Com’era verde l’anno Mille!, di Jacques Le Goff
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Riprendiamo dal Corriere della Sera del 25/8/1992 una recensione di Jacques Le Goff al volume di Vito Fumagalli: “L’ uomo e l’ambiente nel Medioevo” (Universale Laterza): uomo e natura, città e campagna nell’Italia del Medio Evo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Medioevo.
Il Centro culturale Gli scritti (12/8/2018)
La foresta e la città – miniatura dal “De Universo”
di Rabano Mauro, Montecassino – X secolo.
Al centro della storia ci sono i rapporti dell’uomo con la natura. Se da qualche tempo le nostre società occidentali sono diventate particolarmente sensibili a questi rapporti e ai problemi di ogni genere che ne derivano – problemi tecnici, sociali, culturali, politici -, esse sono comunque, ancora oggi, soltanto le eredi di una lunga durata in cui il Medioevo è stato una tappa capitale.
Non deve dunque meravigliare che, di questo atteggiamento dell’uomo medievale nei confronti dell’ambiente, il medievalista bolognese Vito Fumagalli offra ora una sintesi suggestiva, sapiente e vivace, facendoci penetrare nel cuore delle realtà medievali più concrete solo per chiarire meglio la realtà e gli interrogativi del presente (L’uomo e l’ambiente nel Medioevo, Universale Laterza).
In precedenti saggi, Fumagalli aveva già risuscitato le mentalità , la sensibilità , il modo di vivere e i comportamenti degli uomini e delle donne del Medioevo nei confronti della natura, le diverse mentalità e sensibilità nelle città e nelle campagne. Questo nuovo lavoro si concentra essenzialmente sull’Italia settentrionale e sull’Alto Medioevo fra il settimo e l’undicesimo secolo. Consapevole della necessità per uno storico delle strutture materiali e mentali profonde, di osservare e analizzare la lunga durata, l’autore non esita a risalire fino alla preistoria per scendere poi giù fino ai nostri giorni. Allo stesso modo, egli ricolloca, quando lo ritiene utile, il teatro storico dell’Italia settentrionale in quello, più vasto e più contrastato, di tutta l’Italia, addirittura dell’Occidente, concendendosi di gettare uno sguardo anche verso Oriente.
Pur avendo sempre cura di datare i fenomeni storici, Fumagalli sconvolge le periodizzazioni tradizionali. L’immagine, che per molto tempo ha prevalso nella storiografia, di una lunga depressione che già dal IV-V secolo avrebbe sprofondato l’Occidente in una grave crisi demografica, in un serio regresso delle culture, in una decadenza irrimediabile delle città e della civiltà urbana fino all’ anno Mille – quando, quasi miracolosamente, un irresistibile slancio avrebbe moltiplicato gli uomini, rivoluzionato l’economia rurale e creato una formidabile rete urbana – non resiste davanti allo studio dei casi particolari. La depressione non è stata catastrofica dappertutto, in parecchi luoghi la ripresa è stata precoce, talvolta fin dal settimo secolo, le città non sono scomparse nell’Occidente dell’Alto Medioevo. Vito Fumagalli è lo storico delle sfumature, respinge le spiegazioni sommarie e generiche, le periodizzazioni nette, i sussulti improvvisi là dove, secondo lui, si scorgono soltanto diversità, complessità, lentezza della storia. Questo senso del concreto non gli impedisce, quando è necessario, di prender quota rispetto al terra terra di cui spesso si compiace. Penso che una delle ragioni del disagio che egli avverte fra le teorie generali proposte da certi medievalisti e le realtà piu’ complesse ch’egli scorge risieda nella specificità della storia dell’Italia medievale.
Per spirito di provocazione, sono a volte tentato di dire che l’Italia non ha avuto Medioevo e che è lentamente passata dall’Antichità al Rinascimento. Non è forse ciò che dice Fumagalli quando parla del fenomeno della universale ruralizzazione, che caratterizzò fortemente l’Europa occidentale, in particolare le terre non italiane? Mi chiedo anche se Fumagalli non continui a lasciarsi troppo trascinare da due mode discutibili della storiografia. Prima di tutto, quella che dà tanta importanza alle distruzioni alle quali i “barbari” si sarebbero abbandonati: normanni al Nord, longobardi in Italia, vandali in Africa. Recenti studi mostrano che l’immagine catastrofica delle invasioni normanne o dei vandali è dovuta a esagerazioni delle fonti ecclesiastiche che le hanno descritte con luoghi comuni apocalittici.
Non bisognerebbe ridimensionare anche l’importanza delle distruzioni longobarde? E se alle cause profonde di depressione si vogliono trovare spiegazioni evenemenziali, la peste del sesto e settimo secolo (quella chiamata di Giustiniano) non è forse colpevole quanto i longobardi?
D’altro canto, se è vero che ci si è concentrati quasi magicamente sulle virtù innovatrici dell’anno Mille, non si rischia attualmente, per esagerazione inversa al movimento del bilanciere storiografico, di sopravvalutare il decimo secolo, che da “secolo di ferro” diventa “età dell’oro”? Oltre vent’anni fa, Roberto Lopez aveva dato una risposta più equilibrata chiedendosi: “Il decimo secolo, ancora un Rinascimento?”. La storia è lenta, ma in certi momenti accelera, in altri diventa irrefrenabile. Per l’Occidente, grosso modo, mi sembra che essa prenda l’avvio fra l’ottavo e il decimo secolo, per accelerare nel decimo e diventare veramente irresistibile nell’undicesimo secolo.
Ma l’essenziale del ricco contributo di Vito Fumaglli alla conoscenza delle realtà umane del Medioevo sta innanzitutto nell’abilità cui mette in luce la configurazione dei territori, dei paesaggi, delle società che in essi vivono: specialmente nel contrapporre un’Italia settentrionale dell’Ovest e del Centro, una Longobardia dominata dalle organizzazioni rurali – in particolare dai grandi monasteri rurali (San Colombano di Bobbio, San Silvestro di Nonantola), ma anche urbani (Sant’Ambrogio a Milano, Santa Giulia a Brescia, San Pietro in Ciel d’ Oro a Pavia) – e una Romania, un tempo bizantina, dominata dalle città e dai vescovi. La ritroviamo, come nella Cristianità occidentale e settentrionale, l’organizzazione in villaggi (vici) e in grande tenute (corti), qui c’è la parrocchia rurale, la pieve, che è la struttura organizzata.
L’autore tratta poi un problema fondamentale della storia europea: il rapporto fra città e campagna. E anche qui il suo contributo è importante: egli estende la storia sociale e politica alla storia delle mentalità e delle società. Notevole è la sua descrizione della città della Longobardia, penetrata da un’agricoltura urbana che consiste in orti urbani (impressionante per il loro numero e per la loro superficie), in “vigne, prati, terreni incolti all’ interno delle città”. Leggendo Vito Fumagalli mi dicevo che egli aveva scritto “i caratteri originali della storia rurale dell’Italia del Nord” così come Marc Bloch – il nostro grande maestro di storia medievale – aveva scritto “i caratteri originali della storia rurale francese”.
La portata delle ricerche e delle riflessioni di Vito Fumagalli è interessante soprattutto nella sua caratterizzazione dei rapporti storici dell’uomo con l’ambiente, con la natura. Probabilmente, come egli scrive, “dobbiamo attendere il Settecento per individuare la volontà di affrontare l’ambiente quasi senza timore di sorta trasformandolo a scapito delle sue componenti naturali”. Ma è nel Medioevo che appare una convinzione: “L’ uomo può e deve trasformare l’ambiente… L’uomo occidentale ha cominciato a staccarsi dal mondo della natura quando, nel pieno Medioevo, lo ha fatto anche nei suoi stessi riguardi, privilegiando ed esasperando la componente “razionale” del suo essere. E “la punta avanzata dell’Occidente” in questo mutamento essenziale furono le grandi città comunali italiane. Ancora una volta, è questa la sfida della storia. Come trovare, per l’uomo, l’equilibrio fra questo innegabile progresso e i disastrosi sbandamenti che possono risultarne? Come riuscire a dominare la natura, come cambiarla senza distruggerla e e senza minacciare l’uomo stesso?