L’“ordine” delle scene della Legenda della Vera Croce di Piero della Francesca in Arezzo. Non comprendere la sequenza iconografica vuol dire stravolgere il significato dell’opera del grande maestro, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Arte e fede e I luoghi della Bibbia e della storia della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (7/1/2018)
Il falso schema del ciclo, quello narrativo-cronologico,
abitualmente proposto dai commentatori e dalle Guide
Le Guide alla visita distribuite in loco, così come gli articoli divulgativi on-line, non riescono a rendere conto della sistemazione dei diversi affreschi nel ciclo delle Storie della vera Croce (o Legenda della vera Croce) che Piero della Francesca dipinse nella chiesa di San Francesco in Arezzo e che è stato recentemente oggetto di un importante restauro[1].
Scrive ad esempio Wikipedia (al 27/8/2017) con imbarazzo evidente: Piero «non si curò dell’andamento cronologico, privilegiando un criterio meramente estetico-formale, che creasse effetto di simmetria, senza per questo impedire rispondenze filosofico-teologiche tra scene che si fronteggiano. In alto, ad esempio, sia nella parete di sinistra che in quella di destra è rappresentata una scena all’aperto, mentre nel registro mediano si trovano due scene di corte su sfondo architettonico, e, in basso, due battaglie. A determinate scene dell’Antico Testamento inoltre si contrappongono altre del Nuovo».
Dal passo si vede come la voce di Wikipedia non tenti nemmeno di indicare quali siano le corrispondenze filosofico-teologiche – a differenza di quanto affermato – e come le uniche corrispondenze evidenziate siano quelle estetiche, con termini, peraltro, abbastanza vaghi. La voce nemmeno si accorge che non è rappresentata alcuna scena dell’Antico Testamento, perché la morte di Adamo rappresentata, come si vedrà, negli affreschi, non è un episodio veterotestamentario, in quanto Genesi non descrive la sua morte: deriva invece da apocrifi risistemati nella Legenda Aurea di Iacopo da Varazze. Nemmeno l’episodio della regina di Saba è attestato nella Bibbia, pur essendo la regina stessa un personaggi veterotestamentario, ma deriva dalla stessa Legenda, come sarà sottolineato più oltre.
Ma tale incertezza nei testi divulgativi dipende ovviamente dagli studiosi affermati che non sono in grado di leggere le chiavi interpretative del ciclo. Scrive, ad esempio, Refice nella guida ufficiale al ciclo: «Il risultato del lavoro di Piero della Francesca è una sequenza impostata in base a una logica narrativa diversa da quella, evidentemente cronologica, che caratterizzava l’illustre precedente della Leggenda di Arezzo, il ciclo di affreschi dipinto da Agnolo Gaddi nella Basilica di Santa Croce a Firenze». Ma, dopo aver ammesso tale evidenza, presenta poi gli affreschi secondo la successione cronologica dei fatti, non riuscendo così a darne una presentazione, per sua stessa ammissione, convincente[2].
Con espressioni simili, reperibili in tutte le presentazioni del ciclo, i commentatori dimenticano che mai un pittore dell’epoca - e tanto più un grande come Piero della Francesca - avrebbe dipinto un ciclo “senza capo, né coda”, limitandosi ad offrire una certa “simmetria estetica”, né mai un committente, né i custodi di una chiesa - in questo caso i frati francescani di allora - avrebbero permesso un ciclo pittorico con immagini senza motivo.
Basta, invece, contemplare i meravigliosi affreschi per qualche secondo e avere un minimo di conoscenza del significato teologico dei diversi episodi della Storie della Vera Croce per sciogliere il rebus e comprendere le corrispondenze che sono assolutamente evidenti.
1/ Le lunette: l’orgoglio di Adamo, la bontà di Dio e l’umiltà del credente rappresentata da Eraclio
Negli affreschi delle lunette - che sono chiaramente i due primi riquadri che danno inizio e motivo al ciclo che, come d’abitudine, va letto dall’alto in basso - si vuole affermare che l’albero della vita, che troneggia al centro dell’affresco di destra e che è stato perso con il peccato di Adamo, viene ridonato con la croce di Cristo, nuovo albero della vita, portata in trionfo da Eraclio in Gerusalemme. Si vuole altresì sottolineare che al peccato originale, il peccato cioè di orgoglio di Adamo che non volle fidarsi di Dio e che lo portò a perdere l’albero della vita, si contrappone l’umiltà di chi accoglie la croce, virtù rappresentata da Eraclio che porta la croce a piedi, dopo essere disceso da cavallo.
1.1/ L’orgoglio di Adamo e nonostante questo la promessa di Dio del dono dell’albero della vita
Nella lunetta di destra al centro sta maestoso l’albero della vita che Dio aveva pensato per Adamo e tutti gli uomini. Tre scene si svolgono ai piedi dell’albero. Sulla destra si vede Adamo anziano ormai in punto di morte, avendo egli perso il dono della vita eterna per aver preferito di mangiare il frutto proibito della conoscenza del bene e del male, avendo cioè preferito di stabilire da sé cosa sia il bene e il male e rifiutando di seguire Dio e la sua legge che conduce alla vita. Sulla destra, di fianco, si vede Eva e al cospetto dei due il figlio Seth che viene inviato da Adamo a chiedere a Dio, tramite il suo arcangelo, cosa avverrà ora di lui.
Sullo sfondo si vede Seth che parla con l’arcangelo Michele: quest’ultimo gli dice che la vita eterna sarà donata al padre suo, ma solo all’arrivo di Cristo, poiché solo lui, il Signore Gesù, potrà restituire agli uomini l’albero il cui frutto è cibo di vita eterna.
Lo spiega bene la Legenda aurea alla quale Piero della Francesca e suoi committenti si ispirarono, fornendo l’evidente chiave di lettura dell’affresco di Adamo e Seth:
«Si legge nel Vangelo di Nicodemo che essendosi Adamo ammalato, suo figlio Seth andò alle porte del Paradiso e chiese l’olio del legno della misericordia con cui ungere il corpo del padre e riacquistargli la salute. Gli apparve l'arcangelo Michele che gli disse:
- Non darti pena per aver l’olio del legno della misericordia, perché non potresti averlo in nessun modo finché non saranno trascorsi 5500 anni - (Si crede che da Adamo fino alla passione di Cristo siano trascorsi 5199 anni).
Si legge anche altrove che un angelo gli procurò un rametto e gli disse di piantarlo sul monte del Libano. Invece, in una storia apocrifa greca si legge che l’angelo gli diede del legno dell’albero con il cui frutto peccò Adamo, dicendogli che quando avrebbe fruttificato suo padre sarebbe guarito: ma, ritornato, trovò il padre morto e piantò il ramo sulla tomba del padre, dove diventò un grande albero che visse fino al tempo di Salomone. Lascio giudicare ai lettori se queste storie siano vere, dal momento che questo racconto non è riportato da alcuna cronaca o storia autentica»[3].
La Legenda aurea, pur raccontando diverse versioni del fatto “leggendario” - ed esitando ad identificare l’albero ora con l’albero della vita ora con quello della conoscenza del bene e del male -, ha l’evidente fine di collegare l’episodio del primo peccato con la venuta di Cristo: Adamo potrà tornare in vita solo a motivo dell’albero della vita che sarà recato in dono da Gesù.
Fraintende così completamente la Legenda aurea e il significato della lunetta il commento della guida ufficiale La Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca e la basilica di San Francesco ad Arezzo che così scrive: «La storia inizia con Adamo ammalato e suo figlio Seth che si reca alle porte del Paradiso per chiedere il seme dell’albero della conoscenza (o, secondo un’altra versione, l’olio del legno della misericordia, con cui ridonare la salute a padre. Seth arriva troppo tardi e il prezioso dono viene piantato sulla tomba di Adamo: da esso nascerà l’albero destinato a fornire il legname della Croce di Cristo»[4].
Non si tratta di arrivare tardi: si tratta piuttosto di attendere la venuta di Cristo!
Nella scena di sinistra, si vede la morte di Adamo e il suo compianto. In Piero non c’è nessuna nuova seminagione, perché ciò che conta per lui è il grande albero che rappresenta la vita eterna persa, ma anche la promessa di un nuovo albero di vita. Nei gesti dei parenti di Adamo si vede la disperazione, perché la morte non ha rimedio, ma l’affresco vuole tramite la presenza del grande albero, rinnovare la fiducia nella promessa di Dio che darà in Gesù un nuovo albero di vita anche per Adamo, come per ogni uomo. Perché Adamo è ognuno di noi.
I due profeti a fianco delle due lunette insistono ulteriormente sul fatto che gli eventi dell’antica alleanza e in questo caso il peccato di Adamo e la promessa di Dio - anche se, giova ripeterlo, la scena della morte di Adamo non è di per sé un episodio veterotestamentario - già illuminano di speranza il futuro, aprendolo alla speranza della venuta del Cristo.
1.2/ L’umiltà di Eraclio che porta il legno santo della vita a piedi come pellegrino
Nella lunetta a sinistra, Piero - seguendo anche qui la Legenda aurea e la fede della chiesa - presenta il nuovo albero di vita, la croce. Il frutto della vita eterna promessa ad Adamo viene ora donato dalla passione di Gesù. Chi si stringe al nuovo legno, ha la vita eterna, riceve il dono di una vita che non finisce.
Nell’affresco della lunetta di sinistra l’elemento iconograficamente più importante non è l’imperatore Eraclio, ma la grande Croce che egli porta, come nell’affresco di Adamo, ciò che contava era innanzitutto il legno dell’albero al centro.
La Legenda aurea arricchisce il suo racconto con un inno che viene cantato al momento in cui Eraclio riporta la Croce di Cristo in Gerusalemme: «O croce più brillante di tutte le stelle, venerata in tutto il mondo, amata da tutti gli uomini, più santa di ogni cosa, tu che sola sei stata degna di portare la dote del mondo, dolce legno, dolci chiodi, dolce punta e dolce lancia, tu che porti dolci pesi, salva la folla che qui è riunita per cantare le tue lodi, e porta il vessillo con la tua insegna»[5]. La “dote del mondo” è appunto il dono della vita eterna, persa da Adamo con il peccato originale e offerta nuovamente da Gesù morto in croce per il perdono dei peccati.
Nell’affresco della lunetta di sinistra, composto da un’unica scena, si vede Eraclio scalzo che si avvicina alle mura di Gerusalemme. Sta riportando nella Città Santa la santa Croce che era stata sottratta dal re persiano Cosroe. Secondo Piero e la Legenda aurea in un primo momento Eraclio pensava di entrare in Gerusalemme a cavallo, portando da trionfatore il legno di Cristo. Ma le porte della città si rifiutarono di farlo passare, finché egli comprese che quello era un segno divino: la croce andava portata con umiltà, poiché è lei che salva. Eraclio allora si scalzò come umile pellegrino e portò la Croce a spalla.
In questo modo le due lunette sono unite non solo dal tema dell’albero della vita, quell’albero di Genesi che prefigurava la Croce di Cristo, ma anche dai due opposti atteggiamenti dei due protagonisti umani: Adamo fu orgoglioso e non volle fidarsi di Dio, perdendo la vita eterna, Eraclio, invece, si umiliò dinanzi alla Croce, perché dinanzi al nuovo albero di vita l’umiltà è il giusto atteggiamento per comprendere c he il perdono e la vita non sono una pretesa, bensì un dono.
Così descrive l’episodio la Legenda aurea che Piero segue alla lettera anche riguardo ad Eraclio:
«[Eraclio] abbatté la torre [di Cosroe] e dette tutto l'argento in bottino all'esercito, riservando invece l'oro e le pietre preziose alla riparazione delle chiese che il tiranno aveva distrutto. Prese la santa croce e la portò a Gerusalemme, ma mentre voleva passare col cavallo con le bardature regali, e lui stesso con la veste imperiale, attraverso la porta da cui passò il Signore andando verso la passione, improvvisamente le pietre scesero e si disposero come un muro o una parete, l'una contro l'altra. Tutti i presenti furono meravigliati di quanto stava accadendo, quando apparve sopra la porta un angelo del Signore che portava in mano il segno della croce, e disse:
- Il Re dei Cieli quando passò per questa porta per andare alla passione non passò con pompa regia, ma su un modesto asinello, e lasciò con questo un esempio per tutti coloro che vogliono essere suoi seguaci.
Dette queste parole l'angelo svanì. L'imperatore piangendo si tolse i calzari e tutti i vestiti sino alla camicia, prese la croce del Signore e la portò umilmente sino alla porta: la durezza delle pietre sentì la forza dell'impero del cielo, e la porta si rialzò da sola e aprì il passo a quelli che volevano entrare. Quel meraviglioso odore che al momento in cui la croce fu portata via dalla torre di Cosroe si sentì a Gerusalemme sin dalla remota provincia della Persia, si sentì nuovamente e riempi tutti della sua straordinaria dolcezza. Il re, pieno di devozione, proruppe in queste lodi della croce:
- O croce più brillante di tutte le stelle, venerata in tutto il mondo, amata da tutti gli uomini, più santa di ogni cosa, tu che sola sei stata degna di portare la dote del mondo, dolce legno, dolci chiodi, dolce punta e dolce lancia, tu che porti dolci pesi, salva la folla che qui è riunita per cantare le tue lodi, e porta il vessillo con la tua insegna.
E così la preziosa croce è ricollocata nel suo posto e rinnova gli antichi prodigi. Alcuni morti ritornano a vita, quattro paralitici sono guariti, dieci lebbrosi sono mondati, quindici ciechi riacquistano la vista, i demoni sono scacciati, e molti sono liberati da varie malattie: l'imperatore per memoria di questo restaurò molte chiese, colmandole di doni degni del suo rango, e poi tornò alla sua terra»[6].
L’orgoglio, insomma, allontana dal Dio creatore che vuole donare la vita, mentre l’umiltà permette di abbracciare la croce che salva, quella croce che è l’albero stesso della vita.
Chi sceglie di commentare in senso cronologico il ciclo ne fraintende in maniera grave l’iconografia del ciclo. La via seguita dalla guida ufficiale, che abbandona la sequenza degli affreschi scelto da Piero e dai suoi committenti e commenta per ultimo l’affresco di Eraclio dopo aver prima commentato gli altri, perde il senso del parallelismo teologico e spirituale voluto dal grande artista[7].
2/ La fascia mediana: il legno dell’albero della vita conservato, anche se nascostamente, dall’Antico Testamento, ma messo in luce dalla Nuovo alleanza e ritrovato dalla regina Elena
Anche gli affreschi della fascia mediana si comprendono l’uno dinanzi all’altro. Nell’affresco di destra si vede come il legno dell’albero della vita venga nascosto, venga messo sotto terra, mentre in quello di sinistra esso viene riscoperto, disseppellito e offerto a tutti. Ma, come nella lunetta di Adamo, anche nell’affresco della regina di Saba e di Salomone la “perdita” del legno della vita è al contempo una promessa: quel legno viene conservato per essere pienamente offerto al momento opportuno.
2.1/ Salomone fa nascondere il legno salvifico della croce
Sulla parete di destra viene rappresentato un secondo racconto che non appare nell’Antico Testamento (come l’episodio della promessa fatta a Seth), ma che figura nelle tradizioni raccolte dalla Legenda aurea. Qui la regina di Saba, mentre si reca in visita da Salomone, agisce per aver miracolosamente compreso che il ponte sul quale stava passando era in realtà costruito con il legno dell’albero della vita. La Legenda vuole che Salomone, non essendo riuscito ad utilizzare il legno dell’albero della vita nella costruzione del “palazzo della foresta”, avesse invece deciso di utilizzarlo per la costruzione di un ponte. La regina etiope o sud-arabica di Saba, venuta a Gerusalemme per verificare la sapienza del re, accortasi del valore di quel legno che sarebbe tornato a dare la vita (o avrebbe decretato il passaggio dell’alleanza al nuovo popolo di Dio), ne avrebbe dichiarato al re l’esistenza. Il legno sarebbe stato così nascosto in un determinato luogo, vuoi per preservarlo e onorarlo, impedendo che venisse calpestato, vuoi per paura, al fine di cancellarne la memoria.
Così racconta la Legenda aurea, anche qui filo conduttore dell’opera di Piero:
«Salomone poi, vedendo un albero così bello, lo fece tagliare per metterlo nel palazzo della foresta; ma, come dice Giovanni Beleth, non c’era posto in cui potesse essere sistemato: o era troppo lungo o era troppo corto, e quando lo si tagliava della misura giusta, sembrava così corto da non servire più a nulla. Per la rabbia gli operai lo presero e lo buttarono su di uno specchio d'acqua, perché servisse da passerella. Quando poi venne la regina di Saba ad ascoltare la sapienza di Salomone, mentre stava per attraversare quello specchio d'acqua, vide in spirito che il Salvatore del mondo sarebbe stato appeso a quel legno e dunque non volle calpestarlo e anzi lo adorò. Si legge invece nella Historia scholastica che la regina di Saba vide quel tronco nel palazzo della foresta, e dopo essere ritornata alla sua casa informò Salomone che a quel tronco sarebbe stato appeso un uomo per la cui morte il regno dei Giudei sarebbe stato distrutto. Salomone allora tolse il tronco da quel luogo e lo fece sotterrare nelle più profonde viscere della terra.
Molto tempo dopo in quel luogo fu costruita una piscina probatica dove i Natmei lavavano le vittime e si dice che non solo per la discesa di un angelo ma anche per la virtù di quel legno le acque in quella piscina si muovevano e guarivano i malati.
Quando poi stava avvicinandosi la passione del Signore, si dice che questo tronco fosse venuto a galla e i Giudei vedendolo lo presero e prepararono la croce del Signore»[8].
Nell’affresco si vede a sinistra, in una scena all’aperto, la regina di Saba che si inginocchia per venerare il legno dell’albero della vita (e della futura Croce). La si vede poi al cospetto di Salomone nel suo palazzo reale con colonne, che rivela al grande re saggio il mistero che le è stato fatto conoscere: quel legno è sacro e sarà salvifico. Si vedono poi i servitori di Salomone che sotterrano il sacro Legno.
Per comprendere il senso teologico dell’episodio ci si deve porre nella prospettiva della tipica lettura cristiana degli episodi veterotestamentari, anche se pure tale episodio – come si è già detto – non compare assolutamente nell’Antico Testamento. Nell’Antico Testamento la presenza di Cristo è certamente nascosta e non è evidente come nel Nuovo e, da questo punto di vista, la nuova alleanza è certamente superiore perché essa non nasconde, ma esalta la croce di Cristo: e tuttavia l’Antico Testamento non è disprezzato dal Nuovo, bensì anzi esaltato, poiché esso conserva e promette ciò che sarà donato in pienezza con la venuta di Gesù. La Nuova alleanza non cancella l’Antica.
2.2/ La regina Elena dissottera la croce, proponendola alla pubblica adorazione e con essa guarisce un morto
Sull’affresco del lato sinistro si vede un’altra regina, Elena, che, invece, dissotterra la Croce, poiché essa deve essere onorata e venerata. Solo la Croce di Cristo ha il potere di resuscitare i morti, solo essa ha il potere di fare quel dono della vita eterna promessa ad Adamo nel Paradiso e riconfermata per il futuro, nonostante il peccato originale.
Anche qui Piero segue la Legenda aurea che anche questa volta riporta eventi storicamente non plausibili unitamente ad altri degni di fede, consapevole di compiere un’operazione di questo tipo poiché dichiara: «Non sembra però molto probabile che il padre di questo giudeo possa essere vissuto al tempo della passione di Cristo, perché dalla passione di Cristo fino a Elena, al cui tempo visse Giuda, passarono più di duecentosettant'anni; a meno di pensare che allora gli uomini vivessero più di ora»[9].
Nella prima scena sulla parete di fondo Piero riprende la Legenda che racconta di un ebreo di nome Giuda che, unico conoscitore del luogo dove era stata sotterrata la vera Croce di Cristo, si rifiuta di rivelarlo, finché viene messo a sua volta in una buca e cede alle pressione dell’imperatrice Elena, madre di Costantino, decidendosi infine a rivelare il luogo: l’affresco dipinge Giuda calato o tratto fuori dal pozzo. L’ebreo Giuda, secondo la Legenda aurea, si convertirà al termine della storia e si farà cristiano divenendo addirittura vescovo.
Elena, allora, nella seconda, decide di scavare nel luogo infine rivelato all’ebreo e trae fuori dalla terra le tre croci di Cristo e dei due ladroni con lui crocifissi, sepolte da tre secoli.
La si vede con un copricapo bianco a sinistra della scena, mentre sullo sfondo è dipinta la città di Arezzo a rappresentare Gerusalemme. A fianco a lei è un nano di corte, mentre la critica ritiene che l’uomo che le sta dinanzi con un copricapo rosso possa essere un autoritratto dello stesso Piero della Francesca.
La terza scena a destra si svolge dinanzi al tempio di Venere fatto costruire a Gerusalemme dall’imperatore Adriano esattamente sul luogo del Calvario, per impedirne la venerazione ai cristiani - tale fatto raccontato dalla Legenda aurea è storico, poiché è narrato nella Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea ed è il motivo per il quale l’imperatrice Elena, sostenuta dal figlio Costantino, fece erigere la chiesa dell’Anastasis (oggi detta del Santo Sepolcro) esattamente nel luogo dove oggi è e dove sorgeva il tempio di Venere.
In questa scena si rappresenta la vicenda che portò secondo la Legenda aurea ad individuare quale fosse la vera Croce di Cristo delle tre riportate alla luce dall’imperatrice. Un morto venne posto sopra le tre croci e quando venne posto su quella del Cristo resuscitò: in questo modo miracoloso fu possibile provare che quella era la vera Croce, poiché essa - ed essa sola - restituiva la vita.
Questo il testo della Legenda, rappresentato da Piero:
«I giudei, preoccupati e timorosi, si dicevano l'un l'altro:
- Per quale motivo pensate che la regina ci abbia fatti chiamare?
E uno di loro, di nome Giuda, disse:
- So che vuol sapere da noi dov'è il legno della croce su cui fu crocefisso Cristo: ma attenzione, nessuno presuma di rivelarlo, altrimenti sappiate per certo che la nostra legge si indebolirà e le nostre tradizioni saranno del tutto distrutte. Zaccheo infatti, mio nonno, lo aveva detto a mio padre, e mio padre, morendo, a me: «Attenzione, figlio mio, quando cercheranno la croce di Cristo rivela dov'è prima di essere torturato: da quel momento non regnerà più la gente giudea, ma quelli che adorano il crocefisso, poiché Cristo era figlio di Dio». E io allora gli chiesi: «Padre mio, se davvero i nostri padri sapevano che Gesù Cristo era figlio di Dio, perché lo hanno inchiodato al patibolo e messo in croce?» Mi rispose: «Il Signore sa che non ho mai fatto parte del loro consiglio e che anzi mi sono spesso opposto a loro: ma poiché egli rimproverava i vizi dei farisei, lo fecero crocefiggere. Ma egli il terzo giorno risorse e salì al cielo di fronte ai suoi discepoli. Stefano, mio fratello, credette in lui e per la follia dei Giudei fu lapidato. Dunque, figlio, guardati dal bestemmiare Cristo ai suoi discepoli».
Non sembra però molto probabile che il padre di questo giudeo possa essere vissuto al tempo della passione di Cristo, perché dalla passione di Cristo fino a Elena, al cui tempo visse Giuda, passarono più di duecentosettant'anni; a meno di pensare che allora gli uomini vivessero più di ora.
Allora i giudei dissero a Giuda:
- Noi non abbiamo mai sentito niente di simile. Comunque se la regina ti chiede qualcosa in proposito, bada di non dirle nulla.
Quando furono di fronte alla regina e quella ebbe chiesto loro in quale luogo Gesù fu crocefisso, poiché non volevano assolutamente rivelarlo, ordinò che fossero tutti bruciati. A quel punto, in preda al terrore, tradirono Giuda e dissero:
- Quest'uomo, o regina, è figlio di un uomo giusto e profeta, egli conosce perfettamente la Legge e da lui potrai sapere tutto ciò che chiedi.
La regina allora lasciò liberi tutti gli altri e trattenne soltanto Giuda, a cui disse:
- Io ti propongo la vita o la morte: puoi scegliere ciò che preferisci. Indicami dunque il luogo, chiamato Golgota, in cui fu crocefisso il Signore, perché io possa trovare la sua croce.
Giuda rispose:
- Come posso conoscere quel luogo se sono passati più di duecento anni, e allora non ero neppure nato?
- Per il crocefisso tu morirai di fame, se non mi dirai la verità, - disse la regina.
Lo fece gettare allora in un pozzo asciutto perché fosse torturato dalla fame. Dopo essere stato senza cibo per sei giorni, il settimo giorno chiese di essere tirato fuori e promise che avrebbe indicato il luogo della croce. Quando lo fecero uscire andò in quel luogo e pregò, ed ecco che improvvisamente la terra tremò e si sparse un profumo meraviglioso. Giuda pieno di meraviglia batteva le mani e diceva:
- Veramente, o Cristo, tu sei il salvatore del mondo.
Vi era infatti in quel luogo, come si legge nelle storie ecclesiastiche, un tempio di Venere, che aveva fatto costruire l'imperatore Adriano perché se qualche cristiano avesse voluto andare a pregare in quel luogo, sarebbe parso pregare Venere. Ragion per cui quel luogo era diventato poco frequentato e quasi del tutto dimenticato; la regina allora fece radere al suolo il tempio e arare la terra. Allora Giuda si rimboccò le vesti e si mise a scavare con forza. Dopo aver scavato per venti passi trovò tre croci sepolte, che portò subito alla regina. Ma non sapendo come distinguere la croce di Cristo da quelle dei ladroni, le misero tutte in mezzo alla città aspettando che si manifestasse la gloria del Signore. Ed ecco - era circa l'ora nona - viene portato un giovane morto. Giuda prese il feretro e posò sul corpo del morto prima una croce, poi un'altra, ma il giovane non risorse; ma appena fu avvicinata la terza croce il morto tornò in vita. Si legge invece nelle storie ecclesiastiche che una donna di rango elevato era in fin di vita e Macario, vescovo di Gerusalemme, avvicinò la prima e la seconda croce, ma non accadde nulla, ma quando appoggiò la terza, la donna apri gli occhi e subito guarita si alzò. Ambrogio invece dice che riconobbe la croce del Signore dal titolo che vi aveva fatto mettere Pilato e che ritrovò e lesse. Il diavolo allora si mise a dire per l'aria:
- O Giuda, perché l'hai fatto? Il mio Giuda ha fatto tutto l'opposto: consigliato da me, ha tradito, e tu, contro il mio volere, hai ritrovato la croce di Cristo: quell'altro Giuda mi ha fatto conquistare molte anime, tu me le farai riperdere; grazie a lui regnavo su di un popolo, per causa tua sarò cacciato dal regno. Ma io mi vendicherò: scatenerò contro di te un altro re, e ti farà rinnegare fra i tormenti il crocefisso. […]
Poi Giuda fu battezzato, ebbe il nome di Ciriaco e, essendo morto il vescovo di Gerusalemme, fu ordinato vescovo»[10].
Si vede come qui il rapporto fra l’affresco di destra e quello di sinistra sia incentrato sulla dialettica fra nascondimento ed esaltazione e come l’importanza della pubblica venerazione della Croce sia data dal fatto che proprio essa è ciò che ha ridonato quella vita che Adamo aveva perso con il suo peccato.
3/ L’importanza della pubblica venerazione della Croce e il rifiuto dell’idolatria rappresentata da Cosroe
Nel registro in basso, a conclusione del ciclo, stanno le due battaglie: in quella a destra è la sconfitta di Massenzio che annega nel Tevere, in quella di sinistra è la sconfitta di Cosroe del quale si sottolinea l’idolatria, motivo della sua protervia nell’attaccare Gerusalemme e derubarla della reliquia della Santa Croce.
3.1/ La sconfitta di Massenzio dinanzi alla croce, il segno nel quale c’è vittoria
La grande scena a destra con la vittoria di Costantino è preceduta dalla famosa apparizione dell’angelo che mostra all’imperatore il segno - In hoc signo vinces - nel quale c’è vittoria. È il famosissimo notturno di Piero illuminato dal segno della croce luminosa recata dall’angelo dipinto di spalle. La luce dalla croce illumina la scena e mostra l’imperatore ancora addormentato, vegliato da un servitore che guarda chi osserva il dipinto, mentre due soldati stanno di guardia.
La grande descrizione con la battaglia, statica come tutte le immagini di Piero, è volutamente non cruento. Infatti la Legenda aurea vuole che Massenzio non sia stato sconfitto con morti e feriti, bensì che sia annegato per errore nel Tevere con i suoi - lo si vede, a destra dell’affresco, con il suo cavallo che lo trascina in acqua.
Recita così in proposito la Legenda aurea, seguita ancora una volta da Piero, edulcorando la realtà dei fatti che fu invece cruenta:
«La Historia ecclesiastica […] dice che avendo Massenzio invaso l'impero romano, l'imperatore Costantino stava per entrare in conflitto con Massenzio al ponte Albino; agitato da una grande ansia alzava spesso gli occhi al cielo per chiedere aiuto, quando vide come in sogno risplendere nel cielo, verso oriente, un segno luminosissimo e accanto vi erano degli angeli che gli dicevano: «Costantino, in questo segno vincerai». Poi, come dice l'Historia tripartita, mentre Costantino cercava di capire che cosa fosse quel segno, Cristo gli apparve nella notte con lo stesso segno che aveva visto in cielo e gli disse di riprodurlo, perché lo avrebbe aiutato nello scontro. Costantino allora, felice e ormai certo della vittoria, tracciò sulla sua fronte il segno di croce che aveva visto in cielo, trasformò le insegne militari in forma di croce e tenne nella mano destra una croce d'oro. Pregò poi il Signore di far sì che la sua mano destra che teneva la croce non si macchiasse di sangue dei Romani, e che concedesse la vittoria sul tiranno senza spargimento di sangue. Massenzio intanto, per tendere un tranello con le barche, le fece disporre sul fiume come se vi fosse un ponte. E quando già Costantino si stava avvicinando al ponte, Massenzio gli si affrettò incontro con pochi uomini, ordinando agli altri di seguirlo; ma dimenticatosi che il ponte era fittizio, quando vi salì con il suo piccolo esercito cadde nello stesso inganno che aveva voluto tendere a Costantino, sprofondando nel fiume. Costantino allora fu acclamato da tutti imperatore»[11].
La Legenda - e l’affresco con essa - intende mostrare come la vita portata dalla croce non riguardi solo la vita eterna, ma sia divenuta operante in una nuova visione del mondo che si fece strada anche nella trasformazione dell’antico impero romano.
3.2 La sconfitta di Cosroe e dell'idolatria e il Bambino, il Dio che si fa carne
Sulla parete sinistra, invece, è la battaglia con la quale Eraclio sconfigge il persiano Cosroe che aveva derubato Gerusalemme della Santa Croce. Qui i tratti guerreschi sono evidenti, rispetto all’affresco speculare, ma sempre come rallentati dal tipico tratto di Piero. La scena acquista significato dall’evento descritto dal pittore sulla destra: si vede Cosroe ormai prigioniero, mentre Eraclio assume il potere con il gesto imperioso del suo scettro. L’accampamento del re persiano sconfitto mostra, secondo l’ottica della Legenda aurea, i tratti idolatrici del suo potere sottomesso. Sotto la tenda del re, infatti, si vede un idolo a forma di animale issato su di un piedistallo.
Così la Legenda aurea, che Piero riprende, descrive l’episodio:
«L’Esaltazione della Croce è solennemente festeggiata dalla Chiesa, poiché nella croce la fede fu molto esaltata. Nel 615 per volontà del Signore fu concesso ai pagani di perseguitare il suo popolo. Cosroe, re dei Persiani sottomise al suo impero tutti i regni della terra; giunto però a Gerusalemme, se ne tornò via atterrito dalla vista del sepolcro del Signore; tuttavia portò con sé una parte della santa croce che sant'Elena aveva lasciato lì. Volendo essere da tutti venerato come un dio, fece una torre d'oro e d'argento, con gemme incastonate che brillavano; vi collocò un'immagine del sole, della luna e delle stelle, e attraverso delle cannelle nascoste faceva scorrere dell'acqua dal di sopra, come se fosse un dio; nel basamento faceva correre delle quadrighe di cavalli, che davano ai presenti l'impressione che si producesse un tuono. Lasciato il regno al figlio, si mise in quel tempio, lui che era empio, con la croce del Signore accanto a sé, e si faceva chiamare dio. A quanto racconta il Mitrale, Cosroe sedeva in trono come Dio Padre, tenendo la croce alla sua destra al posto del Figlio, e un gallo a sinistra al posto dello Spirito Santo, e impose di essere chiamato padre»[12].
I due affreschi descrivono così il primo affermarsi della Croce e del cristianesimo, a partire dalla “notte” del sogno di Costantino, fino al momento in cui l’occidente recepirà la festa liturgica dell’Esaltazione della Santa Croce, giunta dall’oriente subito dopo la vittoria di Eraclio su Cosroe[13].
È certamente corretta una lettura dei due affreschi che allarghi il loro significato agli eventi drammatici dell’ingiusto attacco turco-islamico a Costantinopoli con la conseguente strage in città, la conversione di tutti gli edifici ecclesiastici in moschee con la distruzione di gran parte del patrimonio artistico, la dispersione del patrimonio librario, l’asservimento della cristianesimo orientale e la fine dell’impero bizantino.
Piero fu a Firenze negli anni in cui l’imperatore di Costantinopoli in persona, accompagnato dal patriarca della città, venne in occidente a chiedere disperatamente l’aiuto militare ormai conscio che senza il massiccio intervento di truppe dei regni europei sarebbe stata la fine per il suo impero. Diversi artisti dell’epoca hanno lasciato testimonianze di tale evento che dovette avere allora un impatto anche emotivo fortissimo, si pensi solo al portale bronzeo di San Pietro, opera del Filarete, che rappresenta la delegazione armena venuta a chiedere aiuto in “Europa” e a Benozzo Gozzoli che dipinse nella Cappella di Palazzo Medici Riccardi i Magi con gli abiti dei dignitari bizantini giunti a scongiurare un intervento salvifico occidentale, dinanzi alla violenza turca inarrestabile. Anche il fatto che Piero dipinga Costantino e tanti altri dignitari del ciclo con copricapi che gli storici dell’arte ritengono di foggia bizantina depone in tale favore. Non si dimentichi che le recenti interpretazioni della Flagellazione di Piero vanno nella stessa direzione[14], dove il Cristo flagellato rappresenterebbe oltre al Cristo reale, anche il cristianesimo perseguitato in oriente dall’islam turco e dove i tre personaggi in primo piano, secondo la rigorosa impostazione prospettica dell’opera, rappresenterebbero l’oriente cristiano (forse tramite la persona del Bessarione) nel personaggio a sinistra e in quello a destra (forse un dignitario latino) il critianesimo d’occidente. Secondo la nostra lettura, invece, il personaggio centrale della Flagellazione non potrebbe che rappresentare un angelo e non una figura storica, dato che è a piedi nudi. I testi letterari ricordano che un tempo il dipinto recava la scritta Convenerunt in unum e, quindi, l’opera potrebbe rappresentare il Concilio di Ferrara-Firenze (1431-1445) che vide, per opera di un aiuto "divino", l’unione dei cristiani d’oriente e d’occidente (unione che poi si rivelerà troppo debole per contrapporsi all’avanzata turco-islamica). Insomma, come la Flagellazione, i due affreschi potrebbero avere anche una valenza politica, memoria dell’attesa di una nuova crociata che era desiderata anche da intellettuali e artisti come Piero che ancora speravano in una possibile liberazione di Costantinopoli dal giogo turco sotto il quale era appena caduta[15].
Anzi i due affreschi della fascia inferiore ad Arezzo potrebbero essere letti, proprio come i due personaggi della Flagellazione in dialogo fra di loro dinanzi all’“angelo”, come la cristianità d’occidente (Costantino) e quella d’oriente (Eraclio) che riescono a trovare vittoria grazie all’aiuto divino dinanzi all’aggressore.
Ma tale sfumatura politica, comprensibile per l’epoca che sperimentava la necessità di difendere i cristiani dall’ingiusta guerra condotta contro di loro dai turchi musulmani, non deve comunque essere considerata centrale nel ciclo di Piero. Se tale valenza fosse stata quella decisiva, egli avrebbe certamente inserito una simbologia più esplicita in merito.
Gli affreschi rimandano, invece, alla celebrazione liturgica della festa dell’Esaltazione della Croce di cui si è detto. Orienta in questa direzione l’episodio che accompagna la sconfitta di Cosroe e che è in parallelo con il segno di Costantino: a sinistra si vede, infatti, l’Annunciazione. L’angelo che reca il segno della croce a Costantino reca invece nell’affresco speculare a sinistra un annuncio ben più grande all’umanità (non si dimentichi che nel “organizzazione sistematica” dell’intero ciclo è la parte sinistra quella più importante, quella che mostra il compimento della vittoria della Croce): è l’annunzio
dell’incarnazione del Figlio di Dio. Gesù viene donato all’umanità.
La chiesa del tempo, i francescani della basilica di San Francesco in Arezzo e Piero con loro, volevano insistere sul dono di quella croce che è legata all’incarnazione umile di Dio nel bambino Gesù e poi nel Crocifisso. Se anche ci fossero state battaglie da combattere e da vincere non sarebbero state quelle a dimostrare la grandezza della vera Croce: sono invece quell’umile Bambino appena concepito e quel povero Crocifisso che dicono la grandezza di Dio in Gesù Cristo, il vero volto di Dio rivelatosi nell’incarnazione a differenza degli idoli venerati da Cosroe.
L’accostamento tra l’Annunciazione e i due affreschi che rappresentano la lotta contro i nemici non dice così la bellicosità di quel concepimento, bensì proprio il suo contrario: qualsiasi avversità mai dovrà degenerare nell’odio, perché quel Bambino annuncia la pace al mondo, ai cuori e persino ai nemici con i quali può essere storicamente necessario combattere.
4/ Il crocifisso medioevale parte integrante del ciclo di Piero
Le Storie della vera Croce con il Crocifisso medioevale
Una domanda si affaccia però allo sguardo innocente del visitatore. Perché rappresentare così tanti episodi della Storia della vera Croce e non rappresentare la Crocifissione stessa?
Basta osservare la posizione della Cappella Bacci per comprendere quale sia al risposta. Non avrebbe avuto senso dipingere la crocifissione, perché la croce era già al centro della chiesa di San Francesco in Arezzo, se si guarda la cappella stessa e con essa l’altare e la celebrazione dal punto di vista di colui che entra in chiesa e partecipa alla liturgia.
Infatti, proprio sopra l’altare sta la Croce attribuita ad un Maestro anonimo ritenuto l’autore anche della Croce di San Francesco a Castiglion Fiorentino - i due crocifissi sarebbero stati realizzati, secondo i critici, nell’ottavo o nel nono decennio del XIII secolo[16] .
Se la si guarda dalla navata si vede che Piero le ha quasi fatto spazio, lasciando che il registro centrale non abbia figure dove si allargano i due bracci della croce. Tutto il ciclo pittorico è come una cornice al Crocifisso stesso che viene esaltato: su quella Croce sta quell’uomo Gesù, resosi debole fino alla morte di croce, colui che restituisce la vita ad Adamo che l’aveva persa anche per noi.
Questa centralità del crocifisso non poteva mancare come non manca in nessuna chiesa. In particolare non può mancare in un edificio francescano per l’amore alla Croce che Francesco insegnò ai suoi. Francesco così insegnava a pregare: «Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, qui e in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo»[17].
Tale presenza della Croce nelle chiese del mondo intero - per Francesco d’Assisi non si dà mai il Cristo crocifisso senza le chiese e, per lui, perdere le chiese avrebbe voluto dire estraniarsi da Cristo stesso - è il motivo dell’intero ciclo di Piero.
Il suo procedere non è innanzitutto narrativo e cronologico, bensì teologico, desideroso di rintracciare i contenuti e i concetti dietro i fatti.
Nelle lunette si attesta che l’albero di vita si è reso vivo nella croce di Cristo e che l’umiltà è la giusta risposta al dono di quell’albero di vita, mentre l’orgoglio impedisce di ricevere quel frutto.
Nella fascia mediana si mostra come l’Antico Testamento sia intriso della memoria di quell’albero di vita, ma, al contempo, lo nasconda, e come l’opera della Chiesa sia invece quello di mostrarne la vivificante presenza nel mondo.
Nella fascia più in basso Piero mostra infine come la croce vivificante abbia operato nella conversione dell’impero romano e nella civiltà che ne è seguita e come la festa dell’Esaltazione della Croce renda gloria a tale dono così straordinariamente ricco, dove la sua potenza non è tale solo a motivo delle vittorie operate sul campo, bensì molto più per l’incarnazione di Dio nel Bambino Gesù.
Note al testo
[1] Il recente restauro si è reso necessario per il deterioramento dovuto ad una serie di eventi naturali e ad altri causati dall’uomo, come la trasformazione in alloggio per soldati da parte dei rivoluzionari francesi ai primi dell’ottocento. Scrive Maetzke che ha diretto i lavori di restauro: «È emerso che ripetuti terremoti nella prima metà del Quattrocento (Arezzo è zona sismica) dissestarono le pareti della Cappella ancora prima che Piero della Francesca vi dipingesse il suo capolavoro. L'artista, dunque, dovette stendere l'intonaco su pareti già lesionate: le stuccò, ma certamente queste rimasero zone a rischio. Nel Cinquecento, poi, la costruzione del campanile, eccessivamente pesante per murature così precarie, provocò ulteriori danni alla struttura muraria, causando abbondanti cadute di parti della scena raffigurante la morte di Adamo, nella lunetta superiore. Altri danni furono determinati da un fulmine e soprattutto dall'incuria di secoli, dovuta al totale disinteresse per il grande maestro di Borgo Sansepolcro; i documenti attestano che mancavano i fondi anche per l'ordinaria manutenzione. E ancora, nel periodo in cui la basilica fu sconsacrata e ridotta a usi profani, l'occupazione dei soldati napoleonici, intorno al 1800, fu la causa di ulteriori ferite inferte agli affreschi, già in condizioni precarie. Il primo restauro del Novecento - realizzato circa mezzo secolo dopo quello del 1856, eseguito dal pittore-restauratore Gaetano Bianchi e limitato a un veloce intervento di integrazione pittorica per le parti mancanti - fu curato intorno al 1911 da Umberto Tavanti per la struttura della basilica e dal restauratore Domenico Fiscali per gli affreschi. Esso fu caratterizzato da iniezioni di grandi quantità di cemento liquido non solo all'interno delle grandi lesioni per consolidare la muratura, ma anche direttamente dietro gli intonaci dipinti e distaccati. Il cemento utilizzato, però, immise nelle pareti grandi quantità di acque cariche di sali che innescarono ulteriormente il fenomeno della solfatazione. Successivamente, a causa dell'inquinamento, si determinò anche un accumulo su tutta la superficie di un notevole deposito di particellato di solfato formatosi nell'aria. La gravità della situazione per la presenza della solfatazione era già ben chiara all'inizio degli anni Sessanta, quando si decise di intervenire nel tentativo di bloccarne l'azione distruttrice con i mezzi allora disponibili. Fu utilizzato un materiale da poco introdotto nelle tecniche di restauro, le resine sintetiche; purtroppo, però, tali polimeri non potevano risolvere il problema, perché non erano in grado di eliminare la causa del progressivo disfacimento degli intonaci dipinti, ma solo di tamponare il fenomeno» (in A.M. Maetzke, Piero della Francesca, in Il Libro dell'Anno 2000, Treccani, 2000, disponibile on-line).
[2] «Gli affreschi, articolati in tre livelli sulle pareti laterali e sulla parete centrale, non sono distribuiti secondo un ordine cronologico: la narrazione non prosegue sempre nella scena vicina ma costringe lo spettatore a seguire il racconto spostando l’attenzione da una parete all’altra. Le scene sono in genere individuate secondo la seguente numerazione [che è quella cronologica!]…» (La Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca e la basilica di San Francesco ad Arezzo (con testi di Paola Refice), Roma, Edizioni Munus, 2017, p. 31. La guida è edita a cura del Polo Museale della Toscana e della Soprintendenza Belle arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo). E ancora: «Sfuggono alla logica del racconto narrativo le due scene del registro inferiore della parete centrale: l’Annunciazione (a sinistra) e il Sogno di Costantino (a destra), così come i due Profeti dei riquadri sottostanti ai pennacchi» (La Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca e la basilica di San Francesco ad Arezzo (con testi di Paola Refice), Roma, Edizioni Munus, 2017, p. 58). Anche Maetzke presenta il ciclo seguendo l’ordine cronologico degli eventi, incapace di rendere conto della sequenza narrativa scelta da Piero e dai suoi committenti (cfr A.M. Maetzke, Piero della Francesca, in Il Libro dell'Anno 2000, Treccani, 2000, disponibile on-line).
[3] Iacopo da Varazze (o Jacopo da Varagine), Legenda aurea, Torino, Einaudi, 1995, p. 380. Vale forse la pena ricordare che la Legenda aurea di Jacopo da Varagine o Varazze, che fu frate domenicano e poi arcivescovo di Genova (dove Legenda è un latinismo che sta per Testo che deve essere letto nel giorno della ricorrenza festiva), è un testo compilativo che raccoglie tutto ciò che il medioevo sapeva o credeva di sapere delle storie dei santi. Esso è la summa conosciuta direttamente o indirettamente da qualsiasi artista posteriore ad essa ed è comunque testimone delle credenze che si tramandavano oralmente riguardo alle storie dei santi e all’origine delle diverse feste liturgiche. I capitoli della Legenda aurea sono divisi a partire dal calendario dell’anno che celebra via via i “misteri” della vita del Signore Gesù o commemora i santi che venivano e vengono celebrati nella liturgia a scadenza annuale. Il termine di composizione della Legenda aurea può essere fissato all’anno 1277, anche se taluni autori ritengono che esistano aggiunte anche successive all’opera (A. e L. Vitale Brovarone, Introduzione alla Legenda aurea, ed. cit., p. XV). Varazze è quasi sicuramente il luogo di nascita dell’autore.
[4] La Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca e la basilica di San Francesco ad Arezzo (con testi di Paola Refice), Roma, Edizioni Munus, 2017, p. 30.
[5] Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, Einaudi, 1995, p. 752.
[6] Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, Einaudi, 1995, pp. 751-752.
[7] Cfr. La Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca e la basilica di San Francesco ad Arezzo (con testi di Paola Refice), Roma, Edizioni Munus, 2017, pp. 50-51.
[8] Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, Einaudi, 1995, pp. 380-381.
[9] Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, Einaudi, 1995, p. 384.
[10] Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, Einaudi, 1995, pp. 384-386.
[11] Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, Einaudi, 1995, pp. 382-383.
[12] Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, Einaudi, 1995, pp. 750-751.
[13] Gli storici della liturgia, nel descrivere l’evoluzione della festa dell’Esaltazione della Santa Croce, fissata al 14 settembre, ricordano come un’antica tradizione collochi già in quel giorno il ritrovamento della vera Croce da parte di Elena e come tale ricorrenza sia divenuta solenne quando nell’anno 335 avvenne la dedicazione della chiesa gerosolimitana dell’Anastasis (come ricorda poi la pellegrina Egeria nel suo Diario di viaggio) fino ad essere trasferita in occidente nel VII secolo sotto papa Sergio.
[14] Cfr. S. Ronchey, L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e le crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro, Milano, BUR, 2006. Anche Maetzke ritiene legittima un’interpretazione che non trascuri le tematiche politiche e l’esigenza avvertita allora in occidente di una crociata contro i turchi per liberare Costantinopoli dal giogo turco: «Così dunque viene 'squadernata' una storia illustrata a uso dei contemporanei, che nata a scopo edificante, assume strada facendo digressioni iconografiche dettate dai grandi temi politici dell'epoca: la caduta di Costantinopoli, l'incombenza della minaccia turca, la necessità di una risposta unitaria con una nuova crociata» (in A.M. Maetzke, Piero della Francesca, in Il Libro dell'Anno 2000, Treccani, 2000, disponibile on-line).
[15] La datazione dell’intero ciclo collima perfettamente con tali ipotesi interpretative posta com’è negli anni immediatamente precedenti al 1466, che è terminus ante quem (vedi su questo, A.M. Maetzke, Piero della Francesca, in Il Libro dell'Anno 2000, Treccani, 2000, disponibile on-line). Ma se fosse vera la proposta di anticipazione cronologica al 1447 come data del termine del ciclo, ipotizzata da Paola Refice in La Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca e la basilica di San Francesco ad Arezzo (con testi di Paola Refice), Roma, Edizioni Munus, 2017, p. 59, nulla cambierebbe in merito perché si sarebbe comunque negli anni immediatamente seguenti alla disperata richiesta bizantina di soccorso contro il feroce nemico ormai alle porte.
[16] La croce ha ai due estremi dei bracci, secondo l’iconografia tradizionale, la Vergine e san Giovanni Evangelista che stettero sotto la croce; ha in alto, a rappresentare la vittoria sulla morte, prima Santa Maria degli Angeli, cioè la Vergine Assunta in cielo, e più sopra, il Cristo risorto. In basso, invece, sta san Francesco d’Assisi che bacia i piedi crocifissi del Signore. Il Cristo è un Christus patiens, cioè “sofferente”, dipinto con l’intenzione di intenerire con il suo dolore, mostrando quanto egli abbia amato.
[17] Francesco d’Assisi, Testamento (1226).