«Gesù il distruttore di religioni e Paolo il costruttore di religioni». L’ingenua, ma rivelativa, costruzione di Sebastiano Vassalli. Breve nota di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per ulteriori approfondimenti vedi la sezione Sacra Scrittura e, in particolare, la sotto-sezione Lettere paoline.
Il centro culturale Gli scritti (20/11/2016)
Sebastiano Vassalli non è stato uno storico di professione, bensì uno scrittore. Per Einaudi scrisse anche una breve introduzione alla Lettera di Paolo apostolo ai Romani. Le sue riflessioni sono particolarmente interessanti perché riflettono in maniera divulgativa alcuni “luoghi comuni” difesi da studiosi più noti.
Il confronto fra Gesù e Paolo è costruito in maniera oppositiva: il primo è presentato come distruttore di religioni, il secondo come costruttore di religioni – ovviamente la prospettiva di Vassalli tende ad essere superata da quegli studi (la third quest in generale) che vogliono vedere in Gesù un rabbino e, conseguentemente una figura pienamente fedele alla “religione” del tempo con tutto il suo apparato rituale e addirittura sacrificale (secondo alcuni studiosi Gesù sarebbe stato addirittura favorevole ai sacrifici animali nel Tempio e, per dare forza alla loro argomentazione, giungono a ritenere successivi tutti i brani relativi alla purificazione del Tempio).
Vassalli mette in sordina il fatto che esista un Paolo/Saul pre-cristiano e che costui abbia lavorato alla distruzione della Chiesa che preesisteva a lui: Paolo/Saul ha criticato quella chiesa già esistente prima di lui che annunziava Gesù Figlio di Dio – elementi che mostrano tutti come la chiesa venisse prima di Paolo e come una cosiddetta “cristologia alta” (una cristologia cioè che annunzi che Gesù è la rivelazione piena di Dio e che ne sia il Figlio) sia originaria e non di invenzione paolina.
Vassalli ignora i “12” (con l’istituzione dei quali Gesù si pone sul piano di Giacobbe che dette inizio al “popolo di Dio”, proponendosi come l’iniziatore del “nuovo popolo di Dio) ed ignora che con i “12” Paolo si confrontò, perché la loro istituzione proveniva da Gesù e non era di origine paolina.
Ignora altresì che Paolo riconobbe il ruolo di Cefa/Pietro e proprio con lui ebbe a discutere perché egli già aveva la funzione di “pietra” conferitagli da Gesù stesso.
Insomma il tentativo di Vassalli è “simpatico” nella sua ingenuità e permette di cogliere meglio a cosa giungerebbe una visione del rapporto Gesù-Paolo che dimenticasse i dati storici del Nuovo Testamento preferendogli costruzioni mentali successive. In fondo, per Vassalli, Paolo sarebbe più interessante di Gesù e noi tutti paolinisti e non cristiani.
Da Sebastiano Vassalli, Introduzione a Lettera ai Romani, Torino, Einaudi, 2000, pp. V-VI
La chiave di volta della religione cristiana, che dura quasi duemila anni, è nel rapporto tra Gesù e Paolo, tra il distruttore di religioni e il costruttore di religioni. È da quei due poli, il negativo e il positivo, che è scaturita un’energia capace di attraversare i secoli e i millenni, e di illuminare le tenebre del mondo. Gesù da solo (lo dico con qualche rimpianto) non poteva bastare. La sua personalità, così come ce la restituiscono i Vangeli, con le incrostazioni e le inevitabili deformazioni di cinquant’anni di tradizione orale, è grandiosa e poetica ma inconcludente sul piano delle cose concrete. L’uomo dei Vangeli, se fosse nato da un’altra parte di mondo, sarebbe forse diventato un grande pittore, un insuperabile artefice del bronzo o del marmo, un filosofo alla moda o, più probabilmente, un poeta: ma tra gli ebrei non potevano nascere veri artisti o scrittori di cose profane. L’orizzonte di quel popolo, da sempre, era il suo Dio; e Gesù, per ciò che sappiamo di lui, spese tutte le sue forze, la sua intelligenza e la sua stessa vita nel tentativo di scrollarsi di dosso l’oppressione di un Dio irascibile e attento ad ogni genere di minuzie; di restituire Dio all’infinito, e l’infinito a Dio. Le sue parole, e il suo sacrificio sulla croce, mossero l’immaginazione delle folle, e gli procurarono molti seguaci; ma quei seguaci, da soli, non avrebbero mai trovato una via d’uscita dall’ebraismo, e non sarebbero riusciti a rifondare l’immagine di Dio in una nuova religione, se non si fosse aggiunto ad essi un ex fariseo, nato in una città dell’Asia Minore da una famiglia di ebrei della diaspora: Paolo di Tarso.
pp. VIII-X
Molti, già, si sono chiesti quale sia la parte di Gesù nella religione cristiana, e quale sia la parte di Paolo. Da un punto di vista esclusivamente storico, e senza l’ausilio della fede, la figura dominante è quella dell’apostolo. Di Gesù uomo, infatti, non sappiamo niente di sicuro. Possiamo credere che esistette, perché è difficile immaginare lo sconquasso che si compì nel suo nome senza farlo risalire ad una persona reale; e possiamo credere che fu crocifisso sotto il regno di Tiberio, cioè prima dell’anno 37 di una cronologia che prende inizio dalla sua (ipotetica) nascita. Possiamo visitare le zone archeologiche della Palestina, e intenerirci guardando le fondamenta di una casa a Capernaum (Cafarnao), che, forse, fu la casa-sinagoga di Pietro, dove lui abitò. Questo, all’incirca, è ciò che ci rimane di Gesù. I primi testi scritti del Nuovo Testamento sono le Lettere di Paolo, composte tra il 52 e il 67 d.C., dove la figura di Gesù è già idealizzata e resa simbolica. Paolo, infatti, non incontrò il suo redentore mentre era vivo, ma fu folgorato dalla sua apparizione e dalla sua voce alcuni anni dopo la sua morte, mentre si recava a Damasco a perseguitare i seguaci. Anche gli Atti degli apostoli vengono attribuiti dalla tradizione ad un discepolo greco di Paolo, Luca, che conobbe Gesù soltanto attraverso le parole dell’apostolo. Anche due dei quattro Vangeli accettati dalla Chiesa, quello di Luca e quello di Marco, furono scritti da discepoli e stretti collaboratori di Paolo. La presenza di Paolo nella Chiesa nascente è vistosa e assolutamente sproporzionata rispetto ad ogni altra, ma, per nostra fortuna, non offusca quella di Gesù; che rimane appartata nei Vangeli, misteriosa e lontana da tutto e da tutti.
La religione di Paolo non è la stessa di Gesù. C’è un episodio negli Atti degli apostoli, quello dell’arresto e del martirio di Stefano ad opera dei giudei, che ci aiuta a capire cosa significa l’irruzione di questo ex fariseo tra i primi cristiani. Stefano viene ucciso per gli stessi motivi che, qualche anno prima, avevano determinato la condanna a morte di Gesù (6, 14: «Lo abbiamo, infatti, sentito dire che quel Gesù di Nazaret distruggerà questo luogo – il Tempio – e cambierà le istituzioni che Mosè ci ha tramandato»); ma dopo la sua morte l’esistenza del Tempio, e quella, in essa implicita, dei sacerdoti come mediatori tra Dio e gli uomini, cessano di essere motivo di contrasto tra cristiani ed ebrei. Il fariseo Paolo, che assiste all’esecuzione di Stefano e custodisce i mantelli dei suoi assassini, dopo essersi convertito al cristianesimo edificherà la Chiesa di Dio come un tempio fatto di anime, e vi porrà al centro una gerarchia sacerdotale composta da Gesù «sommo sacerdote» (Eb 9, 11) e dai suoi aiutanti, «sorveglianti» o «presbiteri» o «inservienti». Lui stesso, finché vivrà, si considererà un sacerdote e un apostolo, in grado di consacrare altri sacerdoti tramite l’imposizione delle mani (Rm 15, 15-17: «Vi ho scritto… a motivo della grazia che mi è stata data da Dio di essere ministro di Cristo Gesù fra i gentili, esercitando il sacro ministero della predicazione del Vangelo d’Iddio, affinché l’offerta dei gentili gli sia gradita, essendo santificata dallo Spirito Santo. Ho quindi motivo di gloriarmi solo in Cristo Gesù per le cose di Dio». 2Tm 1, 6: «Per questo motivo ti rammento di ravvivare il dono di Dio che è in te grazie all’imposizione delle mie mani»).
La predicazione di Paolo lascia cadere, quasi inavvertitamente l’elemento più poetico e più anarchico di quella di Gesù: che, fortunatamente, sopravvive per quasi mezzo secolo nella tradizione orale ed è il lievito che, attraverso i Vangeli, agisce da millenni nella Chiesa di Cristo. L’idea che l’amore di Dio è anzitutto e soprattutto amore del prossimo, e che Dio è un padre misericordioso a cui ci si deve rivolgere senza intermediari: «Padre nostro, che sei nei cieli…». L’idea che in Dio si annullano tutte le nostre necessità, e che chi esiste in lui non ha bisogno di nulla… L’ex fariseo Paolo non può vivere in atmosfere così rarefatte. Lui ha bisogno di una Chiesa-tempio fatta di uomini, di donne e dei loro sacerdoti-sorveglianti, in alternativa al Tempio di pietra dei giudei. Sa per esperienza quanto è faticoso, e difficile, tenere insieme una comunità di fedeli; e non gli piace essere come gli uccelli nel cielo o i gigli nel campo. Lo dice nelle due Lettere ai Tessalonicesi, nella prima (2, 9) e poi anche nella seconda (3, 7-9): «Voi sapete che noi siamo da imitare: non fummo indisciplinati tra voi, non mangiammo gratuitamente il pane di nessuno e invece lavorammo con fatica e stento notte e giorno per non gravare su alcuno di voi: non che non ne abbiamo potere, ma per darvi un modello da imitare».