Quale fede oltre il secolo. La crisi della teoria della secolarizzazione di Max Weber ed il ritorno alla ribalta delle religioni nel dibattito sociale, di Piergiorgio Grassi, Armando Matteo e Luigi Alici
Riprendiamo i tre testi che seguono da Avvenire del 14/7/2010. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (16/7/2010)
È dedicato a «Le religioni oltre la secolarizzazione » l’interessante dossier del nuovo numero della rivista «Dialoghi», promossa dall’Azione cattolica italiana e diretta da Piergiorgio Grassi. Qui presentiamo ampi stralci di tre interventi: uno dello stesso Grassi, docente di sociologia della religione all’Università di Urbino; un altro di Armando Matteo, assistente nazionale della Fuci; e infine un articolo di Luigi Alici, docente di filosofia all’università di Macerata. «Parlare di religione significa oggi – si legge nell’introduzione al dossier di Giovanni Grandi – confrontarsi con il tema del rapporto tra pubblico e privato, del ruolo delle istituzioni religiose, della funzione delle tradizioni, del pluralismo in una società civile spesso in cerca di identità». Nell’inserto si segnalano anche i contributi di Aldo N. Terrin, ordinario di storia delle religioni alla Cattolica, sul tema «Anima e corpo. L’evoluzione della religiosità popolare» e uno di Andrea Aguti, docente di filosofia della religione a Trento, su «Trascendenza e immanenza. La falsa alternativa».
1/ Seguiamo Habermas, di Piergiorgio Grassi
Nei primi anni Ottanta è iniziata una ritrattazione che ha coinvolto i teorici della secolarizzazione. L’errore intellettuale sta nel fatto di aver fuso secolarizzazione e pluralismo, due fenomeni connessi ma ben distinti. La modernizzazione (l’urbanizzazione, l’educazione di massa, i moderni mass media...) genera pluralismo inteso come coesistenza nelle società di differenti visioni del mondo e di sistemi di valore in un contesto di pace civile che favorisce l’interazione. Tale pluralismo, che porta alla moltiplicazione delle scelte e alla necessità di scelte, non spinge automaticamente a soluzioni di stampo secolarizzante. Ma lascia possibilità di scelte religiose qualificate come quella di mantenersi nel solco della propria tradizione.
Cambia semmai il modo in cui la religione è mantenuta sia istituzionalmente sia nella coscienza dell’uomo. «Ciò che è cambiato non sempre è il contenuto della fede, ma il come della fede». Il pluralismo e le sue dinamiche sociali e culturali la rendono vulnerabile. La fede può rimanere sostanzialmente invariata, ma muta il come della medesima. La certezza diventa più difficile da raggiungere («l’altro» come possibilità alternativa di vita è presente nella coscienza di ciascuno), spesso attraverso un processo molto doloroso che sfocia talvolta nel fondamentalismo. Un fenomeno che si va diffondendo in Europa è quello descritto come «un credere senza appartenere» (ma ci può essere anche un appartenere senza credere), secondo quanto osservato da Danièle Hervieu-Léger a proposito della situazione francese: aumenta il numero delle persone che si dicono interessate alle questioni religiose, ma che non si riconoscono in nessuna chiesa. Si tratta di forme di religiosità che la stessa Hervieu-Léger chiama bricolage, con chiaro riferimento alle costruzioni Lego.
Ciò nonostante, paradossalmente, le sfere pubbliche nazionali vedono aumentare l’influenza delle religioni stesse nella formazione dell’opinione pubblica su questioni «eticamente sensibili» (legalizzazione dell’aborto, cure terminali, problemi bioetici della medicina riproduttiva...). Nelle società del pluralismo culturale e dei frequenti conflitti di valore, nelle quali ci si misura con quadri argomentativi complessi e differenziati, grande è l’incertezza su quali siano le giuste intuizioni morali. Le proposte delle religioni trovano ampia risonanza perché hanno assunto il ruolo di «comunità dell’interpretazione». A questo si aggiunge la presenza di immigrati, provenienti da contesti premoderni, portatori di forme religiose e di forme di vita dissonanti da quelle prevalenti.
Sono eventi che stanno modificando in profondità la coscienza pubblica europea, descritta da Habermas come post-secolare perché ha perso la certezza che la religione scompaia dal mondo per effetto della modernizzazione e che sia necessario fare i conti di nuovo e seriamente con essa a livello politico. Lo Stato moderno costituzionale che garantisce la libertà religiosa può essere messo in discussione nella sua stabilità e continuità dalla contrapposizione incessante tra coloro che sono portatori di rappresentazioni naturalistiche del mondo e coloro che difendono l’incidenza pubblica della religione (e delle religioni), senza alcuna mediazione.
Anche i cosiddetti «laici» possono scoprire nei contributi religiosi «alcuni contenuti semantici suscettibili di essere utilmente tradotti sul piano dell’argomentazione pubblica ». È questa la scommessa (o l’utopia) di Habermas riguardo alla possibilità di una convivenza«riflessivamente illuminata», per cui non fa scalpore quanto ha scritto a questo proposito: «Mi chiedo se un’ipotetica mentalità laicista della gran massa dei cittadini non finirebbe per essere altrettanto poco desiderabile quanto una deriva fondamentalista dei cittadini credenti».
2/ Ma Dio deve incidere, di Armando Matteo
Per circa duemila anni, almeno in Europa, la tradizione cristiana ha goduto di un’ampia connaturalità con le istanze della cultura diffusa, grazie all’opera di inculturazione del Vangelo operata dai padri della Chiesa tra il IV e il V secolo, sino al punto che era «naturale» nascere e crescere come cittadini occidentali e come cristiani. Anche l’epoca della modernità non aveva inciso su questo livello profondo di relazione con il mondo cristiano. La modernità ha certamente «privatizzato » la questione di Dio, quasi come scelta obbligata in seguito soprattutto alle sanguinose guerre di religione, ma non ha mai pensato se stessa oltre o senza la tradizione cristiana. Il presente annuncia qualcosa di inedito: una riconfigurazione della sensibilità occidentale che pare sempre più estranea alla realtà della religione cristiana, almeno in quelle forme in cui è giunta sino a noi.
Sinteticamente si deve, infatti, riconoscere che la cultura occidentale contemporanea – nominata con un certo grado di consenso «postmoderna» – trova le sue cifre dominanti nel ribaltamento della struttura metafisica platonica, nella scomunica del modello antropologico giudaico-cristiano, fissato normativamente dal magistero di sant’Agostino, e nella decisa relativizzazione dei principi fondamentali della cultura giuridica romana. Emerge una sensibilità che esalta il limite, la finitezza, quali condizioni reali di accoglienza dell’alterità e possibilità di traduzione delle e tra le prospettive, che concede asilo a molteplici punti di vista, contrastando ogni assolutismo della ragione e della verità e autorizzando differenziati stili di vita, e che privilegia la via del consenso e della democrazia contro ogni esercizio dell’autorità e della forza.
Una tale ridefinizione dell’identità occidentale segna uno stacco netto rispetto alla sua tradizione classica, che il cristianesimo aveva invece saputo efficacemente «battezzare». Il movimento ora descritto ha due importanti conseguenze: la prima, già segnalata, è quella per la quale il cristianesimo non può più fare assegnamento a un’affidabile connaturalità con l’esperienza elementare dell’essere al mondo del cittadino occidentale per dire la bontà e la convenienza della fede. Le proprie parole centrali, i gesti primordiali che segnano lo stile di vita credente non trovano più, infatti, nel cuore dei contemporanei, una cassa di risonanza disponibile e predisposta. E non sarà un caso che al primo punto dell’agenda della Chiesa cattolica, ormai da più di un decennio, sta proprio la questione dell’evangelizzazione – e questo dopo ben duemila anni di presenza cristiana in Europa!
La seconda conseguenza riguarda lo sconfinamento della libertà. La già citata sovversione degli stili di vita tradizionali, i nuovi portentosi ritrovati della tecnica, la sempre maggiore confusione di identità etniche e religiose, allargano a dismisura lo spettro delle possibili scelte su cui si può e deve esercitare la libertà del singolo, il quale, tuttavia, si trova ora esattamente sguarnito di criteri di giudizio condivisi e vede ricadere su di sé il peso di assegnare un valore alle sue azioni. Si tratta di un impegno letteralmente insopportabile, che sta alla base – secondo Zygmunt Bauman – del cosiddetto fenomeno del ritorno del religioso in Occidente, nonostante ogni profezia contraria. Come si vede, in ogni caso, la posta in gioco è alta. Se l’epoca della modernità è contrassegnata da una privatizzazione di Dio, quella postmoderna registra il venir meno di Dio dall’orizzonte di senso degli uomini. Si vive sempre di più senza Dio.
Il fenomeno del ritorno del religioso, infatti, raramente riesce a sfondare il bisogno di un orientamento esistenziale del soggetto, sottoposto all’eccessiva richiesta di essere giudice e avvocato di se stesso, in vista di una sintonizzazione reale alla parola di Gesù circa l’affidabile amore di Dio, unico capace di mettere e garantire ordine nell’esercizio della libertà umana.
3/ Bando al politeismo, di Luigi Alici
Fino alla prima modernità l’antica antitesi fra monoteismo e politeismo era apparsa come ormai morta e sepolta. La riflessione dei Padri della Chiesa intorno all’impossibilità teorica di ammettere due divinità assolute era un dato acquisito: ogni divinità potrebbe distinguersi solo in virtù di qualche attributo che l’altra non possiede. L’ordine del Lògos e quello della fede s’incontrano in quest’affermazione di base.
Con la crisi della cultura moderna, la ragione filosofica diventa sempre più vaga ed evasiva – quando non apertamente agnostica, o peggio nichilistica – nei confronti della possibilità di riconoscere un supremo principio trascendente, e di conseguenza l’opzione monoteistica resta confinata soltanto nell’ambito del credere.
Già grazie a Max Weber l’affermazione di un «politeismo dei valori» avrà una fortuna straordinaria, segnalando la condizione dell’uomo moderno, dopo la disgregazione dell’unità religiosa e morale del cristianesimo. Un passo in avanti (o indietro) in questa direzione avverrà con Nietzsche, secondo il quale «il monoteismo... questa rigida conseguenza della dottrina di un uomo normativo e unico – la fede quindi in un dio normativo, accanto al quale non ci sono che dèi falsi e bugiardi – costituì forse il pericolo più grande nel corso dell’umanità fino ad oggi».
Tra i molti testi che potrebbero essere accostati a questo, può essere sufficiente ricordare le parole di Cioran: «Il politeismo corrisponde meglio alla diversità delle nostre tendenze e dei nostri impulsi ai quali offre la possibilità di esercitarsi, di manifestarsi, ognuno di essi rimanendo libero di volgersi, secondo la propria natura, verso il dio che sul momento gli conviene. Ma come trattare con un unico dio? Come contemplarlo, come utilizzarlo? Il monoteismo comprime la nostra sensibilità; ci approfondisce, restringendoci ».
Commentando questa riabilitazione, David Miller ha scritto: «Abbiamo patito una morte di Dio. Ma scopriamo una nuova opportunità proveniente dalla perdita di un centro singolo che teneva insieme il tutto. La morte di Dio è stata in effetti il decesso di un modo monoteistico di pensare e parlare di Dio e, in genere, di un modo monoteistico di pensare e di parlare del significato e dell’essere umano generale». Con una connessione molto discutibile, Miller denuncia anche le conseguenze politiche di queste diverse forme religiose: «Il politeismo si trova eternamente in conflitto col monoteismo sociale, che nella sua forma peggiore è fascismo e, nelle sue forme meno distruttive, è imperialismo, capitalismo, feudalesimo, monarchia». Al contrario, «in una democrazia c’è sempre nascosto un politeismo incipiente».
Siamo invitati a liberarci di due luoghi comuni che affliggono il dibattito contemporaneo intorno alla società «postsecolare»: non è affatto vero che il monoteismo è autoritario e intollerante, mentre il politeismo sarebbe inclusivo e «democratico»; non è affatto vero che si vive meglio in una società che sterilizza i legami sociali, perché solo l’azzeramento della convivenza (compresa la desertificazione dei simboli religiosi) assicurerebbe margini più ampi di autonomia individuale. Dietro il culto di molti dèi c’è sempre una sorta di «egolatria», di culto narcisistico dell’ego ; affiora una irresistibile pulsione egocentrica, fonte di ogni conflitto, che divora i legami sociali e spinge all’autodistruzione.
Non è detto che sia meglio per tutti scrivere Dio solo al plurale e con la lettera minuscola. Quando si smarrisce la maiuscola dell’infinito, la disperazione, direbbe Kierkegaard, è in agguato. Ciò che conta è riservare solo a «Dio» la lettera maiuscola e cercare nella trascendenza la fonte di quel legame autentico, che fa piazza pulita di ogni assoluto terrestre.