Vedere il risorto, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito l'articolo scritto da Andrea Lonardo il 7/5/2010 per la rubrica In cammino verso Gesù del sito Romasette di Avvenire
Il Centro culturale Gli scritti (20/5/2010)
Ha scritto una volta il grande teologo svizzero Hans Urs von Balthasar: nella fede cristiana «vedere non è tanto il contemplare di Platone, quanto lo stare di fronte all’evidenza dei fatti».
Il passaggio dal triste silenzio al gioioso annuncio avvenne negli apostoli per aver “visto” il Signore. I vangeli insistono concordemente sull’impreparazione dei discepoli al fatto della resurrezione. Essi non la attendevano, non erano preparati ad essa.
I testi mostrano una dinamica opposta a quella che si pretende sia avvenuta quando si vuole screditare l’annunzio pasquale. Talvolta, infatti, si afferma che coloro che avevano vissuto con Gesù erano così entusiasti, così carichi di attese e speranze, che, alla morte del maestro, crearono essi stessi, nella loro fantasia esaltata, l’idea di un Signore risorto.
I vangeli mostrano, invece, le donne andare al sepolcro per ungere il corpo del Signore ormai morto e Giovanni e Pietro che corrono al sepolcro vuoto senza aver ancora compreso che Cristo sarebbe resuscitato dai morti. Presentano gli apostoli ed i discepoli increduli alla notizia, Tommaso che si rifiuta di associarsi alla fede degli altri, i discepoli di Emmaus già sul cammino di un triste ritorno a casa nella convinzione di una storia già morta e sepolta.
Quale fatto rese possibile che questa situazione iniziale di scoraggiamento si mutasse poi nel coraggio della predicazione del vangelo? Come fu possibile che persone che avevano ormai abbandonato ogni speranza, poterono poi giungere a morire per testimoniare il Signore Gesù?
Gli scritti contemporanei al Nuovo Testamento, in particolare le opere scritte a Roma da Flavio Giuseppe per presentare al mondo latino le vicende ed il valore del popolo ebraico, riferiscono di numerosi personaggi che si proclamarono messia in Giudea nel corso del I secolo, ma, anche che, alla loro morte, i movimenti che da essi erano nati vennero dispersi.
Lapidaria è l’affermazione degli Atti degli Apostoli, che conferma le notizie di Flavio Giuseppe parlando di Teuda e di Giuda il Galileo (in realtà, in Flavio Giuseppe, si racconta di ulteriori sommosse che turbarono gli animi in quegli anni): furono uccisi «e quelli che si erano lasciati persuadere furono dissolti e finirono nel nulla» (At 5,36).
Due eventi, invece, determinarono la fede della prima comunità: la scoperta del sepolcro vuoto e le apparizioni del Risorto.
Il primo è un fatto che nessuno sembra aver negato nemmeno agli inizi dell’era cristiana. Semplicemente quel corpo non era più lì – e l’onestà morale ed intellettuale dei discepoli impedisce di pensare che essi se ne siano impossessati.
Le apparizioni furono, invece, non solo la constatazione di un evento, ma, ancor più un incontro vivo e reale. Come ha scritto recentemente l’esegeta Roberto Vignolo, «se è vero che le apparizioni non sono l’atto della resurrezione, però in qualche maniera ne fanno parte assolutamente integrale. Senza di esse noi non ne sapremmo nulla, non ci sarebbe un’esperienza di fede effettivamente compiuta, venendo a mancare il destinatario della salvezza; e Gesù sarebbe esattamente il contrario di ciò che è e fu, uno gnostico che salva soltanto se stesso».
È, insomma, dinanzi alla presenza del Signore Gesù e non nelle elucubrazioni della mente che gli apostoli accolsero il lieto annunzio della resurrezione.
Vengono in mente alcune straordinarie espressioni di Henri Matisse, il grande pittore che dedicò gli ultimi anni della vita a progettare e realizzare la cappella delle domenicane del convento di Vence, in Costa Azzura, poiché una sua infermiera, che era poi divenuta anche modella dei suoi quadri, si era fatta suora in quel luogo.
Il grande maestro francese esclamava, ripensando all’opera che aveva realizzato: «Il mio lavoro consiste nell'imbevermi delle cose. E dopo, tutto questo rifluisce fuori. Io sono fatto di tutto ciò che ho visto».
Ignace de la Potterie, l’esegeta che dedicò la sua vita al vangelo di Giovanni, amava ricordare l’importanza del verbo “vedere” nel quarto evangelo. Lo studioso belga coglieva nell’evangelista una progressione nel passare dallo scorgere (blepein), all’osservare direttamente (theorein), al contemplare (theasthai), al conservare la memoria di ciò che si era visto (orao alla forma perfetta) .
E sottolineava come questo era il modo peculiare di Giovanni di affermare la fede comune agli altri evangelisti: Gesù non era un’idea, non era un valore, non era una filosofia, ma era quella persona reale.
Come scrive la prima lettera di Giovanni: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Gv 1,1-3).
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