca dal 1848 fino alla Repubblica di Weimar compresa. Hitler e Himmler sono stati continuatori — che lo vogliamo o no, questa purtroppo è la verità storica — di importanti correnti del pensiero politico tedesco, laddove motivavano la necessità di conquistare l’oriente europeo con il livello inferiore di cultura degli “Ostvölker” e con la loro dipendenza dalla civiltà dei “portatori di cultura”: i tedeschi. Pubblicato in quasi quattro milioni di copie in quasi tutte le lingue slave, il testo che esprimeva le idee di Himmler su tali questioni era intitolato Der Untermensch?[33]. Non a caso cito insieme i nomi di Hitler e Himmler. In materia di colonizzazione, deportazioni, annientamento degli slavi durante la seconda guerra mondiale le loro idee erano spesso identiche. Dopo il 1939 agli occhi di Hitler venne a crearsi una chiara gerarchia tra gli slavi sulla strada verso lo sterminio. Al primo posto troviamo russi, ucraini e polacchi, solo dopo i cechi. La realizzazione di questi piani di sterminio durante la guerra dipendeva anche dall’atteggiamento dei governatori dell’Ucraina, della Polonia o della Cecoslovacchia: Koch, Hans Frank, Neurath o Heydrich. Ma alla base c’erano i presupposti di Hitler. Il suo capo dell’ufficio stampa ha espresso in maniera lapidaria questi presupposti scrivendo così del sistema di occupazione nei territori polacchi: «Il pugno sulla Polonia era la mano di Hitler»[34].

Il cambiamento dell’atteggiamento di Hitler verso i polacchi nel 1939 ha varie motivazioni. In primo luogo il Führer riteneva che i polacchi non avessero apprezzato il fatto che, unico tra i politici tedeschi dopo il 1918, egli avesse deciso, contro la volontà della sua stessa nazione, di stipulare un patto con la Polonia; che essi non avessero compreso quanto limitate, quanto ridotte fossero — secondo Hitler — le richieste di danni territoriali che aveva posto loro. Ridotte in rapporto alle rivendicazioni del revisionismo successivo al Trattato di Versailles, alle richieste della maggioranza dei tedeschi. In secondo luogo, i polacchi avevano completamente deluso le sue speranze come alleati nella lotta contro il bolscevismo e l’URSS. Come poi venne fuori, durante la seconda guerra mondiale non volessero alcuna vera collaborazione e, contrariamente a ciò che pensava Hitler ma in accordo agli avvertimenti di Rosenberg, erano assolutamente antitedeschi e doppio- giochisti. Nelle proposte di collaborazione con l’autoritaria Polonia, Hitler era convinto, forse non troppo esplicitamente, che il governo e l’opinione pubblica polacca fossero, almeno in parte, antisemiti[35]. Il settembre del 1939 dovette convincerlo in prima persona che la Polonia era piena di ebrei e che, come disse a Rosenberg, il popolo polacco era composto di “materiale terribile”; e gli ebrei polacchi erano “il peggio che si possa immaginare”[36].

Questa Polonia “stracolma” di ebrei costituiva per lui, nell’autunno del 1939, un’ulteriore argomentazione in favore del fatto che non avesse senso pensare di creare un qualunque paese satellite dai resti della Polonia. A partire dal settembre del 1939 l’odio di Hitler verso i polacchi aumentò notevolmente a causa del fatto che, secondo lui, i polacchi erano responsabili dello scoppio della seconda guerra mondiale opponendogli una resistenza a suo modo di vedere insensata e lasciandosi guidare dalla Gran Bretagna. Con l’evolversi della guerra iniziò ad addossare anche parte della colpa per i suoi fallimenti a coloro i quali avevano “scatenato la seconda guerra mondiale”: i polacchi.

A partire dal 1939 Hitler si dimostra un chiaro continuatore della tradizione antipolacca della Prussia e della Germania. Nonostante il patto con la Polonia, nonostante tutti i cambiamenti avvenuti dopo la sua ascesa al potere, «neanche il 1933» — scrive Michalka — «deve essere considerato in alcun caso una frattura nella storia moderna della Germania, perché Hitler non fu mai, indipendentemente dal suo indiscusso e illimitato potere di comando, il solo responsabile della politica estera tedesca»[37]. Questa rottura con lo schema della politica antipolacca poteva trovare il suo fondamento ideologico, come ha notato Wippermann, in Das Recht der jungen Völker di Arthur Moeller van den Brück, pubblicato a Breslavia nel 1932[38]. Secondo questo schema la Polonia, che non era chiusa alla cultura tedesca e consentiva a persone di nazionalità tedesca di stabilirsi sul suo territorio, meritava il ruolo di “giovane alleato” e paese satellite. “Hitler e il conservatorismo non erano perciò affatto distanti”[39].

Sulla continuità delle tradizioni e sul legame tra l’ideologia nazionalista tedesca prima e dopo il 1918 ha scritto molto, nel contesto dell’oriente europeo, Wolfgang Wippermann. Ecco cosa dice: «Dopo il 1918 queste ideologie nazionaliste, organico-populiste e razziste acquisirono un significato e una funzione aggressivo-espansionistica chiaramente riconoscibili. Proprio nella Repubblica di Weimar, e poi soprattutto nel Terzo Reich, si invocava l’attuazione della “marcia” o della “spinta” verso est interrotta nel medioevo»[40]. Allo stesso tempo, però, Wippermann fa notare che la visione hitleriana del Drang nach Osten, la sua motivazione razziale e biologica e le conseguenze da essa derivanti andavano molto oltre il concetto di continuità. Lo storico le definisce “Kontinuitätsbruch” (interruzione della continuità)[41]. Il tema di questa continuità o della sua assenza nella politica estera tedesca è da anni oggetto di discussione. Oggigiorno è evidente nella storiografia tedesca la supremazia dei seguaci della tesi della continuità. La continuità delle premesse spesso si sovrapponeva alla continuità personale dell’elite al potere. A quanto pare, più d’una delle nostre riflessioni sull’antipolonismo e l’antislavismo di Hitler e delle tradizioni tedesche confermano questa tesi.

Non a caso questo filo rosso nella “deutsche Polenpolitik” viene sottolineato non solo dai polacchi ma anche da eccellenti storici della Germania occidentale come Martin Broszat o Hans Ulrich Wehler. È significativo che molti leader dell’opposizione e degli organizzatori dell’attentato del 20 luglio 1944 vivevano nelle tradizioni di una “politica polacca negativa”, richiedendo i confini antecedenti al 1914 o il riconoscimento di parte delle modifiche delle frontiere effettuate dal Terzo Reich. È difficile dimenticare che fu proprio Carl Goerdeler, nell’agosto del 1934, a consegnare a Hitler un memoriale contro la sua nuova politica polacca.

Scrive Hans Mommsen: «L’idea della missione culturale tedesca a est costituiva un bene comune dell’imperialismo tedesco prima del 1914 e trovò uno sbocco particolarmente aspro nel movimento pangermanico. I progetti di un grande spazio, con lo scopo di sottomettere al controllo tedesco i territori dell’Europa orientale, non si limitavano in alcun modo al movimento nazionalsocialista ed erano diffusi in quelle cerchie nazionaliste conservatrici che il 20 luglio 1944 erano scese apertamente in campo come decisi oppositori del nazionalsocialismo»[42]. Dalla “missione culturale tedesca” alla “missione razziale tedesca” a est il passo era breve.

Hitler si richiamava a valori molto più radicati nella tradizione tedesca di quanto non si ritenga comunemente. Sorprendenti e scioccanti erano invece la “novità” e l’“originalità” del suo modus operandi. Un tedesco medio si identificava spesso, in tutto o in parte, con gli slogan di Hitler, senza prevedere fino a che punto l’approvazione del suo programma l’avrebbe costretto ad accettare i metodi della sua realizzazione.

Hitler era una figura rappresentativa per una parte del popolo tedesco. Sviluppando le sue teorie antisemite e razziste non creava un nuovo programma, ma si richiamava a concetti già esistenti nelle masse. Non si sforzava di complicare, ma semplificava consapevolmente. Nell’intervista a Bertrand de Jouvenel del 21 febbraio 1936 disse: «I nostri problemi sembrano complicati. La nazione tedesca non sa come affrontarli [...] Ma io ho semplificato questi problemi e li ho ridotti a una formula semplicissima»[43].

Hitler non era un corpo estraneo austriaco nella storia tedesca. Come portavoce di stereotipi e umori popolari non era né un caso né un incidente nella storia tedesca. D’altra parte ha sfruttato questi pregiudizi in misura impensata per la destra tedesca e persino per molti dirigenti dell’NSDAP. Così come ha sfruttato il culto della nazione, dell’esercito e dello Stato radicati in Germania. Ha sostituito il concetto di nazione con quello di razza, ha fuso insieme il nazionalismo tedesco col razzismo, ha fatto dell’esercito lo strumento per enormi omicidi di massa. Il Terzo Reich sarebbe potuto sorgere ed esistere senza l’austriaco Adolf Hitler. Ad esempio con i tedeschi Goebbels, Göring, Himmler e Heydrich. Con un altro Führer sarebbe divenuto un paese dal carattere analogo, forse con una tendenza diversa all’espansione e al genocidio. Magari un po’ più simile all’Italia fascista. Ma di certo sarebbe stato un paese antisemita e antibolscevico che avrebbe rivolto la sua espansione verso est contro gli slavi di razza e cultura inferiore, contro i “popoli orientali” di razza e cultura inferiore. Hitler non è stato, lo ripeto ancora una volta, né un caso né un incidente nella storia tedesca. Né lui né il suo antislavismo.

Per vari motivi la storiografia ha lasciato perdere troppo facilmente l’antislavismo di Hitler e del suo Terzo Reich. Molto spesso non ne parla e basta, perché è un problema complesso che non riguarda solo le idee del Führer, ma anche quelle della nazione. Negli ultimi mesi del Terzo Reich Hitler è tornato molte volte sulla correttezza dei suoi presupposti programmatici: l’antisemitismo, l’antibolscevismo e l’antislavismo. Quando centinaia di migliaia di tedeschi — popolazione civile — fuggivano verso ovest davanti all’Armata Rossa, abbandonando i territori della Pomerania e della Slesia, Hitler ritornava ai suoi grandi piani di conquista e insediamento dei tedeschi dell’Europa orientale. Esprimeva la speranza che giungessero nuove generazioni di tedeschi a portare avanti la “sua opera”. Non era una posa, come nel caso di molti altri politici sconfitti. Hitler si atteneva con la testardaggine di un maniaco ad alcuni suoi presupposti programmatici. Ritornava al progetto di sterminare “i ridicoli cento milioni di slavi”[44].

Dichiarò che «se non saremo del tutto pronti a est, ogni nuova generazione dovrà ricominciare daccapo»[45]. E infine, nell’ultimo messaggio al comandante generale della Wehrmacht, il feldmaresciallo Wilhelm Keitel, famoso per i molti ordini di uccisione di cittadini sovietici e polacchi emessi personalmente, il 29 aprile 1945 Hitler scriveva: «L’obiettivo deve ancora essere la conquista dello spazio nazionale tedesco a est»[46].

Note al testo

[1] Il seguente testo è una versione ridotta del cap. 6 di JERZY W. BOREJSZA, “Śmieszne sto milionów Słowian...”: wokół światopoglądu Adolfa Hitlera, Neriton-Instytut Historii PAN, Warszawa 2006. Si ringraziano l’autore e l’editore per la gentile concessione.

[2] MARIA LAMMICH, Das deutsche Osteuropabild in der Zeil der Reichsgründung, Boppard am Rheim 1978, p. 37.

[3] Ivi, p. 88.

[4] J. SYWOTTEK, Mobilmachung für den totalen Krieg, Düsseldorf 1976, p. 123.

[5] Cfr. TOMASZ SZAROTA, Pole, Polen und polnisch in den deutschen Mundartenlexika und Sprichwörterbüchern, in “Acta Poloniae Historica”, 1984, n. 50, pp. 81-113. Vedi ID, Niemcy i Polacy: wzajemne postrzeganie i stereotypy, Warszawa 1996.

[6] DOROTHEA FRIEDRICH, Das Bild Polens in der Literatur der Weimarer Republik, Frankfurt am Main 1984, p. 367.

[7] 7ARNO WILL, Motywy polskie w krótkich formach literackich niemieckiego obszaru językowego 17941914, Łódź 1976, p. 106. Dello stesso autore cfr. anche Polska i Polacy w niemieckiej prozie literackiej XIX wieku, Łódź 1970.

[8] HENRYK OLSZEWSKI, Nauka historii w upadku. Studium o historiografii i ideologii historycznej w imperialistycznych Niemczech, Warszawa-Poznań 1982, p. 509.

[9] Cfr. ad es. CHRISTOPH KLESSMAN, Osteuropaforschung und Lehensraumpolitik im Dritten Reich, Aus Politik und Zeitgeschichte (Beilage zur Wochenzeitung “Das Parlament”), 18 II 1984, B 7/84, pp. 33-45.

[10] 10 TOMASZ SZAROTA, Stereotyp Polski i Polaków w oczach Niemców podczas II wojny światowej, in “Sobótka” 1978, n. 2, p. 194. In merito alla “domenica di sangue” di Bydgoszcz, Kershaw scrive: «in nessun caso si può paragonare, per non parlare poi di cercare delle giustificazioni, alla crudeltà calcolata dei latifondisti tedeschi volta alla distruzione di qualsivoglia forma di esistenza dei polacchi che fuoriuscisse dalla sfera della schiavitù». I. KERSHAW, Hitler 1936-1941. Nemezis, vol. 2, parte I, Poznań 2002, p. 215.

[11] J. SYWOTTEK, cit., p. 226.

[12] CZ. MADAJCZYK, Polityka III Rzeszy w okupowanej Polsce, vol. I, Warszawa 1970, p. 483.

[13] 13 T. SZAROTA, cit., p. 200.

[14] 14 Cito da T. SZAROTA, cit., p. 208.

[15] CZ. MADAJCZYK, cit., vol. II, p. 369.

[16] Ivi, p. 370.

[17] FRANCISZEK RYSZKA, U źródeł sukcesu i klęski. Szkice z dziejów hitleryzmu, Warszawa 1972, p. 133.

[18] Cfr. il già citato studio di Dorothea Friedrich.

[19] Cito da CH. KLESSMAN, cit., p. 37.

[20] Cfr. WOLFGANG WIPPERMANN, Der “deutsche Drang nach Osten”: Ideologie und Wirklichkeit eines politischen Schlagwortes, Darmstadt 1981.

[21] KONRAD HEIDEN, Adolf Hitler, vol. I, Zürich 1936, p. 119.

[22] RENZO DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1972, p. 302.

[23] Auswärtiges Amt-Bonn, Politisches Archiv, Inland I Partei, 87/2, Rückwirkung der deutschen Rassenpolitik auf die Beziehungen zu fremden Staaten (1934-1941).

[24] JERZY KRASUSKI, Das Problem der Relativität von wertenden Urteilen in der Historiographie, in Preussen, Deutschland, Polen im Urteil polnischer Historiker, Lothar Dralle, Berlin 1983, p. 191.

[25] Cfr. PHILIPP W. FABRY, Die Sowjetun n und das Dritte Reich. Eine dokumentierte Geschichte der deutsch-sowjetischen Beziehungen von 1933 bis 1941, Stuttgart 1971, p. 49

[26] RICHARD COUDENHOVE-KALERGI, Kampf um Europa. Aus meinem Leben, Zürich 1949, p. 179.

[27] Possiamo riportare come curiosità che una delle prime pubblicazioni uscite in Polonia contro Hitler dopo la sua ascesa al potere è stato l’opuscolo del generale “bianco” e separatista bielorusso Stanisław Bułak-Bałachowicz (Precz z Hitlerem czy niech żyje Hitler, Warszawa 1933).

[28] JÓZEF PASTUSZKA, Filozoficzne i społeczne idee A. Hitlera (rasizm), Lublin 1938, p. 8.

[29] Il 5 gennaio 1940 Mussolini scriveva a Hitler: «Ma io che sono nato rivoluzionario e non ho modificato la mia mentalità di rivoluzionario, vi dico che voi non potete permanentemente sacrificare i principi della vostra rivoluzione  alle esigenze tattiche di un determinato momento politico. Io sento che voi non potete abbandonare la bandiera antisemita e antibolscevica che avete fatto sventolare per venti anni» (Cfr. JERZY W. BOREJSZA, Rzym a wspólnota faszystowska, Warszawa 1981, p. 291).

[30] F. RYSZKA, cit., p. 129.

[31] W. WIPPERMANN, cit., p. 80.

[32] Ibidem.

[33] J. ACKERMANN, Heinrich Himmler als Ideologe, Göttingen 1970, p. 212.

[34] OTTO DIETRICH, 12 Jahre mit Hitler, München 1955, p. 70.

[35] WILFRIED FEST, Thesen zur Kontinuität der deutschen Polenpolitik, in Das deutsch-polnische Verhältnis. Referate zu Problemen der deutsch-polnischen Schulbuchempfehlungen, Hans-Jochen Markmann-Jürgen Vietig (a cura di), Berlin 1981 (ciclostilato), p. 107.

[36] MARTIN BROSZAT, Zweihundert Jahre deutsche Polenpolitik, Frankfurt am Main 1972, p. 271.

[37] W. MICHALKA, Ribbentrop und die deutsche Weltpolitik, 1933-1940: Aussenpolitische Konzeptionen und Entscheidungsprozesse im Dritten Reich, München 1980, p. 306.

[38] W. WIPPERMANN, cit., p. 111.

[39] 39 JOACHIM PETZOLD, Wegbreiter des deutschen Faschismus. Die Jungkonservathen in der Weimarer Republik, Köln 1978, p. 376. Cfr. anche pp. 149-168.

[40] W. WIPPERMANN, cit., p. 139. Dello stesso autore cfr. anche Der Ordenstaat als Ideologie. Das Bild des Deutschen Ordens in der Geschichtsschreibung und Publizistik, Berlin 1979, pp. 222-223.

[41] Cfr. soprattutto ANDREAS HILLGRUBER, Kontinuität oder Diskontinuität in der deutschen Aussenpolitik von Bismarck bis Hitler, Düsseldorf 1969. Dello stesso autore: Revisionismus – Kontinuität und Wandel in der Aussenpolitik der Weimarer Republik, in “Historische Zeitschrift”, 237 (1983), pp. 597-628.  

[42] HANS MOMMSEN, Fritz-Dietlof Graf von der Schulenburg und die preussische Tradition, in “Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte”, 1984, n. 2, p. 221.

[43] M. DOMARUS, Hitler: Reden und Proklamationen, 1932-1945. Kommentiert von einem Deutschen Zeitgenossen, I, vol. 2, Wiesbaden 1973, p. 580.

[44] A. Hitler, Monologe im Führerhauptquartier 1941-1944. Die Aufzeichnungen Heinrich Heims, a cura di Werner Jochmann, Hamburg, 1980, p. 331.

[45] Idem, p. 370.

[46] M. DOMARUS, cit., II, vol. 2, p. 2242.