Note su forza e debolezza pastorale. A partire da Evangelii Gaudium, di Francesco Botturi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 21 /05 /2017 - 23:31 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo per gentile dell’autore l testo della relazione tenuta il 22/3/2017 in occasione del seminario di studio organizzato dalla CEI su "Evangelii Gaudium: annuncio e catechesi”, tenutosi presso the Church Palace in Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (21/5/2017)

1. Forza dell’antropologia dell’incontro a fondamento della svolta pastorale, perché incentrata su un “esistenziale” fondamentale, vivo e dinamico dell’uomo (cfr. Guardini)

Debolezza circa la “tenuta” della dinamica dell’incontro, circa il finalismo antropologico complessivo inaugurato dall’incontro. L’incontro non è solo apertura, condivisione, solidarietà, ma anche profezia del compimento dell’umano.

L’idea dell’incontro è centrale nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium. La missione, infatti, ha al suo cuore la testimonianza di un incontro reale e personale con Cristo, che si comunica a sua volta nell’incontro con altri. L’incontro, infatti, è la forma principale di autotrascendenza del soggetto, che nell’esperienza della fede è insieme apertura verticale al Padre e apertura orizzontale ai fratelli, in Gesù Cristo punto di intersezione della sua struttura a croce. Ma questa è la struttura anche di ogni autentica umanità: ogni uomo proviene da un incontro che l’ha generato e da una trama di incontri che l’ha educato e l’ha reso a sua volta capace di incontrare.

È proprio questa idea di incontro che sembra stare all’origine del «dinamismo di “uscita”» a cui il Papa esorta la Chiesa. Egli scrive in un passaggio sintetico: «Solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. Giungiamo a essere pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiugiamo il nostro essere più vero. Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice» (n. 8). L’incontro, dunque, sta a fondamento dell’azione missionaria per il tramite della testimonianza personale.

La struttura antropologica dell’incontrare secondo Evangelii Gaudium sembra pensatain un modo molto prossimo alla riflessione in proposito di R. Guardini. In un suo breve passo troviamo il centro di tale riflessione: «L’uomo è creato – scrive Guardini – in modo tale da essere innanzitutto dato a se stesso in “forma-di-inizio”; in un’apertura e predisposizione verso ciò che gli verrà incontro. Se egli si blocca, e si irrigidisce, se resta chiuso in se stesso; se non corre mai il rischio di disporsi nell’atteggiamento di dedizione alla realtà, allora diventerà sempre più rigido e misero. Egli ha “conservato per sé la propria anima” e così l’ha sempre più “perduta”»[1]. Sono parole oggettivamente molto prossime al pensiero di papa Francesco, nelle quali si coglie bene che cosa significhi che l’umanità dell’uomo si giochi nell’incontro.

L’uomo è dato a se stesso: dunque, è se stesso (in possesso di sé), ma è anche dato (derivato e dipendente) da altri; cosa di cui porta il sigillo nel trascorrere della sua esistenza stessa, che non è data a se stessa tutta in una volta, come una realtà compiuta, ma esiste piuttosto “in forma-di-inizio”. L’uomo insomma non solo è in possesso della sua esistenza come ricevuta, ma la riceve come da portare a compimento, cioè come data e non-data insieme, come mai data per intero. Situazione antropologica fondamentale e paradossale, dalla quale si intende quanto sia irreale e menzognera ogni pretesa di autonomia radicale e individualistica e quanto siano decisive per la coscienza di sé la questione dell’origine e quella della relazione.

L’incontro è qui indicato come via normale sulla quale l’incompiuto umano trova l’occasione della sua realizzazione: l’uomo è “apertura e predisposizione verso ciò che gli verrà incontro”. La casualità dell’incontro nulla toglie al fatto che esso sia qualcosa verso cui l’uomo è costitutivamente aperto e predisposto, come a ciò di cui egli ha essenzialmente bisogno.

Ma così l’incontro svela la sua essenziale e anche inquietante gratuità. L’incontro è più precisamente – ci dice Guardini – “venire incontro”, av-venimento, che potrebbe anche non succedere. Per questo egli dice anche che «un autentico incontro non può essere “prodotto”» e che «le realtà essenziali – piuttosto – devono essere donate. Non possono essere né “pretese” di diritto, né estorte a forza, ma devono concedersi da sé o venir donate»[2].

Di conseguenza, afferma ancora Guardini, «l’uomo sta, per essenza, nel dialogo, La vita del suo spirito è orientata, costitutivamente, alla partecipazione». Ma questo, ancora una volta, è cosa paradossale, se la si riferisce all’essere persona, che di per sé dice invece «autosussistenza», «autoappartenenza» e, sotto il profilo della libertà, «autoiniziativa». «La persona è spirito che possiede se stesso», eppure ha bisogno di altri per realizzarsi, per vivere da persona e giungere ad essere la persona che è: è vero che la persona in quanto tale «non nasce dall’incontro, ma si attua solo nell’incontro»[3].

Ma è proprio questa paradossalità che esprime la peculiarità dell’essere umano e il mistero ultimo dell’identità-differenza antropologica e metafisica: ogni cosa è se stessa, ma nessuna basta a se stessa; nell’uomo si dà un vertice di tale tensione tra medesimezza e alterità, che fa dell’uomo una identità aperta, una singolarità relazionale, un soggetto strutturalmente “re-ligioso” (essenzialmente re-ligato, direbbe Zubiri), un luogo di incontro e, in ciò stesso, un’immagine di Dio unità trinitaria.

Ora, per la sua incarnazione il Verbo di Dio è venuto a vivere questa logica dell’incontro, indispensabile e casuale insieme, l’ha riconosciuta come sua e ne ha fatto il luogo della sua comunicazione: tutte le sue parole e tutti i suoi gesti, la sua esistenza intera hanno la forma dell’incontro con la sua persona. La rivelazione ha la forma dell’incontro. Dio si è fatto “incontrabile”, perché il Figlio è venuto incontro all’uomo.

La forza di questo sguardo profondo e concreto dell’uomo può essere insidiato dalla debolezza di una visione che non tenesse conto del fatto che l’incontro è il luogo antropologico di un inizio di realizzazione che non si conclude in se stesso, ma invoca un compimento. L’incontro è l’occasione delle possibilità ricevute per il cammino di realizzazione. Esso perciò è in intima relazione con il desiderio umano di felicità. Non si incontra per incontrare e per avere consolazione, ma per misurarsi con il fine ultimo, termini cristiani per partecipare alla “vita eterna”, per ricevere il dono definitivo della “resurrezione”.

La debolezza può insidiare la forza qualora il grande tema dell’incontro fosse interpretato in termini esclusivamente metodologici e pragmatici; analogamente a quanto avviene spesso con il tema attiguo del dialogo, come se questo fosse fine a se stesso (confondendolo così con una sorta di pattuizione consensuale), mentre esso è in funzione della ricerca collaborativa (ancorché dialettica) della verità. Similmente l’incontro è a servizio della realizzazione umana in cerca del suo compimento; esso perciò ha bisogno di una considerazione intera della persona, che orienta dal suo desiderio alla felicità. Allora annunciare significa anche farsi carico di tutto ciò che la fede permette di comprendere e di sperimentare circa il fine ultimo dell’uomo: potremmo dire circa la sua ontologia finale, “gloriosa”, perché questo getta luce su tutti gli aspetti dell’homo viator. Domandiamoci se la pastorale comune non si fermi spesso molto prima, a livello di atteggiamenti morali: apertura, dialogo, accoglienza, ecc., senza andare al fondo della rivelazione, la resurrezione, il compimento escatologico dell’uomo, la ricapitolazione e trasfigurazione della sua esistenza, la “nuova creazione”, la vita nello spirito, ecc.

2. Forza della transculturalità del farsi incontro, che con la sua radicale semplicità antropologica evita di pregiudicare l’annuncio esponendolo a pre-giudizi culturali o ad opzioni pratiche: l’incontro è un’offerta fatta direttamente alla libertà.

Debolezza, comunque, del peculiare condizionamento del contesto culturale postmoderno ad esito nichilista, che ha un tenace potere pervasivo e influenza capillarmente l’opinione pubblica, sempre più globale, ed orienta le agenzie dedicate a governare il senso comune (soprattutto nel grande ambito della comunicazione). Qui domina una cultura dell’individualismo autoreferenziale (narcisista), avverso alle dinamiche relazionali e generative (particolarmente evidente nelle questioni relative all’identità antropologica e alle relazioni primarie), che ha un inedito potere di “svuotamento” dei significati e delle esperienze. Una condizione che non va data per scontato o trascurata, ma giudicata.

Ripartire dall’incontro si rivela essere una scelta particolarmente avveduta in un contesto culturale secolarizzato. Infatti, il dissenso della tradizione ecclesiale circa alcuni esiti tipici della secolarizzazione ha l’effetto sociologico non solo di identificare la Chiesa con posizioni dottrinali negative e poco comprensibili all’opinione pubblica, ma soprattutto di velare il nucleo vitale dell’annuncio e della fede. Il cambiamento di piano riapre, invece, il gioco a partire da ciò che è a misura dell’interesse esistenziale di ogni essere umano come tale.

D’altra parte, questa rinnovata forza di presenza e di annuncio sarebbe indebolita se non si accompagnasse anche con la capacità di giudicare in modo adeguato la contemporaneità culturale, che presenta dei caratteri peculiari, pervasivi e corrosivi.

Se è vero che è in corso un “cambiamento d’epoca”, allora è necessario comprendere (anche pastoralmente) di che cosa si tratti[4], ben sapendo che ciò comporta diffuso disorientamento e strutturale fragilità. Ora, è chiaro in generale che il passaggio d’epoca riguarda i macrofenomeni della rete mondiale delle varie tecnologie, della globalizzazione finanziaria e commerciale, dei cambiamenti geopolitici, delle migrazioni, della crisi delle identità nazionali e degli apparati politici e, in tutto ciò, dello spostamento del baricentro dei grandi poteri (temi toccati dell’enciclica Laudato si’). Ma tutto ciò assume una coloritura specifica dal fatto che in concomitanza con questi fenomeni l’esito della secolarizzazione moderna sia in diverso grado e modo incline al nichilismo.

Se la storia tra XIX e XX secolo fu caratterizzata dalla curvatura ateistica della secolarizzazione, accompagnata in gran parte dal progetto globale di sostituzione del cristianesimo con un nuovo umanesimo scientifico, sociale, politico, la sua curvatura tra XX e XXI secolo si caratterizza invece come nichilista. Falliti i grandi progetti ideologici dell’umanesimo ateo, l’ateismo evidenzia tutta la sua impotenza a essere costruttore di civiltà. L’ateismo da una parte è apparso dotato della forza di una macchina da guerra, dall’altra induce una debolezza culturale mortale, perché sottrae fondamento a ogni verità e valore. L’ateismo, infatti, non consiste solo nella negazione del Dio della tradizione religiosa (principalmente cristiana), ma azzera il credito nei confronti di qualunque idea di Origine, Fondamento, Fine, che dia un senso alla realtà che non dipenda dalle nostre opere.

In breve l’ateismo è stato un’efficace introduzione del nichilismo, che in un certo senso non è che la presa di coscienza dell’abbandono dei fondamenti già operato della cultura europea[5]. La peculiarità del nichilismo, perciò, consiste non nell’essere una nuova teoria o ideologia, ma di essere la coscienza della vacuità di ogni impegno teorico o pratico per la verità o per il bene, dal momento che l’intera vicenda della modernità e dei suoi fallimenti mostra il nulla di senso di ogni idea di unità, di totalità, di ordine, ecc. Come ha scritto acutamente un autore importante del nichilismo contemporaneo come G. Deleuze, se fino allora il dibattito si era svolto tra l’affermazione di Dio e la pretesa dell’uomo di prenderne il posto, ora si è passati a negare il posto.

Se queste possono apparire diatribe intellettuali, in realtà vi sono innumerevoli e sempre più vaste corrispondenze con la vita individuale e sociale della società postmoderna globalizzata. Quando vari osservatori della nostra esistenza parlano di società liquida; di frammentazione dell’esperienza, anzi del suo separarsi in schegge non più ricomponibili; di mondo modellato sulla rete (illimitatamente estensibile, senza centro e senza gerarchie, in cui tutto sta con tutto); di un vissuto senza strutture stabili ma simile a un susseguirsi di flussi emotivi, informativi, culturali, finanziari, ecc.; di identità deboli e manipolabili; di soggettività autoreferenziali e narcisiste; di relazioni instabili e violente; di solitudine e indifferenza o di aggregazione e conformismo, allora, insieme ad altri condizionamenti psichici e sociali, si deve supporre anche l’influenza di un ampio sottofondo culturale che non fornisce più ragioni a favore dell’identità e della relazione, della singolarità e della comunanza, dell’esperienza e dell’apertura oltre se stessa, dell’uso del mondo e della ricerca di senso, ecc. Dal che si comprende come, se è vero che il nichilismo non è l’orizzonte culturale esclusivo del nostro tempo, tuttavia abbia un’influenza “ambientale” formidabile.

Dunque, siamo partecipi di un’umanità dedita alla trasformazione pratica del mondo, meglio del globo tecnologico, economico e finanziario, sullo sfondo di una insensatezza che vuol dire una cosa abbastanza precisa, ovvero che i criteri della trasformazione hanno ben poco a che fare con un’idea intera di uomo, di promozione equilibrata dei popoli e di giustizia equa, perché ormai la figura umana di riferimento è dileguata; e che ciò che resta è il prevalere del potere e quindi del conflitto dei poteri, che porta a concepire il mondo e gli esseri umani che lo popolano come un grande campo sperimentale per volontà che non hanno in ultima istanza altra regola che se stesse. Lo sperimentalismo bioingeneristico contemporaneo, soprattutto nell’ambito della genetica umana, è un esempio eloquente del fatto che la tendenza prevalente e invadente è quella di realizzare tutto il potere tecnico disponibile anche sul corpo vivo (e l’anima) dei propri simili. Si direbbe che il tipo antropologico prevalente oggi cerca di compensare col fare e con lo sperimentare il vuoto di senso e l’assenza di orientamento in cui è immerso.

Un recente volume di P.A. Sequeri, intitolato in modo perfettamente suggestivo, La cruna dell’ego. Uscire dal monoteismo del sé[6], aiuta a proseguire la diagnosi d’epoca. Secondo l’Autore la libertà dei moderni si è trasformata nella «costellazione narcisistica dell’autorealizzazione», in cui l’amore di sé divenuto direzione dominante dell’esistenza alimenta «l’illusione dell’auto-realizzazione come auto-generazione», che si traduce prosaicamente in illimitata auto-disposizione (le cd teorie del gender, autodeterminazione della identità sessuale, e relativi progetti educativi per le nuove generazioni ne sono un esempio eloquente). Con un corollario assai importante, ovvero che questa esasperazione autoreferenziale è direttamente proporzionale alla sparizione psicologica dell’altro reale, che o trova un qualche spazio nel progetto dell’autorealizzazione di qualcun altro oppure è destinato a essere strumentalizzato, espulso o soppresso (logica sottesa a tragedie ormai endemiche come abortismo, femminicidio, bullismo).

La questione, dunque, è radicale e globale. Ma di questo non sembra esserci una coscienza diffusa. Si ha la percezione naturalmente di un mondo scomposto, incerto e attraversato da fenomeni preoccupanti, ma non si hanno chiavi sintetiche di giudizio che tentino di rappresentare in modo ragionevole le componenti, le relazioni, le corrispondenze in modo tale da avere dei quadri di riferimento per la coscienza e per l’azione. Questa coscienza culturale serve per non subire la condizione storico-culturale, ma poterla vivere attivamente, che corrisponde anche all’evitare l’altrimenti inevitabile effetto di svuotamento delle categorie evangeliche. Non è spontaneo vivere e far crescere stabilmente una cultura dell’incontro in un contesto culturale tecnocratico-funzionalista e individualista-narcisista. Se le si giustappone, la cultura dell’incontro diventa privatistica e marginale. Al contrario, è indispensabile che la cultura dell’incontro viva né sulla difensiva, né all’attacco, ma al lavoro.

3. Forte è il dinamismo “in uscita”, che spezza il circuito vizioso dell’autoreferenzialità e libera dal complesso dell’assedio e della conquista. Le energie sono così mobilizzate per incontrare e annunciare.

Debolezza di sottovalutare l’importanza di coniugare il movimento dell’uscita con la quiete della dimora, che non è l’antitesi dell’uscita, ma ne è la polarità, che equilibra entrambi. Il salmo 83 celebra il cammino e la dimora. Paolo viaggia e fonda comunità. L’incontro di uomo e donna si concretizza nella famiglia, centro generativo di nuovi invii e nuovi incontri, ecc. L’uomo nomade del mondo globale ha un grande bisogno di stabilitas, in cui alimentarsi ed educarsi.

Questa terza considerazione consegue alle precedenti. Constata una forza positiva e riflette su una riserva propositiva. Qui è in questione il dinamismo dell’uscita, che è intrinseca alla dimensione dell’incontro: non si può incontrare senza accettare di uscire verso. Questa autotrascendenza libera dall’autoreferenzialità e salva dall’implosione dell’individualismo.

D’altra parte, questo forte riavvio pastorale dell’esperienza si mantiene nella misura in cui l’uscire si correla al polo del dimorare. La cosa si chiarisce se si chiarisce che la Chiesa propriamente non ha da uscire-da sé, ma ha da essere in uscita-in sé e che quindi contiene in sé sia l’uscire che il dimorare: esce per dimorare (tra gli uomini) e dimora per uscire (verso gli uomini); come dice il salmo «beato chi abita la tua casa […]; beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio» (83, 5-6).

Tale dimora è in concreto la comunità in cui l’incontro trova i tempi lunghi della cura, della custodia, della formazione, senza dei quali l’uscire non solo rischia di esaurirsi, ma anche di non raggiungere il suo scopo che è quello di incontrare altri affinché l’esistenza cambi sé e le proprie relazioni; che faccia dei dispersi un popolo unificato dall’avere in comune (communitas da cum munus) il medesimo Signore e quindi un popolo capace di costituire dimora accogliente, di animare comunità di soggetti reali, come famiglie, scuole, luoghi di ospitalità, ecc. Comunità di vita, comunità generative sono forse cosa particolarmente buona in un mondo che si struttura sempre più come globo tecnocratico.

Note al testo

[1] R. Guardini, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, antologia cura di C. Fedeli, La Scuola, Brescia, 1987, p. 46 (corsivi miei). Il brano è tratto da R. Guardini, Die Begegnung. Aus einer Ethikvorlesung, M. Grünewald, Mainz 1955. Cfr. F. Botturi, Nuova evangelizzazione e cultura dell’incontro, in “La Rivista del Clero italiano”, 12 (2015), pp. 861-871.

[2] Ibi, pp. 37 e 38.

[3] Ibi, pp. 187 e 188, 61, 196.

[4] Cfr. Evangelii Gaudium, n. 51: «esorto tutte le comunità ad avere una “sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi” (Paolo VI, Ecclesiam suam 19). Si tratta di una responsabilità grave. Giacché alcune realtà del presente, se non trovano buone soluzioni, possono innescare processi di disumanizzazione da cui è poi difficile tornare indietro. È opportuno chiarire ciò che può essere un frutto del Regno e anche ciò che nuoce al progetto di Dio».

[5] Cfr. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2006.

[6] Vita e Pensiero, Milano 2017.