Gli assedi turco-musulmani di Belgrado e Vienna e le “crociate” difensive del XVI e XVII secolo
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Riprendiamo sul nostro sito tre testi sull’offensiva ottomana del XVI e XVII secolo con una nota introduttoria de Gli scritti. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Storia e filosofia e Islam. Cfr. anche Tratta araba e turca degli schiavi.
Il Centro culturale Gli scritti (30/7/2018)
Introduzione de Gli scritti
I turchi ottomani ebbero un disegno imperialistico e colonialistico, teso ad ampliare oltre misura il potere già conquistato con l’annientamento dell’impero bizantino e la presa della sua capitale Costantinopoli. Non furono guerre di difesa, ma di vera e propria conquista, che i turchi stessi intesero come vera e propria jihad, ovvero come espansione religiosa. Essi chiedevano ad ogni città assediata di farsi musulmana o di vivere sotto il dominio islamico come sottomessi all’Islam, sottoponendosi alla dhimma. La terza possibilità era anch’essa chiara: la non accettazione del predominio religioso musulmano avrebbe comportato la conquista, l’uccisione dei guerrieri, il saccheggio della città e la deportazione come schiavi di parte della popolazione.
Dinanzi alla guerra concepita dall’impero ottomano nel XV, XVI e XVII secolo, le “crociate” che vennero allora predicate in Europa furono, a differenza di quelle medioevali, di vera e propria difesa: papi e sovrani invitarono tutte le forze disponibili a difendere le città che i turchi stavano per conquistare.
Nei tre testi che seguono si fornisce qualche notizia, procedendo a ritroso, della liberazione dall’assedio di Vienna del 1683, di quello, sempre di Vienna, del 1529 ed, infine, della difesa di Belgrado del 1456.
Nell’assedio di Belgrado del 1456 fu decisiva la figura di san Giovanni da Capestrano che predicò in Vienna invitando ad accorrere in aiuto della città balcanica.
Nel 1683 fu il beato Marco D’Aviano, l’inventore del “cappuccino”, che sostenne nella lotta difensiva gli assediati, mentre fu il principe Eugenio di Savoja, il costruttore del Palazzo del Belvedere di Vienna, a guidare la controffensiva fino alla liberazione di Budapest avvenuta nel 1686. Vienna fu, nel periodo che intercorse fra i due assedi, a un centinaio di chilometri dal fronte, poiché i turchi, avendo preso Budapest nel 1541, erano a quella distanza dalla capitale dell’impero austro-ungarico.
Ricordare tali eventi non significa assolutamente invitare ad un odio verso i turchi o la religione islamica, bensì implica il desiderio di combattere una battaglia culturale che li accompagni a giungere ad una richiesta di perdono per tali fatti.
Come riguardo alle crociate l’ammissione di una colpa grave da parte dei cristiani ha significato una “purificazione della memoria” necessaria per futuri atteggiamenti di pace, così il riconoscere che le campagne militari turco-musulmane furono guerre dettate da intenti di sola conquista e di sola espansione religiosa e non guerre di difesa, permetterà alle nuove generazioni musulmane di avere un diverso rapporto con la propria storia per giungere a rinnegare la violenza passata.
La riscoperta del fatto che alcune delle “crociate” furono delle guerre di difesa permette di riequilibrare le responsabilità storiche in merito a violenze fatte e subite e consente di guardarsi alla pari, come persone che intendono riconciliarsi, avendo ammesso entrambi le proprie malefatte. Con il termine, dunque, di “battaglia culturale” nella ricostruzione storica del passato non si intende assolutamente incentivare l’islamofobia, bensì, all’opposto, mostrare che si crede che i musulmani siano capaci di giungere ad una vera e sincera autocritica, liberando così l’Islam futuro dal sospetto della violenza.
1/ Il primo 11 settembre: Vienna, 1683. Un giorno che cambiò la storia: la sfida dell’Islam all’Occidente e la fine dell’assedio ottomano, di Paolo Mieli
Riprendiamo dal Corriere della Sera del 6/9/2009 un articolo di Paolo Mieli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (30/7/2018)
Assedio di Vienna del 1683
Sarà sicuramente una coincidenza (ma per lo studioso cattolico Michael Novak non lo è affatto) che il primo 11 settembre consegnato ai libri di storia — in particolare quello del confronto tra il mondo cristiano e il musulmano — non sia stato quello del 2001 bensì l’11 settembre del 1683, giorno in cui partì la controffensiva con la quale in trentasei ore le truppe dell’imperatore Leopoldo I, con il fondamentale aiuto di quelle del re di Polonia Jan Sobieski, travolsero e misero in fuga le decine di migliaia di turchi che agli ordini del gran visir Kara Mustafa da due mesi cingevano d’assedio la città di Vienna. Strana coincidenza quella tra quei due 11 settembre. E le analogie non si fermano alla data di fine estate.
Già dall’agosto del 1682 il sultano Mehmet IV aveva pianificato la denuncia del trattato di pace ventennale con Leopoldo che sarebbe giunto a scadenza nell’84 e aveva altresì lanciato un’offensiva che dai Balcani avrebbe dovuto passare per l’Ungheria e concludersi con l’occupazione di Vienna, la capitale dell’impero.
Concludersi? Nessuno può dire se la conquista di Vienna, di per sé a quell’epoca un evento clamoroso, sarebbe stata l’ultima tappa della penetrazione turca in Europa; anzi appare poco probabile che, occupata la capitale austriaca, l’aggressione non sarebbe stata portata anche nel resto del continente.
Le ambizioni del sultano apparivano simili a quelle di un suo predecessore, Solimano, che aveva sferrato prima nel 1529 poi nel 1541 un’incursione in Europa che gli fruttò la conquista di gran parte dell’Ungheria. Invece l’11 e il 12 settembre del 1683 i turchi furono sbaragliati; dopodiché dovettero far fronte a una controffensiva lunga un quindicennio che per le sue caratteristiche di santa alleanza benedetta dal pontefice fu definita «l’ultima crociata»; e nel 1699 furono costretti a subire la pace di Karlowitz che, a detta unanime degli storici, segnò l’avvio del lento ma irreversibile tramonto dell’impero ottomano.
Quel giorno dunque cambiò la storia ed è meritorio da parte del Mulino aver tradotto il miglior libro sull’argomento di uno storico inglese, John Stoye, L’assedio di Vienna (sarà in libreria a ottobre). Nel lungo e approfondito saggio, Stoye oltre a spiegare come andarono le cose si sofferma sulle contraddizioni nell’Europa cristiana che consentirono ai turchi di osare fino a quel punto. Fu infatti il re cattolico francese Luigi XIV a incoraggiare con ogni mezzo il sultano spingendolo ad aggredire l’impero austriaco. Il suo ambasciatore a Istanbul Guilleragues si espose fino a mettere in chiaro che anche se il suo re avrebbe mantenuto l’impegno di correre in soccorso ai polacchi ovemai fossero stati aggrediti dai turchi, non era detto che avrebbero fatto lo stesso in sostegno a Leopoldo. Anzi, più passavano le settimane più Guilleragues chiariva che nel caso i turchi avessero attaccato l’Austria, i francesi non avrebbero mosso un dito e forse avrebbero addirittura sferrato un colpo di pugnale alla schiena di Leopoldo: cogliendo così l’occasione per vendicare il 1673 quando l’imperatore si era alleato con gli eretici olandesi per una guerra contro Luigi XIV. Un argomento assai allettante, quello di Guilleragues, dal momento che i turchi ricordavano bene quanto era stata efficace la forza di spedizione inviata dai francesi in soccorso dell’Austria nel 1664, nonché quella inviata a Creta nel 1669. E non avrebbero mai rischiato di dover affrontare una coalizione anche occasionale tra austriaci e francesi.
Ma a Roma qualcuno aveva capito quanto fosse reale la minaccia turca. Nel 1676 era salito al soglio pontificio Innocenzo XI, che dichiarò subito l’ambizione di pacificare l’occidente per lanciare un attacco al sultano. In un primo periodo, però, papa Innocenzo sostenne le rivendicazioni del re francese ai danni dell’imperatore austriaco che gli appariva titubante a fronte del progetto antiturco.
Il Papa iniziò a cambiare idea in concomitanza con la predicazione di Marco d’Aviano, un frate cappuccino che conobbe grande popolarità tra il 1679 e il 1680 in seguito a un’epidemia di peste bubbonica. Nel corso di questa epidemia gli furono attribuiti, sia nelle corti che tra le genti, episodi miracolosi di guarigione da cui ricavò un’aura di santità: Carlo di Lorena ad esempio ritenne di essere guarito grazie alle sue preghiere e da quel momento fu suo figlio spirituale.
Marco d’Aviano chiedeva ai popoli di impegnarsi per una guerra contro i turchi e nel 1681 provò a portare il suo messaggio in Francia ma Luigi XIV lo fece espellere dal Paese con brutalità. Papa Innocenzo disapprovò. E ancor meno piacque al pontefice che, per dare testimonianza di impegno contro i turchi, quello stesso Luigi XIV che segretamente incoraggiava il sultano a muovere contro Vienna, avesse inviato la sua marina agli ordini dell’ammiraglio Du Quesne in una insensata aggressione alla città di Algeri bombardata senza pietà nel 1682 e nel 1683 proprio mentre iniziava l’assedio della capitale austriaca (provocando per ritorsione l’esecuzione del console francese ad Algeri).
Il libro di Stoye descrive alla perfezione il gioco francese, che era quello di approfittare della pressione turca su Vienna per colpire la Spagna al cui soccorso l’Austria non poteva accorrere perché «distratta» dai turchi (e la Spagna chiedeva all’Austria di impegnarsi a difenderla anziché impelagarsi con i musulmani), mentre i principati della Germania settentrionale si sarebbero dovuti occupare della crisi baltica alimentata anch’essa dalla Francia (ciò che li avrebbe indotti a sottostimare la portata delle iniziative del sultano). Stoye ha il grande merito di mettere in luce le responsabilità europee in campo cristiano — causate appunto da divisioni e rivalità — nella quasi capitolazione di Vienna dalla quale Leopoldo si allontanò all’inizio di luglio mentre i primi drappelli turchi si disponevano per l’assedio e la difesa della capitale austriaca nel tempo avrebbe quasi certamente ceduto se non ci fosse stata la «sorpresa Sobieski». Perché sorpresa?
Il re di Polonia Jan Sobieski
Jan Sobieski — che era nato nel 1624 in un paese vicino a Leopoli ed era stato educato a Parigi come molti rampolli dell’aristocrazia polacca — nel 1674 era stato fatto re di Polonia (prese il nome di Giovanni III) con il fondamentale aiuto proprio di Luigi XIV. Tutto lasciava supporre che nelle giravolte di quegli anni (la cattolica Francia e la cattolica Polonia avevano persino aiutato i protestanti ungheresi contro il cattolico imperatore austriaco) Sobieski sarebbe rimasto fino alla fine alleato del Re Sole. Tanto più che, come detto all’inizio, la Francia — mentre incoraggiava il sultano a muovere contro l’Austria — aveva promesso di intervenire a fianco dei polacchi in caso di aggressione turca al loro Paese.
Invece Giovanni III non solo scese in aiuto di Leopoldo ma addirittura fu il protagonista della battaglia per la liberazione di Vienna dall’assedio, occupò gli accampamenti che erano stati dei turchi fino a poche ore prima ed entrò nella capitale venendo accolto come il liberatore. Ciò che ingelosì Leopoldo al quale non veniva perdonato di essersi per così dire allontanato da Vienna quando i turchi si erano presentati alle porte della città e di averla abbandonata al suo destino in quei due lunghi mesi di fame, epidemie, bombardamenti e incendi.
La verità, scrive Stoye, è che quella di Leopoldo era una personalità complessa: l’imperatore arrivava a prendere decisioni «solo con timorosa riluttanza»; i protestanti e gli ambasciatori veneziani a Vienna incolpavano i gesuiti per un’educazione troppo rigida che «ne aveva represso l’energia innata».
Leopoldo non era meno cattolico di Sobieski ma aveva una maggiore inclinazione a soppesare i pro e i contro di ogni suo atto, salvo poi provare una forte avversione nei confronti di chi, come Giovanni III, agiva di impulso (ed era anche per questo più amato dalle genti). Questo gelo caduto nei rapporti tra Leopoldo e Sobieski rese impossibile che i due cogliessero l’attimo e si lanciassero immediatamente all’inseguimento dei turchi con ottime probabilità di sbaragliarli in breve tempo.
Cosa che fecero dopo qualche mese su sollecitazione del papa ma a quel punto furono necessari quindici anni prima che la missione venisse compiuta. E il tempo fu così lungo anche perché erano riprese le mene della Francia volte esclusivamente a creare difficoltà all’Austria. Luigi XIV — ha scritto Alberto Leoni nel bel libro La croce e la mezzaluna, una storia delle guerre tra le nazioni cristiane e l’Islam pubblicata dalle edizioni Ares — che continuava a definirsi «Re cristianissimo» dimostrava una mancanza di scrupoli tale da porlo in pessima luce anche presso i suoi contemporanei. Al punto che, in una lettera del 15 settembre 1690 scritta dal conte palatino Filippo Guglielmo a Marco d’Aviano, il Re sole è definito «un turco cristiano peggior del barbaro».
Quanto ai turchi, la loro offensiva, anche psicologica, era assai raffinata. «Accettate l’Islam», scrisse il gran visir Kara Mustafa in un documento che fu presentato agli austriaci ai primi di luglio come offerta di soluzione politica, «e vivrete in pace sotto il sultano. O consegnate la fortezza e vivrete in pace sotto il sultano come cristiani, e chiunque lo voglia potrà partire in pace portando con sé i propri beni! Se invece resistete, morte o spoliazione o schiavitù saranno il destino di voi tutti!». Kara Mustafa era stato molto avversato da vari contendenti nell’impero ottomano ma Mehmet IV lo aveva sempre protetto fino ad affidargli carta bianca e duecentomila uomini per la grande spedizione alla volta di Vienna.
Quanto a quel che fece nei due mesi di assedio non gli si può imputare di aver temporeggiato: l’impresa era molto complicata e le fortificazioni della città tenevano. Dopo la sconfitta riuscì ad evitare che il suo esercito si disarticolasse anche se alle spalle dovette subire defezioni e tradimenti. Tutte cose più che prevedibili. Avrebbe voluto consultarsi con il sultano per decidere sul da farsi nei mesi successivi. Ma questi, anche a causa di alcuni contrattempi, non lo incontrò.
Il 19 ottobre le truppe dell’impero attraversarono il Danubio e conquistarono Esztergom: il capitano ottomano si arrese e Kara Mustafa reagì ordinando l’esecuzione degli ufficiali (compresi i giannizzeri) che avevano abbandonato quell’importante piazzaforte, ma quasi tutti si erano già dati alla fuga. Così commentò l’ambasciatore francese da Istanbul: «Ho appena appreso che gli imperiali hanno preso Esztergom e che le diserzioni, il terrore, i disordini e le agitazioni contro il gran visir e il sultano stesso crescono di giorno in giorno».
La voce che i malumori si indirizzavano anche «contro il sultano» dovette giungere alle orecchie di Mehmet IV. Il quale chiese immediatamente la testa di Kara Mustafa. La notizia raggiunse il gran visir che si trovava a Belgrado il 25 dicembre di quello stesso anno. La sua risposta fu: «Come piace a Dio». Restituì i simboli della sua alta autorità, il sigillo, il sacro vessillo del Profeta e la chiave della Kaaba alla Mecca. Fu strangolato da un emissario di Mehmet quello stesso giorno. Per il mondo cristiano era il Natale del 1683.
2/ Il proseguimento dell’avanzata ottomano-islamica dopo la conquista di Costaninopoli e il primo assedio di Vienna
Riprendiamo sul nostro sito un breve testo tratto dalla voce Ottomano, impero, scritta da Ettore Rossi per l’Enciclopedia Italiana della Treccani (1935) e disponibile on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (30/7/2018)
Con [la conquista della Siria e dell'Egitto (1516-1517) e la distruzione della dinastia dei Mamelucchi], che faceva ormai dell'Impero ottomano lo stato musulmano sunnita più potente e conferiva al sultano di Costantinopoli il dominio della maggior parte del mondo islamico, i Turchi si sentirono sicuri a sud; anche l'Arabia era entrata sotto la loro influenza e Mecca e Medina riconoscevano l'autorità del loro sultano.
Il figlio di Selīm I, Solimano I (1520-1566), libero di agire nelle altre direzioni, compì una serie di conquiste, di cui la semplice enumerazione denota la grande importanza: nel 1521 Belgrado, nel 1522 Rodi, nel 1526 Ofen (Buda, Budin dei Turchi), dopo la vittoria di Mohács con la quasi totale occupazione dell'Ungheria, nel 1534 Tebrīz in Persia, nel 1536 Baghdād e tutta la Mesopotamia, nel 1538-1540 le isole veneziane dell'Egeo (eccetto Cipro) e le fortezze di Venezia nella Morea, Castelnuovo e Risano in Dalmazia, nel 1566 Chio.
A queste conquiste vanno aggiunti gl'importanti successi nell'Africa settentrionale, dove i corsari turchi e barbareschi loro alleati s'impadronirono dell'Algeria, di parte della Tunisia (Tunisi presa nel 1533 fu ripresa dagli Spagnoli nel 1535) e di Tripoli (1551).
Solo in due imprese le truppe di Solimano I restarono soccombenti: nella spedizione contro Vienna, guidata dallo stesso sultano nel 1529, e nell'assedio di Malta diretto da Muṣṭafà Pascià, Piyāle Pascià e Dorghūt Pascià nel 1565.
Anche lo Yemen e tutto il Mar Rosso fino a Aden passarono al tempo di Solimano sotto la sovranità ottomana; il regno degli Özbeg del Caspio e della Transoxiana diventò alleato dei Turchi contro i Persiani.
N.B. de Gli scritti
La conquista della Mecca e di Medina e dei restanti territori arabi compreso il nord Africa farà sì che per ben cinque secoli il colonialismo turco-islamico sfrutterà anche i popoli arabo-musulmani, soggiogandoli e impoverendoli. Ben più del colonialismo occidentale del XX secolo sarà questo lunghissimo periodo di sottomissione araba ad un’altra nazione islamica a determinarne l’mpoverimento rispetto al periodo medioevale. Lawrence d’Arabai non ebbe difficoltà a trarre le tribù beduine e palestinesi dalla propria parte tanto esse erano ormai esauste e stufe del dominio turco, preferendo gli inglesi.
3/ Belgrado, 1456: la battaglia che fermò gli Ottomani, di Umberto Maiorca
Riprendiamo dal sito Festival del medioevo (http://www.festivaldelmedioevo.it/portal/belgrado-1456-la-battaglia-che-fermo-gli-ottomani/) un articolo di Umberto Maiorca. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
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Maometto II, ritratto di Gentile Bellini.
Il 29 maggio del 1453 Costantinopoli è perduta. L’imperatore Costantino XI Paleologo, armi in pugno, si getta nella mischia nei pressi della Porta di San Romano e scompare. Con lui muoiono anche le ultime vestigia dell’Impero romano.
Dopo la caduta di Bisanzio tutta l’Europa è in pericolo. E lo sguardo del sultano Mehmet II si appunta sulla sterminata pianura ungherese.
I preparativi turchi
Nel 1456 un’armata della stessa estensione di quella che aveva conquistato Costantinopoli marcia verso Belgrado, la porta dell’Europa. Venezia ha sottoscritto una pace separata con il sultano. Vienna è lontana. La Francia sta a guardare. Solo papa Callisto III interviene a favore dell’Ungheria. Indice una crociata e invia sette frati cappuccini, con a capo il settantenne Giovanni da Capestrano, a predicare nell’Europa orientale (in latino, affinché tutti comprendessero e visto che nessuno di essi parlava le lingue dell’Est) e raccogliere volontari per combattere l’Orda verde. Mentre i frati predicano e raccolgono un esercito di diecimila volontari, però, Mehmet II è già in vista delle mura di Belgrado e assedia il forte (in ungherese Nándorfehérvár).
Gli ungheresi
Ad attendere le truppe musulmane c’è il nobile transilvano János Hunyadi, padre del futuro re Mattia Corvino, e già da due decenni a capo dell’esercito ungherese nella lotta contro i turchi. Hunyadi, forte della propria esperienza di guerra aveva previsto che le armate di Mehmet II avrebbero investito Belgrado con tutta la loro forza e dall’anno prima aveva iniziato i preparativi per la difesa, sapendo di non avere la forza di affrontare il nemico in campo aperto.
Così dopo aver sottoscritto la pace o la tregua con i suoi avversari, aveva approvvigionato e riarmato la fortezza di Belgrado, lasciandovi una guarnigione di 7.000 uomini (tra cui un corpo di 200 balestrieri polacchi, fondamentali per la difesa delle mura) al comando del cognato Mihály Szilágyi e del figlio maggiore Laszlo Hunyadi.
Lasciata Belgrado János Hunyadi si dedica a percorrere tutta l’Ungheria per arruolare un’armata di soccorso e costituire un flotta di 200 corvette per pattugliare i corsi d’acqua e colpire le navi turche che risalgono il Danubio. La nobiltà, i notabili cittadini e i ricchi commercianti, non rispondono all’appello, timorosi del potere che Hunyadi sta accumulando, ritenendolo più pericoloso degli stessi turchi. Il rifiuto del re magiaro Ladislao il Postumo di assumere la guida dell’esercito, inoltre, esenta di fatto la nobiltà dal prendere parte alla crociata.
Identiche difficoltà incontra Giovanni da Capestrano, raccogliendo adesioni alla crociata tra contadini e i piccoli proprietari terrieri, spesso armati di fionde, mazze, falci e forconi. Sommando anche le bande di mercenari e alcune compagnie di cavalieri raccolte da Hunyadi e le persone che seguono i frati (solo dalla Germania partirono alla volta di Belgrado calzolai, sarti, tessitori, minatori, fornai, studenti, chierici) si arrivò ad una forza di 30.000 uomini. Mehmet II avanzava con almeno settantamila uomini perfettamente equipaggiati.
L’assedio
Il 28 giugno del 1456 gli uomini di Szilágyi osservano all’orizzonte le truppe turche che sfilano dietro il vessillo con la coda di cavallo e si posizionano sulle alture davanti alla fortezza. Il 29 Mehmet dà l’ordine di iniziare a bombardare le mura con i cannoni trascinati a forza fino sopra le colline, mentre dispone le sue forze con i rumeli (fanteria leggera e artiglieria) sul lato destro, i corpi di fanteria pesante dell’Anatolia sul lato sinistro e riservando il centro ai suoi giannizzeri. La cavalleria leggera, gli spahis, pattugliava il Danubio ad est, mentre una parte della flotta presidiava la Sava a sud-ovest e a nord-ovest per evitare che eventuali rinforzi raggiungessero la fortezza.
Hunyadi proseguiva l’opera di reclutamento di truppe e sperava di giungere in tempo per rompere l’assedio, facendo affidamento sulla resistenza della rocca bizantina trasformata da Stefan Lazarevic, nel 1404, in un castello tra i meglio costruiti e difesi dell’Europa. La costruzione era dotata di tre linee difensive, del castello interno con il palazzo, un grande dongione (o maschio) difensivo, la città alta, quattro cancelli e una doppia cinta di mura. La città bassa con la cattedrale e il porto sul Danubio furono rinforzate da trincee, cancelli e nuove mura. Nel corso degli anni vennero aggiunte altre torri, compresa a Nebojsa costruita appositamente per ospitare l’artiglieria.
I turchi martellano la città per quindici giorni, colpendo le mura con il tiro dei loro cannoni. Le difese reggono e gli assalti, nonostante le mura cittadine siano ormai sbriciolate, vengono respinti dai soldati assediati. Gli uomini di Szilágyi rispondono colpo su colpo ai giannizzeri di Mehmet II. La sera del 13 luglio Jànos Hunyadi è in vista della città e prepara il suo piano. Belgrado è circondata, ma la via del Danubio presenta un punto debole. Ed è lì che le truppe di soccorso puntano.
La battaglia
Quaranta navi ungheresi attaccano la flotta fluviale ottomana. Colano a picco tre grandi galee turche e vengono catturati quattro grandi vascelli e altre 20 piccole imbarcazioni. Alcuni cittadini di Belgrado, al comando di Iancu Hunedoara, all’approssimarsi della flotta di Hunyadi uscirono da Belgrado per colpire alle spalle la flottiglia ottomana, permettendo l’accerchiamento e l’annientamento del nemico. Un colpo di mano che consente a Hunyadi di entrare in città e rinforzare le difese, evitando che crollassero.
Il sultano, conquistatore di Bisanzio, non demorde e fa aumentare il tiro di artiglieria fino a riuscire ad aprire, il 21 luglio, diverse brecce nelle mura. In serata ordina l’assalto: prima avanzano la fanteria leggera degli azab, seguita dalla seconda ondata di akinji e di spahis, smontati. In formazione compatta, infine, seguono i giannizzeri.
L’urto è violentissimo, l’assalto prosegue dal tramonto fino a notte inoltrata e le difese ungheresi cedono. Hunyadi dà ordine di ritirarsi nella cittadella fortificata. Appena gli ottomani entrano in città, però, vengono accolti da ripetute scariche di frecce e da pezzi di legno imbevuti di pece o altro materiale infiammabile, poi dal fuoco.
I giannizzeri e le altre forze turche entrate a Belgrado sono separate da quelle ancora fuori dalla mura. La fanteria pesante ungherese assale gli ottomani da tutte le parti e la città bassa si trasforma nel teatro di una carneficina che cessa solo all’alba del 22 luglio. Nessuno dei giannizzeri entrati in città ne uscì vivo, mentre tra i soldati che tentavano di varcare le brecce si contarono perdite ingenti. Un turco era quasi riuscito a scalare il bastione principale ed issare il vessillo verde, quando un soldato di nome Dugovics Titusz lo scaraventò di sotto, cadendo anch’egli (per questo gesto di coraggio il re d’Ungheria Mattia Corvino elevò al rango di nobile il figlio di Tito, tre anni più tardi).
Il sole si alza sulle mura del castello di Belgrado e i due eserciti sono troppo stanchi per proseguire nella battaglia. Gli ungheresi liberano le mura da corpi e macerie, mentre i turchi riparano verso il proprio campo. Ed è a questo punto che accade l’inaspettato. Le cronache riferiscono che un gruppo di crociati arrivati in città con fra’ Giovanni da Capestrano esce dalla mura per una razzia. Altre fonti parlano di un’azione militare iniziata su stimolazione del frate abruzzese. Da altri racconti si sa che alcuni difensori raggiunsero le fortificazioni avanzate semidistrutte e iniziarono ad attaccare i soldati nemici isolati. Alcuni spahis turchi cercano di caricare, ma vengono respinti. Dalle mura accorrono altri cristiani. La scaramuccia diventa presto battaglia.
Giovanni da Capestrano, secondo una cronaca di un confratello, cerca di richiamare i suoi, ma quando si vede attorniato da oltre 2.000 uomini li conduce alle spalle delle linee ottomane, attraversando la Sava, sollevando il crocifisso e gridando le parole di san Paolo: «Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento» (Fil. 1,6). Hunyadi vede tutto dalle mura del castello, comprende il pericolo, ma ormai l’attacco è iniziato. Ordina alla fanteria pesante ungherese di attaccare il campo ottomano e si dirige verso le posizioni dell’artiglieria turca.
Assedio di Belgrado, 1456.
I nemici sono presi alla sprovvista e non si difendono, ma cercano di fuggire. Solo la guardia personale del sultano, circa 5.000 giannizzeri, si compatta e cerca di riconquistare il campo. Mehmet II stesso combatte. Uccide un cavaliere cristiano, ma viene ferito da una freccia ad una coscia e sviene. Gli ottomani sono presi dal panico, cedono di schianto su tutto il fronte e abbandonano senza combattere le tre linee di trincee difensive scavate giorni prima. Il nemico è in rotta, ma Hunyadi non si fida e ordina ai suoi di rientrare tra le mura e vigilare tutta la notte. Il contrattacco turco non arrivò più.
Con il favore della notte i turchi si ritirano, portandosi via i feriti su 140 carri. Il sultano riprende conoscenza solo a Sarona e preso atto della disfatta, migliaia di soldati morti, le artiglierie perse, l’equipaggiamento abbandonato, la flotta semidistrutta, tenta di uccidersi con il veleno, ma viene fermato da alcuni dignitari. Tra le fila ottomane si contarono 50.000 vittime, mentre tra gli assediati 7.000.
L’epilogo
Per gli ungheresi fu un trionfo, tanto che papa Callisto III volle che la vittoria venisse ricordata nel calendario liturgico in occasione della festa della Trasfigurazione del 6 agosto.
Durante l’assedio il pontefice ordinò che la campane suonassero a mezzogiorno, così da chiamare i credenti a pregare per i difensori. Da allora, per commemorare l’avvenimento, continuano a suonare alla stessa ora.
Pochi giorni dopo la vittoria, però, scoppiò la peste che fece 3.000 morti nel campo magiaro. Jànos Hunyadi morì l’11 agosto e fra’ Giovanni da Capestrano il 23 ottobre.
La battaglia fermò l’espansionismo ottomano in Europa per almeno 70 anni. I cannoni persi a Belgrado furono recuperati dai turchi dopo la disfatta cristiana di Mohàcs (1526).
Nel canto XLIV dell’Orlando furioso, Ariosto parla dell’arrivo di Ruggiero “ove la Sava nel Danubio scende” nel momento in cui l’imperatore d’Oriente Costantino ha deciso di attaccare i bulgari. Il paladino si schiera in battaglia a fianco di questi ultimi. Secondo recenti studi, il grande poeta avrebbe voluto descrivere, con quei versi, proprio l’assedio di Belgrado da parte dei turchi nel 1456.