La Bibbia non è semplicemente narrazione e la teologia non può essere semplicemente narrativa. Breve nota di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. le sezione La Parola di Dio nella catechesi e, più in generale, Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (2/10/2017)
Il termine "narrazione", a seguito anche della metodologia dell'"esegesi narrativa", è sempre più utilizzato in contesti educativi da “intellettuali" ed esperti dei media[1]. Con questo articolo non si intende proporre una riflessione onnicomprensiva sulla "narrazione", bensì più semplicemente riflettere su due grandi questioni decisive perché tale prospettiva introduca alla comprensione della Bibbia e non la snaturi. Un'educazione e una catechesi puramente "narrative", porterebbero, infatti, a dissolvere il cristianesimo stesso.
1/ La Bibbia non è semplicemente narrazione, ma è una “grande narrazione”
In primo luogo la caratteristica dei racconti della Bibbia non è semplicemente quella di essere delle narrazioni, bensì di essere delle narrazioni che si inseriscono in una grande narrazione che è quella dell’universo intero che a partire da Genesi giunge fino all’Apocalisse, origina cioè dalla creazione e, attraversando la caduta e passando per l’elezione di Israele, giunge all’incarnazione di Dio in Gesù, per aprirsi all’attesa della parusia.
Nessun autore biblico dei libri storici come dei racconti dei patriarchi, ad esempio, accetterebbe oggi di essere semplicemente considerato un cantastorie o un narratore di singoli e frammentari eventi. Egli pretenderebbe, invece, di raccontare una storia che è sotto lo sguardo di Dio che la guida e che ha una sua finalità e uno sviluppo “grande”, da Saul, Davide e Salomone fino alla caduta di Gerusalemme, o da Abramo fino a Mosè. Più ancora da Adamo e Noè fino al “giorno del Signore”.
Egli si riterrebbe autore del racconto delle “grandi opere di Dio” che non si arrestano neanche dinanzi al peccato di cui macchia l’uomo e l’intero popolo.
Lyotard, l’“inventore” del termine “post-moderno”, ha identificato l’epoca culturale presente con la sfiducia verso le “grandi narrazioni” che avevano invece caratterizzato il “moderno”[2]. Il filosofo francese fece riferimento, con grande acutezza, a quella sfiducia tipica della fine del novecento - e che abita tuttora gli animi agli inizio del XXI secolo - sia nei confronti del progresso scientifico, sia nei confronti dell’idea marxista che la storia proceda verso una maggiore giustizia.
Per Lyotard, l’illuminismo e il marxismo (cioè il “moderno”) avevano convinto le menti delle “grandi narrazioni” della scienza e della giustizia sociale come forze inarrestabili: nell’età “moderna” tutti sembravano convinti, secondo il filosofo francese, che il progresso della scienza avrebbe via via sconfitto le malattie, la mancanza di cibo e la morte (la “grande narrazione” della scienza, capace di conferire un senso alla storia come un procedere continuo verso il meglio, verso la felicità, verso la pienezza) oppure che la lotta di classe avrebbe condotto in breve ad una nuova società dove tutti sarebbero stati giusti, onesti e rispettosi del debole (la “grande narrazione” della lotta di classe come giustizia, secondo la quale la storia avrebbe camminato a grandi falcate verso un mondo che avrebbe sconfitto la corruzione, la ricchezza di pochi, l’iniqua distribuzione economica, rendendo tutti felici).
Per Lyotard tali “grandi narrazioni” si sarebbero ormai rivelate come “miti” superati per l’uomo post-moderno, ormai scettico verso un’evoluzione progressiva della storia verso la felicità personale e collettiva.
L’uomo post-moderno è, infatti, consapevole che il progresso scientifico è in grado di ottenere solo risultati molto parziali e anzi lo sviluppo scientifico e tecnologico crea malattie ecologiche - come l’inquinamento e la rovina del pianeta - e sociali - come la concentrazione del potere tecnologico nelle mani di pochissimi. Ancor più la teoria del Big Crash vuole anzi che l’intera storia dell’umanità vada verso la fine stessa del pianeta e dell’intera specie umana, in un declino irreversibile.
Allo stesso modo il post-moderno ritiene che i potenti siano sempre pronti a lottare per nuovi e accresciuti poteri e la storia non proceda assolutamente verso una giustizia sempre maggiore, ma anzi sia sempre in agguato la catastrofe dell’ingiustizia fino al conflitto bellico. La sfiducia sul fatto che mai si possa dare una politica giusta ed un vero rispetto dei diritti dei più deboli caratterizza il post-moderno: più si lotta per tali diritti, più si diviene convinti nel profondo che le diseguaglianze siano, in fondo, impossibili da eliminare.
Alla fiducia nel “moderno” che esaltava la ragione e il senso di giustizia degli uomini, si oppone il post-moderno che è invece un tempo di scetticismo e di incertezza su ogni dimensione positiva del reale.
Per Lyotard - e per il post-moderno - non resterebbe che narrare storie individuali, sempre parziali e frammentarie, sempre incapaci di rivelare un senso complessivo del vivere e dell’esistere. Le “grandi narrazioni”, ormai impossibili, sarebbero destinate quindi a lasciare il posto alle “piccole narazioni” o addiritura - si potrebbe aggiungere oggi - alle micro-narrazioni.
Ecco perché si pone in taluni autori uno iato incolmabile fra narrazione e teologia, fra racconto e verità, fra fatto e dogma, fra singole scelte e comandamenti morali. La “grande narrazione” veniva raccontata proprio perché la persona scoprisse il significato della sua storia all’interno della “storia” stessa: lo scienziato come l’operaio erano in lotta, fino a pensare addirittura al sacrificio della propria esistenza, per raggiungere qualcosa di più grande e universale, il bene dell’intera umanità.
Esisteva, pertanto, non solo la frammentarietà della storia individuale, ma anche la verità, la giustizia, il senso, il dovere, il futuro, la certezza. La “narrazione” non era l’antitesi della”verità”, bensì era sostenuta dalla verità stessa della storia e del suo sviluppo verso il bene, che aveva consistenza.
La rinuncia, invece, alla “grande narrazione” fa sì che la “narrazione” - in età post-moderna e non più moderna - possa essere vista come antitesi di una visione globale dell’esistere. Quasi che il frammento fosse l’antitesi del tutto e non si potesse dare il tutto nel frammento. La verità, il bene morale, il futuro, l’oggettività, la fede stessa, possono essere viste, nel post-moderno e solo in esso, come qualcosa di insignificante per la “narrazione” o addirittura come il nemico che impedirebbe al racconto di essere se stesso senza alcun vincolo e senza alcuna prospettiva.
Ma risulta evidente che non è la narrazione stessa ad opporsi alla verità, al significato, al senso morale, al dogma, alla fede, ad una visione di lungo periodo della storia, bensì è il post-moderno!
Esiste una narrazione che non è post-moderna che va a bracceto con il dogma, la verità morale, la fede, il senso, la prospettiva: l’esodo è una narrazione che confessa l’unico Dio, il suo agire in mezzo agli uomini, il rifiuto dell’idolatra, l’importanza dei comandamenti, la certezza che la vita abbia un senso, la centralità del rito e così via.
Tutta la Bibbia non è solo una “narrazione”, bensì è una “grande narrazione”: pretende che l’intera storia abbia un significato e che sia guidata dall’unico Dio profondamente diverso dagli idoli. Il racconto biblico è profondamente diverso dalla narrazioni frammentarie che caratterizzano i quotidiani, i TG e i giornali scandalistici che si impossessano della storia di un uomo e la dissezionano per qualche giorno per gettarla poi nel dimenticatoio. La Scrittura afferma che tutto ha un senso in un piano divino che abbraccia provvidenzialmente ogni evento. La storia biblica è carica di fiducia e di attesa verso la presenza dell’unico Dio che rivela se stesso e salva dal peccato e dalla morte.
Già da questo punto di vista la narrazione biblica è l’annuncio di una verità onnicomprensiva: tutto ha origine dal Dio creatore che rivela pienamente il suo amore nell’incarnazione e che nel giudizio finale giudicherà e salverà il mondo (cfr. su questo A. Lonardo, La bellezza originaria. I racconti della creazione nella Genesi, Castel Bolognese, Itaca, 2017).
La consapevolezza che gli autori biblici hanno di appartenere ad una grande narrazione è evidente, poi, nel modo in cui essi elaborano sempre nuove riletture delle narrazioni passate, ad esempio quella dell’esodo[3]. Nel linguaggio profetico, la storia presente è vista alla luce di “quella” prima Pasqua già avvenuta, ripetutasi poi al passaggio del Giordano e via via sempre di nuovo in atto (dove la storia è sempre impastata di fede e di teologia, perché mai un evento è semplicemente puntuale, bensì si rivela via via strutturale).
Le riletture veterotestamentarie della narrazione sempre divengono convinzioni di fede che strutturano la visione della vita personale e del mondo sociale: non c’è mai racconto senza verità morale e dogma (a differenza del post-moderno).
Le innumerevoli riletture ebraiche dei fatti del passato hanno ulteriormente un culmine: in Gesù (e nel Gesù storico), come in tutto il Nuovo Testamento, l’esegesi tipologica[4] conferisce un senso ancora più peculiare alle narrazioni antiche: nella tipologia, la tipica lettura che Gesù propone delle Scritture come di parole che già parlano di lui - come “tipo”, come ombra, come pre-figurazione di lui -, ogni episodio veterotestamentario non è solo “fatto” e “racconto” a sé stante, bensì è anticipazione della sua presenza in mezzo agli uomini. Gesù è la verità delle Scritture, Gesù è la Parola che interpreta le Parole.
Tutta la Scrittura appare così ancor più come un’unica narrazione che prepara l’evento centrale della storia, vero, buono e bello.
2/ I diversi generi letterari della Bibbia che spaziano dalla narrazione all’inno, dalla confessione di fede ai proverbi, dalla riflessione sapienziale alla poesia
Esiste un altro aspetto del linguaggio biblico che viene passato sotto silenzio dai divulgatori (non dai maestri) della teologia narrativa e dell’esegesi narrativa. Una banalizzazione pastorale della “narrazione” biblica può dimenticare, infatti, facilmente che nella Bibbia si trovano fianco a fianco il linguaggio narrativo e quello innico, quello della confessione di fede e quello dei proverbi, quello della riflessione sapienziale e quello poetico, quello della istruzione morale e della parenesi e molti altri ancora.
Se qualcuno restringesse banalmente la Bibbia ai testi narrativi dovrebbe eliminare, solo per fornire qualche esempio, il Cantico dei Cantici, i Salmi, la lettera ai Romani, il Prologo di Giovanni, la lettera agli Ebrei, i libri sapienziali e così via.
Ciò che è, invece, assolutamente interessante è che la Sacra Scrittura annunci la grandezza di Dio con linguaggi complementari e ciò che è vero per la narrazione è vero a sua volta per le confessione di fede del Deuteronomio o delle lettere paoline, è vero negli inni dei Salmi, è vero nella riflessione sapienziale di Giobbe, è vero per i testi poetici come il Cantico, è vero nell’insegnamento morale sull’ospitalità dello straniero e la cura del debole, e così via.
Il riferimento monotono e monocorde al linguaggio narrativo è un impoverimento del linguaggio biblico. Se invece la “narrazione” mostra come le stesse realtà che lei racconta si esprimano contemporaneamente e contestualmente nell’inno, nella confessione di fede, nella parenesi, nel comandamento, nella bellezza poetica, ecco che la “narrazione” biblica risplende all’interno della Scrittura e apporta il suo contributo specifico e non opponentesi.
La teologia che “confessa” non nasce dopo il Nuovo Testamento, bensì insieme ai quattro Vangeli: la fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito è celebrata nel Battesimo che viene amministrato mentre si stanno scrivendo i racconti evangelici. Il Credo battesimale e il racconto della vita di Gesù sono coevi e coessenziali e non cronolgicamente successivi e opponentisi.
Si pensi anche all’importanza della Lettera ai Romani - uno dei testi fondamentali di tutto il pensiero cristiano da Agostino alla Riforma - che mostra come esista uno sguardo sintetico che solo una riflessione sistematica può offrire, che però non si oppone minimamente al racconto d tutta intera la storia della salvezza, da Adamo a Cristo. Non un aut/aut, bensì un et/et. Paolo, in Romani, vuole mettere in luce la realtà dell’uomo e della sua condizione di peccato, così come la verità di Dio e del suo disegno di misericordia realizzatosi nel Cristo.
La stessa espressione “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16) è una formulazione sintetica di espressività unica, che non si oppone al racconto della vita del Cristo, così come tale “narrazione” non si oppone all’annuncio “sintetico”.
Rosmini, in un suo prezioso scritto, ebbe a sottolineare che l’articolazione della fede ha tre registri sempre interconnessi, fin dalle origini: il linguaggio della storia della salvezza che racconta di Israele e di Gesù, il linguaggio dell’anno liturgico e dei suoi riti che celebra tale racconto, il linguaggio dogmatico che lo esprime in sintesi. I tre registri sono necessari gli uni agli altri, come forme complementari per comprendere, vivere e trasmettere la stessa realtà[5].
Note al testo
[1] Ad esempio, la recente pubblicazione del libro La teologia narrativa di papa Francesco di Gian Enrico Rusconi (G.E. Rusconi, La teologia narrativa di papa Francesco, Roma-Bari, Laterza, 2017) ha suscitato grandi polemiche. In questa breve nota, comunque, non si intende assolutamen te entrare nel merito di ciò che l’autore afferma, a torto, di papa Francesco: si intende invece riflettere sul posto della “narrazione” nel linguaggio biblico.
[2] Cfr. su quanto segue J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 2006 (originale 1979), pp. 5-13.
[3] Cfr. su questo L. Alonso Schökel, Salvezza e liberazione: l’Esodo, Bologna, EDB, 2016.
[4] Sulla centralità della lettura tipologica per comprendere le narrazioni bibliche, cfr. M. Magrassi, Tipologia biblica e patristica liturgia della Parola, in “Rivista Liturgica” n. 53 (1966), pp. 165-181; A. Lonardo, Il Dio con noi. Piccola cristologia del buon annunzio, Cinisello Balsamo, San Paolo, pp. 138-144; S. Cavalletti, La storia del regno. Dalla creazione alla parusia 1, Tau editrice, Todi, 2009, pp. 21-27; S. Cavalletti, Il potenziale religioso tra i 6 e i 12 anni. Descrizione di una esperienza, Città Nuova, Roma, 1996, pp. 72-76; 90-91. Più recentemente P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento. Saggio di lettura, Brescia, Paideia, 2000; P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento. 2. Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001; P. Beauchamp, Testamento biblico, Magnano-Bose, Qiqajon, 2007. Su P. Beauchamp e la sua lettura “teleologica” delle Scritture cfr. anche R. Vignolo, Nel solco di Paul Beauchamp - Deuterosi, tipologia, e compimento - ovvero: la riscrittura biblica come poetica della Parola di Dio, disponibile on-line; Y. Simoens, Paul Beauchamp, 1924-2001, disponibile on-line.
[5] Cfr. su questo A. Lonardo, Catechesi narrativa, liturgica o a partire dal Credo? La lettera di Antonio Rosmini a don Giovanni Stefani di Val Vestino ed una importante questione per l’odierno rinnovamento della catechesi. Un passaggio del Direttorio generale per la catechesi del 1997, il documento di riferimento per la catechesi elaborato durante il pontificato di Giovanni Paolo II, così si esprime a riguardo della necessità di quello sguardo sintetico che l’annuncio della fede deve proporre e che l’uomo stesso esige per comprendere cosa siano la vita ed il vangelo: «La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede» (DGC 128).