Vita di Caravaggio: il pittore delle cose che accadono mentre accadono, di Giuseppe Frangi
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Riprendiamo per gentile concessione dalla rivista “30giorni” del marzo 2010 un articolo scritto da Giuseppe Frangi con il titolo originario “Il pittore delle cose che accadono mentre accadono”. I neretti sono nostri ed hanno l'unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli su Caravaggio e di Giuseppe Frangi su questo sito, vedi la sezione Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2010)
«Adi 30 fu bat[tezzato] Michel angelo f[ilio] de d[omino] Fermo Merixio et d[omina] Lutia de Oratoribus / compare Fran[cesco] Sessa». È l’atto di battesimo di Michelangelo Merisi, nato il 29 settembre, giorno di san Michele Arcangelo. La registrazione relativa all’anno 1571 si trova nel libro parrocchiale della chiesa milanese di Santo Stefano in Brolo che raccoglie gli atti dal 1565 al 1587.
Oggi questo registro è conservato nell’Archivio diocesano di Milano e qui queste poche righe vennero intercettate nel 2007 da Vittorio Pirami, un manager in pensione con la passione per l’archivistica. Quindi, per quanto Caravaggio si chiamasse e per quanto abbia rivendicato per tutta la vita questa sua origine, in realtà Caravaggio nacque a Milano.
E la cosa non è affatto strana: il padre Fermo era muratore, e secondo un’affermazione di uno dei primi biografi del pittore, fu «Mastro e architecto del marchese di Caravaggio». Non ci sono conferme, ma sappiamo che il marchese, che portava un nome impegnativo, Francesco Sforza, era stato presente alle nozze di Fermo con un’altra caravaggina, Lucia Aratori.
I marchesi “pendolarizzavano” tra Caravaggio e Milano, dove avevano un bel palazzo in San Giovanni in Conca (dove oggi c’è piazza Missori, a pochi passi dal Duomo): di quel palazzo resta solo lo stupendo portale, custodito nei musei del Castello Sforzesco a Milano. Fermo Merisi, dunque, con ogni probabilità in quello scorcio di anni lavorava al cantiere di quel palazzo e aveva preso casa a Milano con la sua famiglia (ebbe quattro figli prima di morire giovane nel 1577).
Era la Milano di san Carlo, e possiamo legittimamente immaginare Michelangelo ragazzino crescere con le catechesi in Duomo del Borromeo. Ma il personaggio-chiave in cui Caravaggio s’imbatte sin da questi primi anni è la moglie del marchese, Costanza Colonna: una donna dal cognome celebre, che seguirà passo passo, come una protettrice-ombra, l’avventurosa vita del pittore. A iniziare dal primo, decisivo, passaggio: la decisione di scendere a Roma, per un viaggio di sola andata.
Nella Roma di san Filippo Neri
«Doppo se ne passò a Roma», scrive Giulio Mancini, uno dei primi biografi del pittore. L’anno più probabile di questo viaggio è il 1592, in estate. Non esistono documenti diretti, ma è facile dedurlo dagli indizi che si incastrano con una relativa facilità. È certo che tra maggio 1592 e giugno 1593 a Roma c’era la marchesa Costanza. E che Caravaggio trovò nella “rete” di amicizie romane della nobildonna un appoggio.
La prima permanenza, infatti, fu presso Pandolfo Pucci, monsignore e maestro di casa di Orsina Peretti, sorella di Sisto V (morto nel 1590) e imparentata con i Colonna. Per farci un’idea dell’aspetto dell’artista, niente è più efficace di questa testimonianza, rilasciata da un barbiere di nome Luca, agli atti di un’inchiesta giudiziaria – una delle tante – in cui Caravaggio si trovò coinvolto qualche anno dopo: «Questo pittore è un giovenaccio grande di vinti o vinticinque anni con poco di barba negra grassotto con ciglia grosse et occhio negro, che va vestito di negro non troppo bene in ordine, che portava un paio di calzette negre un poco stracciate che porta li capelli grandi longhi dinanzi».
Se trasferiamo queste parole su un’immagine, potremo scoprire che, barba esclusa, coincidono con quella del Bacchino malato che Caravaggio dipinse dopo una delle sue prime avventure romane. Era stato colpito dal calcio di un cavallo e ricoverato all’ospedale di Santa Maria della Consolazione, dove venivano curate le persone ferite nelle risse di strada. Appena uscito si raffigurò con quell’aria malaticcia che non ne frenava certo la spavalderia (il quadro entrò poi, come tanti altri, nelle raccolte del cardinale Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V).
La prima data-chiave della lunga stagione romana del Caravaggio è il 1595: nell’autunno di quell’anno entra a servizio del cardinale Francesco Maria Del Monte, stabilendosi nella sua casa, cioè a Palazzo Madama. In quello stesso anno il cardinale Federico Borromeo ripartiva per Milano dove era stato nominato arcivescovo, portando con sé la celebre Canestra di frutta e una discreta dose di disprezzo per quel pittore ribelle (infatti così lo ricordava anni dopo: «Conobbi nei miei dì in Roma un dipintore il quale era di sozzi costumi, et andava sempre mai coi panni stracciati, e lordi a maraviglia, e si vivea del continuo tra garzoni delle cucine e li S.ri della corte»).
Federico era presidente dell’Accademia di San Luca, un’associazione di artisti fondata qualche anno prima da Federico Zuccari; al posto del Borromeo fu nominato proprio il cardinal Del Monte. In quello stesso anno moriva Filippo Neri: dopo aver vissuto la giovinezza nella Milano di san Carlo, Caravaggio aveva potuto anche conoscere “in diretta” la Roma di san Filippo, per la cui chiesa, Santa Maria in Vallicella, quasi dieci anni dopo avrebbe dipinto uno dei suoi capolavori, la Deposizione di Cristo (oggi alla Pinacoteca Vaticana).
C’è il segno di Filippo Neri nella Buona ventura, il quadro che dipinge per il Del Monte. Protagonista della tela è una zingara che, leggendo la mano, sfila l’anello al giovane nobile e un po’ trasognato. Era stato infatti san Filippo a difendere gli zingari nel 1570 protestando contro un’ordinanza del Papa che prevedeva una retata con l’obiettivo di mandare tutti gli uomini sulle galere.
La novità della semplicità
A Palazzo Madama Caravaggio occupava una stanzetta ai piani alti, condividendola probabilmente con Mario Minniti, artista siciliano, un amico incrollabile, che sarà al suo fianco anche nei mesi tenebrosi del soggiorno a Messina e Palermo. Di fronte a Palazzo Madama c’era la residenza di un altro uomo-chiave della Roma di quegli anni, Vincenzo Giustiniani, banchiere di origine genovese. Genovese e in stretti rapporti con i Giustiniani era anche un altro importante banchiere, Ottavio Costa. In questo triangolo si gioca la fortuna del Caravaggio prima del giro di secolo: sono infatti tutti collezionisti e tutti stregati dalla novità introdotta da quell’artista un po’ caratteriale venuto dal nord.
Ma fino a questo punto, si potrebbe dire che Caravaggio fosse un affare privato tra questi “big” della società romana di allora. La svolta “pubblica” infatti arriva nel 1599. È la vigilia del Giubileo e nella chiesa di San Luigi dei Francesi, proprio di fronte a Palazzo Madama, c’era una cappella che per disposizione testamentaria del cardinale titolare, Mathieu Cointrel (poi italianizzato in Contarelli), avrebbe dovuto essere decorata con storie di san Matteo e che invece, per l’indecisione degli esecutori testamentari, da anni era restata spoglia.
Irritato, Clemente VIII, nel 1597, aveva affidato l’esecuzione del testamento alla Fabbriceria di San Pietro, in modo da arrivare al 1600 con i lavori conclusi. Quella chiesa infatti era legata a un fatto politico-religioso di grande importanza, la conversione di Enrico IV re di Francia (avvenuta nel 1593) e quindi il Papa non transigeva sulla conclusione dei lavori.
La committenza doveva essere destinata al Cavalier d’Arpino, ma, come racconta con una punta di invidia il Baglione, fu il cardinale Del Monte a raccomandare il Caravaggio. Così «per opera del suo Cardinale», il 23 luglio 1599 venne firmato il contratto. Il programma iconografico cui doveva attenersi era stato preparato già anni prima da Virgilio Crescenzi e riportato nelle istruzioni allegate al contratto. Sulla parete destra andava rappresentato il martirio di san Matteo, su quella di sinistra, la vocazione. Sull’altare, invece, in prima istanza, era prevista una statua del santo.
Il 5 luglio dell’anno successivo venne liquidato il compenso, segno che le tele erano al loro posto. Per la prima volta tutti i pittori di Roma potevano vedere e misurarsi con la novità del Caravaggio: se la tela sulla destra con il Martirio gli era costata molta fatica e molti rifacimenti in corso d’opera per tenere insieme l’enfasi drammatica del delitto con la sua vocazione cronachistica e antiretorica, quella di sinistra introduceva una novità spiazzante per tutti. Caravaggio rinunciava a tutti gli artifici e metteva in scena una rappresentazione di assoluta semplicità, ambientata in un’osteria della Roma contemporanea.
Scrive Roberto Longhi: «Si chiese, per esempio, il Caravaggio: che cosa possiamo sapere, oggi, di come avvenne il martirio di san Matteo sui gradini dell’altare? Oggi, un pittore non può raffigurarlo che come un fattaccio di cronaca nera in chiesa. O per la vocazione del santo? Di lui non sappiamo altro se non che era un doganiere. E perché alle dogane, dove si cambia moneta, è pacifico che s’intavoli il gioco, nulla vieta che, per più naturalezza, il Cristo, entrando oggi nella stanzaccia della dogana, chiami Matteo distogliendolo da una partita d’azzardo».
Era la svolta. Pochi mesi dopo, il tesoriere del Papa, Tiberio Cerasi, gli affidava un’altra committenza di grande prestigio, la cappella a Santa Maria del Popolo sul cui altare principale c’era una tela del pittore più adulato della Roma di quel tempo, Annibale Carracci. I committenti al lavoro nelle chiese romane iniziavano a inseguire le sue opere.
Arrivano così le tele per Santa Maria in Vallicella, per San Pietro stesso (a Caravaggio venne affidato l’altare destinato alla confraternita dei Palafrenieri), per Santa Maria della Scala, fino a quella per Sant’Agostino. Non sono mai committenze tranquille, a cominciare da quella di Tiberio Cerasi, per il quale dovette rifare due volte i soggetti commissionati, la Conversione di Saulo e la Crocifissione di san Pietro.
Certamente la committenza più tempestosa e più emblematica, fu quella per Santa Maria della Scala: nei confronti di Caravaggio c’era da una parte un’ammirazione ai limiti del divismo, dall’altra quasi un obbligo a una presa di distanza rispetto alle novità da lui introdotte. Il caso limite fu appunto quello della Morte della Vergine, opera per la quale ricevette la commissione nel 1601 da parte di Laerzio Cherubini e destinata alla chiesa di Trastevere.
Il quadro suscitò curiosità e scandalo, al punto che i padri carmelitani decisero di rimuoverlo nel 1606. Il committente lo mise in vendita e non fece nessuna fatica a piazzarlo: era stato infatti il giovane Rubens, inviato a Roma da Vincenzo Gonzaga, a consigliarlo al duca mantovano per le sue raccolte. Quando nel 1607 l’acquisto venne definito, l’ambasciatore del duca lo espose nel suo palazzo al Corso, tanta era stata la pressione delle persone e in particolare dei pittori per poterlo vedere ancora una volta. Ma mise una condizione: nessuno poteva venire a copiarlo.
Le copie dei quadri di Caravaggio erano infatti richiestissime dal mercato, in particolare dopo che lui da Roma se n’era dovuto fuggire. La ragione è ben nota: con tre amici aveva ferito mortalmente, il 28 maggio 1606, in Campo Marzio, Ranuccio Tomassoni. Una lite di amore e di gelosia. Il 16 luglio era stata emessa una sentenza che prevedeva la pena capitale per tutti i latitanti.
Ritratto dell’artista in fuga
Caravaggio ferito venne soccorso prima in Palazzo Colonna dalla “sua” marchesa, poi fatto fuggire oltre i confini dei territori papalini, nel viceregno di Napoli. Del resto lui per nascita era cittadino spagnolo, e filospagnoli erano anche i Colonna che a Napoli avevano possedimenti e un bel palazzo a Chiaia.
Il soggiorno nella città partenopea corrisponde a una nuova breve ma travolgente primavera per Caravaggio, che si cala subito nel clima vitale della città e lo trasferisce dentro alcuni capolavori in cui sembra ancora respirare la felicità degli inizi. Napoli è una città prorompente, grande, in quegli anni, tre volte Roma. Ed è anche ricca: Caravaggio incassa somme per le commissioni che non aveva mai visto a Roma.
Per i domenicani dipinge la Flagellazione e la straordinaria Madonna del Rosario (oggi a Vienna). Per il Pio Monte della Misericordia invece realizza un grande quadro con le Sette opere di misericordia, che sembra davvero ambientato nei vicoli napoletani, con quell’incrociarsi convulso di popolo, che sbuca imprevisto da ogni angolo della tela. Il 9 gennaio 1607 ha già concluso il lavoro e incassato i 400 ducati depositati sul conto che aveva aperto al Banco di Sant’Eligio.
Ma il 14 giugno 1607 Caravaggio lascia la città imbarcandosi su una delle cinque galee di Fabrizio Sforza Colonna, uno dei figli della marchesa, e dirette all’isola di Malta. Probabilmente anche in questo trasferimento c’era lo zampino della sua potente protettrice, che sapeva come il gran maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta Alof de Wignacourt fosse in affannosa ricerca di un grande artista da poter far lavorare sull’isola. Il 14 luglio Caravaggio è già lì e inizia subito un’attività vorticosa.
Per quanto lontano da Roma e dal continente, le commissioni gli arrivano senza problemi. Per il duca di Lorena dipinge, ad esempio, un’Annunciazione che è ancora custodita a Nancy. Il gran maestro, per legarlo a sé, prende una decisione fuori da ogni canone: lo nomina cavaliere e lo fa entrare nell’Ordine, chiedendo addirittura due dispense a Roma, perché quell’investitura era proibita per chi fosse colpevole di omicidio.
Della cerimonia solenne in cui Caravaggio ricevette la spada di cavaliere conosciamo anche la data: 14 luglio 1608. Sul quadro più importante lasciato sull’isola, la grande Decollazione di san Giovanni Battista, Caravaggio si firma orgogliosamente «f. [cioè fra] Michelangelo». Non sarebbe durata molto la gloria in terra di Malta. Il 18 agosto 1608 il pittore si trova coinvolto in una nuova rissa nella casa dell’organista della chiesa conventuale di San Giovanni, fra Prospero Coppini.
Il 27 agosto i responsabili vengono identificati e rinchiusi nel carcere del forte Sant’Angelo, un castello inviolabile, con le mura a picco sul mare. Il 6 ottobre il Venerabile Consiglio viene però informato che il cavaliere fra Michelangelo Merisi da Caravaggio è riuscito a fuggire. Com’è potuto accadere? Nella storia non si registra nessun precedente di fughe dal forte (da lì non si scappa neanche con un “paio d’ali”, riferiscono le cronache). Anche in questo frangente il pittore trova l’aiuto di Costanza Colonna.
Infatti il procuratore delle carceri era Girolamo Carafa, della famiglia legata da rapporti di parentela con i Colonna. Fu lui, con ogni probabilità, a farlo imbarcare su una delle feluche che tenevano i commerci tra Malta, la Sicilia e Napoli. Caravaggio sbarca a Siracusa, dove trova il suo vecchio amico degli anni romani Mario Minniti, che nel frattempo ha raccolto discreta gloria nella sua terra natale. Ai committenti sull’isola non par vero di poter disporre del pittore più ricercato del momento, sebbene Caravaggio continui a sentirsi un uomo braccato, anche perché ora al bando papale si è aggiunta l’ira furiosa del gran maestro che lo vorrebbe a Malta per la giusta punizione.
Racconta un biografo dei pittori siciliani, il Susinno, che Caravaggio «andava a letto vestito, con il pugnale al fianco che mai lasciava». A Siracusa dipinge il grande Seppellimento di santa Lucia. A Messina e Palermo lo prendono sotto la loro protezione i Cappuccini, per i quali dipinge un’Adorazione dei pastori e una Natività (quella di Palermo, trafugata vent’anni fa e mai più rintracciata).
In tutti e due i dipinti Caravaggio adotta la soluzione iconografica della “Madonna dell’umiltà”, con Maria cioè stesa a terra (humilitas infatti ha la sua radice in humus). A Palermo inserisce nella tela anche san Francesco, che, come dice una delle biografie del Poverello d’Assisi, «stava davanti alla mangiatoia, pieno di singhiozzi, vinto dalla tenerezza, e colmo di gioia meravigliosa». Per la commissione messinese, destinata alla chiesa di Santa Maria della Concezione, incassa la stratosferica cifra di 1.000 ducati d’oro.
Il perdono del Papa
Ma Caravaggio, racconta sempre il Susinno, è ormai un uomo «dal cervello stravolto». A settembre 1609 riprende la rotta per Napoli, dove viene ancora accolto nel Palazzo Cellamare dei Colonna a Chiaia. Il 24 ottobre, un nuovo fattaccio di violenza: durante una rissa all’osteria del Cerriglio, la più celebre di Napoli, Caravaggio viene gravemente ferito.
Il suo disegno è quello di tornare a Roma. Per questo ha chiesto la grazia papale. E per dare testimonianza del suo pentimento dipinge un Davide con la testa di Golia, in cui il gigante filisteo ha il suo stesso volto. E sul volto si leggono i segni dell’aggressione subita al Cerriglio. L’attività dell’artista continua a essere vorticosa. Da Genova gli arriva una commissione molto pressante da Marcantonio Doria: in onore della figliastra che aveva preso il velo vuole un Martirio di sant’Orsola.
Caravaggio lo dipinge velocemente e per stringere i tempi lo mette ad asciugare al sole di un terrazzo napoletano: ancor oggi sulla tela si vedono i segni di quell’operazione affrettata. Il quadro comunque parte il 27 maggio per Genova. Nel frattempo anche Caravaggio stava preparandosi al suo viaggio decisivo, nel tentativo di rientrare a Roma.
Nell’estate del 1610 s’imbarca su una feluca a Chiaia: in tasca ha il salvacondotto, firmato dal cardinale Ferdinando Gonzaga, che contiene il perdono del Papa; nella stiva carica molti quadri, alcuni dei quali richiesti dal cardinal Scipione, nipote di Paolo V. La feluca fa tappa a Palo, un porticciolo tra la foce del Tevere e Civitavecchia. Caravaggio, appena sceso, viene arrestato dal capitano della fortezza. Probabilmente si tratta di uno scambio di persona. Fatto sta che la nave parte senza di lui; e lui deve comperarsi la libertà a caro prezzo. S’incammina verso Porto Ercole, dove la feluca si era diretta. Cento chilometri a nord, in mezzo alla calura e attraversando zone paludose. Quando arriva è oramai allo stremo.
Viene accolto dalla locale Confraternita dei Pellegrini e lì muore. È il 10 luglio. Il 28 la notizia arrivò a Roma. Il cardinal Scipione, preoccupato, si mise subito in contatto con la marchesa Costanza per sapere che fine avessero fatto i suoi quadri. Ne recuperò due, il David con la testa di Golia e un San Giovannino alla fonte, ancora oggi nella Galleria Borghese. Così era finita la storia di quel lombardo dagli «occhi vivaci e incaverniti» (Giulio Cesare Gigli), che in vita sua aveva dipinto solo «l’accaduto, nient’altro che l’accaduto» (Roberto Longhi).