Scienze e sapienza: l’Università come convito. Dialogare con gli antichi come vincere la noia, dimenticare ogni affanno e non essere più sbigottiti dalla morte, di Lina Bolzoni

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 11 /11 /2018 - 15:42 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito la relazione con la quale la prof. Lina Bolzoni, docente di Letteratura della Scuola Normale di Pisa, ha aperto il 9 novembre 2018 la Sessione “Scienze e sapienza. L’università come convito”, all’interno del XV Simposio dei Magnifici Rettori e dei Docenti Universitari, organizzato dal Servizio per la Cultura l’Università della diocesi di Roma, dal titolo: “Quale missione per l’Università oggi? Formazione, ricerca, innovazione, lavoro, sapienza”. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Università. Per i prossimi appuntamenti, cfr. il sito www.culturaeuniversita.org. Di Lina Bolzoni, vedi Dante o della "memoria appassionata".
Alcuni file audio delle relazioni del Simposio sono già disponibili on-line:

 Sono disponibili anche le trascrizioni delle prime relazioni:

Il Centro culturale Gli scritti (11/11/2018)

N.B. Il testo che qui presentiamo è il risultato della fusione della traccia presentata dalla relatrice con alcune aggiunte che ella ha pronunciato a voce. Tale versione non è stata rivista dall’autrice.

Grazie davvero per questo invito che ho accettato molto volentieri, anche in ricordo di Guido Sacchi[1] che mi ha fatto incontrare per la prima volta con mons. Lonardo. Guido è sempre presente al nostro affetto, al nostro ricordo. E anche per l’esempio che ci ha dato di passione culturale, ma anche di grandissima umanità. Nello stesso tempo mi sento assolutamente inadeguata per il compito che ci viene proposto.

Quindi semplicemente dirò alcune esperienze personali.

Volevo partire dal titolo di questo nostro incontro che è appunto “Scienze e sapienza. L’Università come convito”. Ora, come sapete, questa associazione fra convito e sapere è molto antica. Mi piace partire da qui, perché questa associazione ci presenta l’idea di una conoscenza condivisa, una conoscenza che cresce su se stessa attraverso il dialogo, in un clima di amicizia, in un clima di scambio.

Nel banchetto classico, greco e romano, il re del banchetto dava delle prescrizioni da seguire nella seconda parte del banchetto, quando si cantavano carmi conviviali, si recitavano poesie, si assisteva a spettacoli, si conversava.

È stato ricordato ieri il Simposio di Platone. Nel mondo greco il convito diventa un vero e proprio genere letterario, caratterizzato appunto dal dialogo: il modello platonico si trasmette poi al mondo latino e alla tradizione umanistica e rinascimentale.

Dante appunto intitola Convivio il testo incompiuto in cui offre come vivanda le canzoni e come pane la loro disposizione nel testo e il commento che le accompagna, il che richiama la nostra attenzione su un altro aspetto che, accanto a quello del dialogo, terremo come filo rosso del nostro intervento: e cioè l’antica immagine della lettura come cibo che si mastica, si rumina, il che rinvia al modo in cui il sapere viene ricevuto dall’altro - dal testo che si legge o da chi si ascolta - e viene appreso, interiorizzato, appunto trasformato in propria carne e sangue.

È interessante ricordare anche un’altra grande immagine, un’altra grande metafora, che accompagna per secoli la lettura che è appunto quella del dialogo, dell’evocazione dell’autore che si legge in modo che sia presente e che dialoghi con noi. Basti pensare alla lettera di Machiavelli al Vettori del 1513. Machiavelli è in esilio, anche se in una campagna non lontanissima da Firenze, e si “sente” esiliato perché non può più svolgere la sua attività politica. Scrive:

«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro».

E dice appunto: “Grazie a questo dialogo con gli antichi ho scritto Il principe”.

Questa bellissima lettera, uno dei testi più straordinari della nostra letteratura, ci porta nel cuore del nostro tema: la lettura, l’apprendimento, come un dialogo. Un dialogo che viene qui descritto in termini fortissimi – sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte – quasi come creazione di uno spazio alto, di un’altra dimensione, da cui poi si torna per scrivere, per cercare di incidere sul mondo in cui si vive.

Tutto questo fa parte della nostra tradizione, ma naturalmente ci possiamo chiedere quanto resta di vivo nel mondo di oggi. Oggi viviamo in un mondo in continua e vertiginosa trasformazione e in una istituzione, l’Università, che è appunto una istituzione, legata agli sbocchi occupazionali, una realtà ben diversa da quella delle accademie, delle corti, dei gruppi di amici colti in cui sono nate le immagini che abbiamo ricordato.

Ecco allora, tenendo presente questa tradizione, ma tenendo presenti anche le profonde differenze del mondo di oggi, ci possiamo chiedere come si possa declinare ancora il rapporto fra scienze e sapienza, come l’università possa costituire un tempo e uno spazio per una formazione insieme specialistica e generale, uno spazio capace di fornire strumenti specifici, professionali, ma anche senso critico, maturità del soggetto, di formare insomma un cittadino responsabile e consapevole, capace di trasmettere il sapere ma anche di innovarlo, di conoscere la tradizione e di distaccarsi da essa.

Farò alcune considerazioni legate alla mia esperienza di insegnamento nel campo della letteratura italiana, un’esperienza che spesso e volentieri ha sconfinato in altre discipline, dalla filosofia alla storia dell’arte perché, se posso, immodestamente, citare Aby Warburg, mi sono sentita a mio agio appunto nei territori di frontiera. Ho cercato insomma di seguire problemi di conoscenza, là dove mi portavano, con molta libertà, senza preoccuparmi degli steccati disciplinari.

Ho avuto qualche problema, ma sostanzialmente mi è stato possibile farlo: mi chiedo se oggi lo sia ancora, dopo le varie sciagurate riforme che hanno investito l’Università che hanno reso questo sempre più difficile. Ho vissuto la contraddizione fra il tentativo di trasmettere ai miei studenti l’idea che è bello seguire i problemi di conoscenza che uno ha in testa, al di là degli steccato disciplinari, dandosi via via gli strumenti necessari, ma non lasciandosi imbrigliare dalla griglia delle discipline. Ho sentito la contraddizione fra la bellezza di questa idea e la difficoltà legata alla situazione universitaria e al fatto che – mi sembra - gli steccati disciplinari si siano via via rafforzati in un’ottica corporativa e non certo in un’ottica legata ai problemi della conoscenza.

Ho studiato e poi insegnato alla Scuola Normale di Pisa, in un contesto in cui è fortissima la tradizione filologica.

Ritengo naturalmente che da questa tradizione ci vengano insegnamenti fondamentali di rigore, di attenzione ai testi, di ‘oggettività’ e ’scientificità’ (tra parentesi). E penso che agli studenti vadano dati gli strumenti filologici, ma anche quelli storici, oltre alla capacità di muoversi nella biblioteca, e oggi di avere senso critico nell’utilizzare quella grande biblioteca universale che Internet fornisce (anche se questo è un problema affascinante e di difficile soluzione).

C’è invece un’idea di scientificità che va messa in discussione. Il rischio, infatti, che ci può essere è che gli strumenti siano trasformati nello scopo della ricerca: il problema è non assolutizzare gli strumenti.

Non mi riconosco nel mito della ‘oggettività’ scientifica che comporta una netta separazione fra lo studioso, il lettore, e l’oggetto della sua lettura, della sua ricerca. Il testo diventa un reperto da laboratorio da anatomizzare con gli strumenti che via via vengono elaborati: la filologia, la linguistica, l’analisi delle strutture, la psicanalisi, ecc. Strumenti che si possono naturalmente usati molto bene o molto male. Ma che, se usati con il mito dell’oggettività scientifica, rischiano di funzionare molto poco.

Se essi venissero utilizzati in tale prospettiva, ecco che lo studioso non si metterebbe più in discussione. E dimenticherebbe quello che è il fascino della letteratura: che i testi sono qualcosa di vivo, nel senso che hanno la capacità di attraversare il tempo e di parlare appunto in modi diversi a chi via via li legge, li interroga. C’è un passo molto bello di Elias Canetti, nelle pagine autobiografiche de Il frutto del fuoco che riguarda le immagini, ma che possiamo applicare anche ai testi:

Le immagini sono reti, quel che vi appare è la pesca che rimane. Qualcosa scivola via e qualcosa va a male, ma uno riprova; le reti le portiamo con noi, le gettiamo noi e, via via che pescano, diventano più forti. È importante, però, che queste immagini esistano anche al di fuori dalla persona… Deve esserci un luogo dove uno possa ritrovarle intatte… Apparentemente, esse potrebbero esistere anche senza di noi. Ma questa apparenza è ingannevole, l’immagine ha bisogno della nostra esperienza per destarsi.

Appunto: i testi hanno bisogno di noi per destarsi. E come diceva Giorgio Steiner, noi abbiamo bisogno dei libri, ma anche i libri hanno bisogno di noi.

Credo che sia importante, se posso citare qualche massima che si rifà alla tradizione biblica e alla sua esegesi, ricordare che il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato, il sabato è fatto per la donna e non la donna per il sabato, che cioè i vari strumenti sono appunto tali, frutto di una scelta di cui dobbiamo essere consapevoli. E anche, per riprendere una massima di san Gregorio Magno, la Scrittura cresce con chi la legge, che ha valore anche nell’ambito della letteratura, nell’ambito della scrittura laica, anche in senso selettivo, legato al fatto che ogni età ridisegna il suo canone, facendo affiorare appunto dei testi, facendoli ‘crescere’, e relegando altri nell’oblio.

È un dovere etico mettersi in discussione dinanzi al testo. Quel che dobbiamo riconoscere è appunto il ruolo del lettore, il fatto che non esiste la verità sul testo. Io ricordo che, quando facevo gli esami per l’università, c’erano dei testi di storia della critica, ad esempio, su Dante, su Ariosto, che erano utilissimi, ma spesso erano come una storia a lieto fine: la storia della critica era una serie di errori, di semi-errori, di avvicinamenti progressivi fino a quella che poi era la verità svelata che, puta caso, era quella dell’autore del libro e della scuola. Per fortuna questa è un’ottica abbastanza superata.

È una questione anche etica: il bello della letteratura è che non c’è mai la verità svelata e che i testi ci parlano sempre in modo diverso e che c’è un rapporto fra le domande che poniamo e le risposte che ci vengono date. Il testo ci risponde in base alle domande che gli poniamo.

Personalmente ho interpretato in questo senso l’apporto delle varie teorie e metodologie che via via si succedute (dallo strutturalismo, al formalismo, ai gender studies, ai cultural studies, ecc.), appunto come uno stimolo a porre domande nuove, a adottare punti di vista a cui prima non avevo pensato, a adottare punti di vista, prospettive che mi rivelano aspetti del testo che mi erano sfuggiti. Queste prospettive che prima non mi erano venute in mente non sono la verità svelata sul testo.

Da questo punto di vista, spiazzante ma anche utile è stata l’esperienza di insegnamento negli Stati Uniti. Gli studenti statunitensi spesso non hanno il background di conoscenza storica che per noi è usuale (o almeno lo era) e anche per questo, oltre che un diverso costume accademico, si sentono liberi di porre qualsiasi domanda. Domanda che può apparire appunto ingenua, o fuorviante, anche assolutamente spiazzante: ma che in realtà è una sfida.

Se penso che abbia senso insegnare la letteratura, e magari la letteratura di qualche secolo fa, devo essere in grado di accettare (se non di rispondere a) qualsiasi questione, che la metta in discussione anche in maniera più radicale di quanto io sia abituata a fare.

È in questo contesto, io credo, che il tema del dialogo acquista nuova forza, che ricompare sulla scena anche attraverso le moderne teorie e esperienze critiche (penso all’ermeneutica e alla teoria della ricezione). Il tema del dialogo è, ad esempio, al centro del saggio di Ezio Raimondi intitolato L’etica del lettore. Qui la lettura diventa ricerca di “un colloquio entro cui alla fine [il lettore] ritrova se stesso” e comporta una tensione etica se “il senso di un’opera sta nella risposta del lettore, se il lettore è responsabile del suo divenire e del suo rinnovarsi” (p. 19). Si tratta di mantenere la propria soggettività nel “movimento e tensione verso l’alterità e la differenza”(p. 18), si tratta di rispettare il testo: l’atto della lettura coinvolge “impulsi, esperienze morali radicali e vincolanti: quasi il testo fosse un nostro ospite o persino, come è stato detto, un nostro ostaggio. Non si dà vero dialogo col testo senza avvertire la responsabilità dell’altro in sé”(p. 27). Come nell’amicizia. È un’idea semplice ma centrale: come nel rapporto dell’amicizia si entra in interazione, magari in contrasto, ma nello stesso tempo si rispetta l’altra persona e non si rinnega se stessi. Appunto è l’idea del dialogo.

Via via ci forniamo nuovi strumenti, ma dobbiamo sempre avere il senso dell’alterità del testo e della nostra alterità.

Credo che appunto ritorni in forme diverse l’antico modello della lettura come dialogo, come incontro con un amico. In questo senso, come appunto nell’amicizia, la lettura comporta l’incontro fra due soggettività, e appunto il riconoscimento dell’altro, il rispetto per la sua alterità.

A volte mi capitava di incontrare studenti bravissimi, che magari avevano studiato tutta la traduzione manoscritta, complicatissima dal punto di vista filologico, ma non si poteva chiedere loro: “Ma scusi, perché lei ha studiato questo testo?”. Questa è una domanda che appariva indiscreta.

Centrale dunque è per me una ricerca che arricchisce via via i suoi strumenti ma che sempre si interroghi sul senso del proprio lavoro, che sempre si metta in discussione.

Per questo si può essere contrari alla specializzazione fin dall’inizio. L’esperienza alla Scuola Normale mostra che, fin dal primo anno, gli studenti tendono a identificarsi con una disciplina, anzi con un particolare settore di quella disciplina, con un particolare metodo. Anche per l’insicurezza del proprio futuro. L’attuale crisi rende poco credibile l’idea dell’utilità di formazione aperta, di una cultura che abbia diverse componenti, che dia gli strumenti fondamentali anche per cambiare.

Tutto ciò che ho detto, infatti, rischia di diventare poco credibile dinanzi alla prospettiva dell’incertezza di un futuro lavorativo, di uno sbocco occupazionale, rischia di essere poco credibile l’idea che ci debbono essere le “scienze” ma anche questa prospettiva altissima di “sapienza”, su cui stiamo riflettendo.

Vorrei concludere accennando almeno a due questioni su cui la nostra università è in forte ritardo: le donne e il rapporto con le altre culture con cui la globalizzazione e l’emigrazione ci mettono in contatto.

La questione del ruolo delle donne all’università resta più che mai aperta, sia in termini quantitativi che qualitativi e c’è una grossa difficoltà ad avere un confronto serio con le correnti critiche (gender studies) che hanno posto il problema di un punto di vista specifico : la questione viene ghettizzata o ignorata.

L’altro problema è dato dal fatto che l’università inoltre non si sa confrontare con le diverse culture che la globalizzazione e l’emigrazione hanno portato nel nostro paese. Siamo consapevoli dei limiti e perfino dell’ipocrisia che sono presenti nel politically correct ma anche qui dobbiamo avviare una discussione che ponga le basi per un vero dialogo, che non è facile perché deve essere capace di rispettare l’altro, ma anche di non nascondere la nostra identità.

Ricordo un’esperienza di anni fa, alla New School di New York. Avevo fatto una relazione sull’arte della memoria, sulla tradizione umanistica e rinascimentale dell’arte della memoria. E uno studente africano mi ha detto che la mia era un’ottica eurocentrica e coloniale e che non avevo tenuto conto delle tradizioni africane. Gli ho risposto ringraziandolo delle indicazioni che mi aveva dato, ma spiegando anche che parlare delle esperienze europee non significava adottare un’ottica eurocentrica, ma appunto parlare di una tradizione di cui facevo parte, e che del resto esistono studi antropologici sull’uso dell’arte della memoria in Australia o in America latina. È solo un piccolo esempio di come il dialogo sia importante e difficile: il punto è non sentirsi offesi da un’identità diversa dalla propria, e anche come si possa dialogare senza rinunciare alla propria memoria.

Note al testo

[1] Guido Sacchi è un ex-alunno della Scuola Normale di Pisa - e della prof.ssa Bolzoni in particolare - scomparso prematuramente (fra le sue opere Fra Ariosto e Tasso: vicende del poema narrativo. Con un’appendice di studi cinque-secenteschi, Pisa, Edizioni della Normale, 2006. Di lui, vedi anche Il progetto per il ciclo di conferenze “Perché leggere i classici” del Centro Culturale L’Areopago, per il quale il prof. Sacchi riuscì a tenere solo i primi tre incontri, oltre a quello introduttivo sull’opera di Dante Alighieri.