I Musei egizi contemporanei e la questione della schiavitù nell’antico Egitto in relazione all’Esodo. Una nota brevissima e non onnicomprensiva, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per pprofondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura e l'articolo Il Museo egizio di Torino. Una introduzione alla visita, di Gian Luigi Prato. Per approfondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (19/3/2017)
Tempio di Hathor a Timna, presso le miniere di rame
Due diverse docenti mi hanno raccontato di essersi sentiti rimproverare da guide di due musei egizi italiani, uno di chiara fama a Torino, l’altro ospitante una collezione minore, perché - a loro dire - sarebbe ora di farla finita “con la storia della schiavitù in Egitto”. Le due guide affermavano che il lavoro servile nell’antico Egitto sarebbe una diceria smontata dalla moderna egittologia e che tale perpetuazione dell’ignoranza del dato storico sarebbe dovuta alla catechesi parrocchiale.
Mi permetto due precisazioni.
Innanzitutto non è chiaro perché una guida si permetta di prendersela con la catechesi parrocchiale. Mi domando cosa direbbe se avesse dinanzi una scuola ebraica o un gruppo musulmano in visita, poiché ebraismo e islam affermano anch’essi - ovviamente l’ebraismo prima del cristianesimo e l’islam dopo di esso - la rilevanza del racconto dell’Esodo.
Mi domando, così, pour parler, cosa direbbe la stessa guida ad un gruppo di sud-americani formatisi sui commenti dei teologi della liberazione all’esodo o cosa direbbe a Spielberg sul Principe d’Egitto, prodotto dalla DreamWorks Animation, fondata da Jeffrey Katzenberg, Steven Spielberg e David Geffen.
So bene, da biblista, delle enormi questioni sollevate dal racconto dell’esodo dal punto di vista storico: ma, proprio per questo, liquidare così la discussione fra gli esperti che stanno cercando una via equilibrata che non trascuri le tradizioni trasmesse a voce, che traspaiono nei libri profetici, e i dati del Pentatuco, porta al risultato di eliminare, senza nemmeno dare il sentore di rendersene conto, il valore supremo di quel testo che ha illuminato e illumina il cammino dell’umanità.
In secondo luogo, il problema storico della narrazione dell’Esodo non consiste certamente nella questione della schiavitù. Infatti, l’egittologia moderna, così come gli studi sul vicino oriente antico per gli altri popoli dell’epoca, confermano il fatto dell’asservimento di persone per diversi motivi, a partire dalla sconfitta in guerra. Taluni dei lavoratori alle grandi opere edilizie dei faraoni erano sottoposti a pagamento ed erano persone libere, altre erano schiavi obbligati a quelle tournées che non avrebbero mai intrapreso se fossero stati liberi.
Lo spiega bene l’egittologa Edda Bresciani nel suo dizionario della civiltà egizia[1].
Alla voce “Lavoro”, spiega, dopo aver trattato del lavoro libero:
«I forzati erano elementi base delle frequenti spedizioni che i faraoni inviavano in territori lontani al fine di procurare pietre da costruzione, legnami, metalli e minerali. Le mete più frequenti erano lo Uadi Hammamat e il Deserto Orientale nubiano per l'oro; il Sinai per il rame, la malachite e la turchese; la costa del Mar Rosso per la galena. Guidate da un generale in capo o dallostesso visir, le spedizioni annoveravano tra i loro componenti dirigenti, artigiani specializzati (scalpellini, scultori, disegnatori) e un gran numero (sino a superare le 15.000 persone) di manovalanza generica, costituita per lo più di gruppi di forzati (hsbw),di disertori (tšjw)e di prigionieri di guerra. Sulle pareti delle tombe dei funzionari amministrativi si leggono spesso i resoconti delle spedizioni guidate per conto del faraone alle lontane cave di pietra e alle miniere; nei luoghi stessi meta delle spedizioni sono stati trovati i resti della lavorazione del materiale, le capanne che ospitavano i lavoratori e i loro grafiti. Abbiamo documenti che attestano le notevoli diversità di salario per ogni membro della spedizione (come nel caso di una spedizione alle cave dello Uadi Hammamat comprendente 18.000 uomini): la maggior parte dei lavoratori di fatica ricevevano una misera paga. In caso di fuga o di diserzione la punizione era quella del lavoro forzato a vita. Del resto, quello di schiavitù era un concetto che non fu mai sentito nella cultura egiziana come una condizione stabile e definitiva. Sin dall'Antico Regno (2700-2195 a.C.), in effetti, gran parte della popolazione agricola era soggetta a una specie di lavoro forzato inteso come prestazione comunitaria: il contadino "dipendente" (mrj)veniva regolarmente reclutato per la corvée al servizio dello Stato»[2].
Alla voce “Servitù” afferma ancora:
«L'immagine di un Egitto antico dove gli schiavi venivano costretti a sopportare condizioni disumane per innalzare piramidi o altre opere monumentali alla gloria dei faraoni è fuorviante. Tanto la costruzione di opere architettoniche, quanto la manutenzione delle strutture di canalizzazione, erano normali corvée, solitamente svolte dalla popolazione egiziana nel periodo dell'inondazione, quando la vita nei campi era momentaneamente interrotta e il lavoro della collettività poteva così essere compiuto al servizio dello Stato. Esistevano peraltro nell'Antico Egitto persone tenute a servire un'istituzione o un privato, avendo perso la condizione di uomini liberi; tali persone conservavano comunque il diritto a possedere beni e la possibilità di affrancarsi dallo stato di servitù e di guadagnare una posizione più elevata nella scala sociale. Coloro che rientravano in tale categoria per molti aspetti simile a quella dei "servi della gleba", erano i cosiddetti smdt,o "soggetti" e gli hmw,o "servitori''. Soltanto dall'Epoca Tarda, e particolarmente in epoca tolemaica (304-30 a.C.), troviamo la categoria dei servitori, bak (prigionieri di guerra, per lo più, o ridotti in servitù per debiti), che possono essere considerati "schiavi" in senso stretto»[3].
Si noti bene che la Bibbia, a differenza de Il principe d’Egitto, non parla di ebrei che costruivano le piramidi, mentre ricorda il lavoro coatto svolto con mattoni di paglia. Si vede come la studiosa intenda sfumare, ma non negare, il concetto di schiavitù, perché non lo si assuma acriticamente: Bresciani giunge in sostanza a confermare l’esistenza del lavoro coatto e dell’indisponibilità della libertà personale in determinate situazioni.
Insomma, l’Egitto antico conosceva e sfruttava il lavoro servile, similmente all’intero vicino oriente antico, e non è a partire da una critica ad esso che si deve affrontare la questione della storicità del racconto biblico, come del suo significato esistenziale, politico, profetico e religioso.
Note al testo
[1] E. Bresciani (a cura di), L’Antico Egitto, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1998.
[2] E. Bresciani (a cura di), L’Antico Egitto, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1998, p. 187.
[3] E. Bresciani (a cura di), L’Antico Egitto, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1998, p. 308.