«Finora come Stato non stiamo facendo il bene dei migranti. Certamente qui è sempre meglio della situazione da cui provengono, dove rischiano la morte, la fame, la tortura. Ma manca la progettualità di inserimento nel lungo periodo. Nessuno è interessato ad affrontare le questioni lavorative, le questioni d’integrazione reale nella cultura nuova in cui si vengono a trovare, ma anche il futuro per i loro figli». La triste analisi di un prete che si occupa dell’accoglienza dei migranti, di Giovanni Amico
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico che racconta di un dialogo con un prete che si occupa dell’accoglienza dei migranti. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura.
Il centro culturale Gli scritti (4/12/2016)
(Dan Kittwood/Getty Images, Migranti a Magyarkanizsa, Serbia)
«Abbiamo superato il livello di saturazione. La mancanza di una progettualità sull’immigrazione sta logorando i rapporti sociali. Non ci si preoccupa del fatto che questo modo di accogliere non sempre aiuta chi sbarca oggi in Italia».
Così mi dice, preoccupato, un prete impegnatissimo nell’accoglienza dei migranti.
Mi racconta che nella sua piccola città del centro-sud sono state accolte già diverse centinaia di migranti, dei quali la metà nelle strutture ecclesiastiche e l’altra metà in edifici comunali o di diverse associazioni.
Sempre più di frequente una riunione dal prefetto con i responsabili delle diverse realtà convenzionate. Ormai ci si limita a dire: «Domani ne arriveranno altri: chi li prende?». Mentre nei mesi precedenti si alzavano mani, ora nessuno ha più un posto libero.
Qualcuno dice: «Non mi dite che la Chiesa non ha altri posti?». Tutti avvertono il pericolo che se i nuovi non vengono ospitati anche la Chiesa potrà essere accusata mentre, in realtà, ne accoglie una gran parte. La preoccupazione ormai palese, che aleggia su ognuna di queste riunioni, è il pullman con i nuovi migranti che potrebbero essere scaricati e lasciati soli sulla piazza.
La situazione è grave perché delle centinaia e centinaia di persone già passate dall’accoglienza, finora solo una minima parte risulta avere il requisito di “rifugiato”. Il che vuol dire che gli altri, se restano, lo fanno senza alcuna garanzia.
D’altro canto, una volta che si è appurato che non hanno diritto allo statuto di “rifugiati”, chi li tiene nelle proprie strutture lo fa a proprio rischio e pericolo. Lo Stato, comunque, cessa di aiutarti con il sussidio previsto per la prima accoglienza. Tutto diventa a tue spese. Ed in più, se quelli che si è appurato non essere rifugiati “occupano” i posti letto, lo Stato dice: «Questo per me è come se non ci fosse. Non è un rifugiato, quindi quel letto è vuoto e noi ti mandiamo un altro perché occupi quel letto che per noi è libero”.
Mi racconta, per farmi un esempio, che diversi migranti, soprattutto donne e bambini, stanno per terminare il periodo nel quale hanno diritto al sussidio. Secondo la legislazione dovrebbero far posto a nuovi ingressi. Lui mi dice: «Noi ovviamente non li manderemo via. Ma ci sarà detto che non hanno più diritto all’assistenza e che noi non avremo alcuna copertura né economica, né legale. Dovremo fare da soli».
«Il dramma – prosegue – è che nessuno si preoccupa del lungo periodo. Tutto è emergenza. I fondi sono completamente riservati alla prima accoglienza, con un grosso rischio speculativo. Il fatto che alla fine molti vengano scaricati per strada non interessa alle istituzioni».
E ripete con insistenza: «Per una reale integrazione, cioè per accoglierli seriamente, è necessario investire grandi risorse umane ed economiche».
«Non esiste – insiste su questo – alcuna seria progettualità sul lungo periodo. Inoltre molte delle cose che aiuterebbero in tal senso sono addirittura proibite. Se chiedi a qualcuno degli ospiti di fare un lavoro (per integrarlo, per valorizzarlo, per farlo sentire utile) rischi subito di essere accusato di sfruttamento». L’integrazione si limita a qualche ora di italiano.
Alla mia domanda su cosa avvenga di loro nei mesi dopo la prima accoglienza la risposta è: «Ad un certo punto se ne vanno e nessuno sa precisamente dove, anche se ti accorgi che davanti ai bar o dinanzi ai ristoranti la sera, aumentano gli stranieri che chiedono l’elemosina, con un racket che li controlla».
«Molti probabilmente emigrano di nascosto, con il rischio di essere rimandati in Italia dopo poco, perché la polizia delle altre nazioni ce li rimanda indietro. La maggior parte di loro, infatti, non vuole rimanere in Italia, vuole emigrare in paesi dove già vivono connazionali e conoscenti. Molti hanno già pagato i trafficanti prima del viaggio che gli hanno promesso un posto letto in questa o quella nazione del nord Europa».
La sua insistenza è sempre sullo stesso punto: «In questo modo non stiamo facendo il loro bene. Certamente qui è sempre meglio della situazione da cui provengono, dove rischiano la morte, la fame, la tortura. Tuttavia noi europei dobbiamo desiderare per loro molto di più, ma manca la progettualità di inserimento nel lungo periodo. Nessuno è interessato ad affrontare le questioni lavorative, le questioni d’integrazione reale nella cultura nuova in cui si vengono a trovare, ma anche il futuro per i loro figli».