Brani di difficile interpretazione della Bibbia, XXVII. Le parabole hanno un rapporto preciso con l’annuncio del Vangelo. Gesù le utilizza per argomentare e sciogliere dubbi riguardo alla sua persona e alla sua missione. Il tertium comparationis in Vittorio Fusco, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo e commentiamo da V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, alcuni brani che commentano il significato delle parabole. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi di difficile interpretazione della Bibbia vedi la sezione Brani di difficile interpretazione della Bibbia. Per ulteriori approfondimenti vedi la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (27/11/2016)
Gli studi di Vittorio Fusco si incentrano sul fatto che la parabola non è un racconto a sé stante che possa prescindere dalla presenza viva di Cristo. La parabola, invece, indirizza alla novità della presenza di Dio in Gesù. Fusco mostra come tale sottolineatura emerga, anche se in maniera non pienamente consapevole, fin dai primi studi moderni sulle parabole:
«Lo studio moderno delle parabole prende avvio con la rimozione [della] confusione tra parabola e allegoria ad opera di Adolf Jülicher (1857-1938), il quale mise in luce il carattere tardivo di questi sviluppi allegorizzanti nei testi evangelici e riscoprì come specifico della parabola il meccanismo argomentativo.
La parabola utilizza una vicenda fittizia che in un primo momento dev'essere considerata soltanto in se stessa, nella sua logica interna, per farne scaturire una conclusione, una valutazione, da trasferire poi - nella sua globalità, non nei singoli dettagli narrativi – alla situazione reale che il parabolista aveva di mira sin dall’inizio.
Le parabole di Gesù originariamente funzionavano cioè come quella di Natan (2Sam 12,1-7), che per far riconoscere a Davide il suo peccato, l'adulterio con Betsabea e l'assassinio del marito di lei Uria (2Sam 11,1-27), gli racconta la storia di un ricco prepotente che per far festa, anziché prelevare una pecora dai suoi immensi greggi, preferì sottrarre l'unica pecora al suo vicino povero, del quale costituiva tutta la ricchezza. A questo punto Davide esplode: «L'uomo che ha fatto questo è certamente degno di morte!». «Sei tu quell'uomo!», replica il profeta, e Davide si trova condannato dalla sentenza che lui stesso aveva pronunziata.
Le parabole dunque già per Jülicher (contrariamente a quanto erroneamente si continua a ripetere) non rinviano a verità "universali" ma a situazioni estremamente concrete del ministero di Gesù. Purtroppo però per Jülicher, come per tutta la teologia liberale di cui egli era seguace, era l'intero ministero di Gesù ad essere ridotto ad un insegnamento genericamente etico-religioso; perciò egli ritenne che, una volta rimosse le allegorizzazioni della chiesa primitiva, anche nelle parabole non rimanesse più una dimensione propriamente cristologica, un ruolo salvifico cioè attribuito alla persona e all'opera di Gesù, ma solo quel Gesù maestro, tutto umano, senza risvolti misteriosi, geniale nella sua semplicità, di cui andava in cerca la teologia liberale. È importante sottolineare che queste conclusioni riduttive nascevano in Jülicher non dalle sue riscoperte circa il meccanismo linguistico della parabola, bensì dall'inadeguata interpretazione liberale dell'intero insegnamento di Gesù.
Anche dal punto di vista linguistico però Jülicher ha reso meno limpida la sua riscoperta, ottenuta in realtà induttivamente dall'esame delle parabole, con un tentativo teoretico di derivare la parabola dalla comparazione, sacrificando così l'aspetto argomentativo ad una più generica funzione didattica. Vedremo a suo luogo che questa parte della tesi di Jülicher (riproposta oggi dallo studioso ebreo D. Flusser) va accantonata, mentre la tesi centrale va decisamente mantenuta»[1].
Ma è soprattutto con Dodd e Jeremias che diviene evidente che le parabole rinviano a situazioni concrete del ministro di Gesù:
«Con Charles Harold Dodd (1894-1973), e soprattutto con Joachim Jeremias (1900-1979), apparve chiaro, proprio utilizzando il concetto di parabola riscoperto da Jülicher, che le situazioni concrete del ministero di Gesù, a cui rinviano le sue parabole, sono situazioni create dalla sua predicazione escatologica e dai gesti concreti in cui essa s'incarna. Così per esempio nelle parabole della misericordia Gesù non illustra la misericordia di Dio come verità religiosa atemporale (Jülicher), ma difende la propria prassi di accogliere i peccatori; il presupposto è che la misericordia di Dio si fa evento qui e adesso attraverso Gesù (Jeremias, Dupont).
Su queste basi poste da Jülicher, Dodd e Jeremias si è sviluppata tutta l'interpretazione moderna delle parabole (Linnemann, Dupont, Eichholz, Lambrecht, ecc.), anche se un filone minoritario non ha mai cessato di manifestare una certa nostalgia per l'allegoria, ritenendola la sola capace di assicurare alle parabole la loro ricchezza teologica e la loro perenne attualità»[2].
Fusco giunge quindi a criticare una comprensione e un conseguente utilizzo delle parabole come se esse fossero buone per qualsiasi occasione, come pura narrazione, come testi con vita propria, a prescindere dall’identità di Gesù:
«Ma in un altro gruppo di autori soprattutto americani (Funk, Via, Crossan...), la critica alla linea classica Jülicher-Dodd-Jeremias sfocia in conclusioni di segno completamente diverso. Si contestano precisamente le tesi sul contenuto escatologico-cristologico delle parabole, che le vincolerebbe troppo strettamente alla situazione storica rendendole incapaci di parlare all'uomo di oggi. E la derivazione della parabola dalla metafora, la rivendicazione di uno statuto poetico, porta questi autori non a fare delle parabole un linguaggio esclusivo di Gesù e veicolo della rivelazione del regno, bensì un linguaggio capace di parlare ad ogni uomo prescindendo dalla fede, un linguaggio che autorizzerebbe in nome dell'autonomia dell'oggetto estetico un'interpretazione di tipo "secolare" (Via); o addirittura, in nome della inesauribilità della metafora, un'interpretazione polivalente, sempre aperta fino all’indeterminatezza (Crossan, in altra maniera Tolbert).
A questo punto però, se un testo può significare tutto, non finisce per ciò stesso col significare niente?Alcuni sviluppi più estremi nell'area americana non indietreggiano neppure di fronte a questa sconcertante conclusione: le parabole vengono equiparate al koandei maestri buddisti Zen: detti privi di un qualsiasi precisabile significato, miranti solo ad aprire la mente del discepolo all'esperienza del vuoto, del nulla: secondo l'ultimo Crossan, le parabole di Gesù, come i labirinti di Kafka o di Borges, non sono altro che cifre di un'assenza, dell'insormontabile indicibilità dell'indicibile.
Di fronte a queste contestazioni di vario tipo, sembra più fondato ritenere che la linea Jülicher-Dodd-Jeremias, soprattutto se liberata da alcuni fraintendimenti e meglio approfondita nelle sue implicazioni, resti tuttora la più valida sia in sede linguistica per spiegare il funzionamento della parabola, sia in sede teologico-ermeneutica per comprendere in che modo essa sia stata utilizzata a servizio del messaggio evangelico»[3].
La specificità della parabola è di avere una funzione dialogico-argomentativa:
«La parabola però non è un racconto fittizio qualsiasi. Ovviamente non è una fiaba, un romanzo, una narrazione costruita per il puro gusto del narrare. Non basta neppure aggiungere (con Almeida) che si tratta di un racconto intertestuale, inserito in un altro racconto, come sono anche quelli delle Mille e una notte. E neppure è sufficiente aggiungere un generico intento di modificare il lettore, come può avvenire anche in altri tipi di racconti fittizi (midrašim, racconti chassidici...) di cui giustamente oggi la "teologia narrativa" ci invita a riscoprire l'importanza, liberandoci dall'ossessione della storicità (Weinrich, Güttgemanns...), ma che non sempre presentano il meccanismo specificamente parabolico. È necessario, ma non ancora sufficiente, aggiungere la caratteristica della "specularità" (Rouiller): la parabola è un racconto modellato su un altro, un po' come quella recita che Amleto fece improvvisare, ricalcata sul delitto che egli sospettava, per scrutare le reazioni di sua madre e del re. La parabola però non serve semplicemente a scrutare le reazioni degli interlocutori, ma a fornire ad essi stessi una nuova visione. Il suo specifico è che si tratta di un racconto fittizio utilizzato in funzione di una strategia dialogico-argomentativa»[4].
La parabola “funziona” allora per Fusco in maniera analoga ad una proporzione: come in una parabola i personaggi stanno in un determinato rapporto, analogamente Gesù e i suoi ascoltatori hanno una relazione reale corrispondente. Fusco chiama questa relazione con la situazione reale vissuta dinanzi a Gesù il tertium comparationis: la situazione della parabola invita a comprendere il proprio rapporto con Gesù:
«La parabola però non è un nudo ragionamento, una specie di sillogismo, ma un procedimento argomentativo che passa attraverso il racconto; esso infatti funziona in due momenti(anche se in pratica l'uno si salda immediatamente all'altro), la cui successione appare assai distintamente nell'episodio di Gesù in casa del fariseo (Lc 7,31-50). In un primo momento all'interlocutore viene proposto un caso ipotetico sul quale lo si invita a pronunziarsi («"Simone, ho una cosa da dirti". "Maestro, di' pure". "Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta. Non avendo essi la possibilità di restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro gli sarà più riconoscente?"»); di qui la frequenza delle introduzioni interrogative (Chi di voi? Che ve ne pare? Chi di quei tali...? Cosa farà quel tale?). Una volta ottenuta la risposta desiderata («"Suppongo quello a cui ha condonato di più". "Hai giudicato bene"») subentra subito il secondo momento: la valutazione ottenuta viene trasferita ad un'altra realtà, finora non menzionata, ma alla quale mirava sin dall'inizio il parabolista ed in funzione della quale aveva costruito il racconto fittizio («Vedi questa donna...?»).
Perché si ricorre a questo procedimento, perché ci si trasferisce nel fittizio se poi ci si deve ritrasferire nella realtà? Evidentemente perché se ne ricava qualcosa che diversamente non si ricaverebbe: il "giudizio" pronunziato dall'interlocutore stesso e poi applicato ad una realtà alla quale egli non sarebbe stato disposto ad applicarlo. È una strategia cui si ricorre perché ci si trova di fronte ad interlocutori che non accettano il punto di vista del parabolista («Se costui fosse un profeta saprebbe chi è questa donna che lo tocca: è una peccatrice») e probabilmente lo respingerebbero se proposto loro in forma diretta; si cerca perciò, un po' come nella maieutica socratica, di far scaturire da loro stessi quella valutazione.
Perché funzioni, il meccanismo deve rispondere a due requisiti. In primo luogo la vicenda fittizia utilizzata dev'essere coerente, animata da una logica interna tale da portare inequivocabilmente alla valutazione voluta e non ad un'altra; Davide non poteva assolvere il ricco prepotente e condannare il povero che era stato depredato; il fariseo Simone non poteva rispondere che provoca maggior riconoscenza un condono minore. Di qui la frequenza delle formule introduttive che sottolineano la necessità di una certa opzione, l'assurdità del contrario: Forse che...? Nessuno…! Chiunque...! Non è possibile che…! Oppure, come vedremo a suo luogo, queste domande si hanno all'interno del racconto sulla bocca dei personaggi, ognuno dei quali si sforza di far capire all'altro la validità del suo punto di vista (per esempio il fratello maggiore del prodigo ed il padre).
Ma oltre a questo primo requisito di coerenza interna, il racconto deve possederne anche un altro, in rapporto alla vicenda reale: dev'essere abbastanza diverso da essa per non permettere di individuarla prima del tempo, ma al tempo stesso abbastanza simile, strutturalmente identico, isomorfo, tanto da esigere il trasferimento della valutazione dall'uno all'altra. Davide non è un ladro di bestiame, e a sua volta il protagonista della parabola di Natan non è un adultero omicida: il punto di contatto sta nel fatto che in entrambi i casi c'è un potente che fa violenza ad un debole, un ricco che ruba ad un povero. L'elemento comune, il punto di contatto tra le due vicende (punctum comparationis, tertium comparationis), non consiste nella corrispondenza in questo o quel particolare isolatamente considerato (Betsabea e la pecorella...), ma nella corrispondenza nella struttura essenziale delle due vicende. Non A = A', B = B', ma A:B = A':B'. Davide non ha rubato pecore, ma si è comportato nei confronti di Uria come quel ricco prepotente nei confronti di quel povero.
È in questo senso che il punto di contatto è unico (se comprende più 11 elementi, essi sono organicamente collegati all'interno di un'unica struttura unitaria) ed è delimitato. È per questo che non ha senso voler attribuire un significato ad ogni singolo elemento; voler precisare per esempio a chi o a che cosa corrispondono gli amici coi quali il pastore si rallegra per il ritrovamento della pecora, o l'olio e il vino che il samaritano versa sulle piaghe del ferito, o l'albergo dove lo lascia in convalescenza. Sia dalla parte della vicenda fittizia che dalla parte di quella reale ci sono elementi che restano fuori dal contatto (il pastore ha cento pecore e ne smarrisce una, ma il Signore non ha solo cento anime e non ne smarrisce una sola) e che tuttavia devono esserci per ottenere il mascheramento desiderato: altrimenti avremmo una sola vicenda, verrebbe meno il percorso attraverso la vicenda fittizia.
Altrettanto evidente è che il punto di contatto dev'essere più generale, più astratto, tale da valere sia per la situazione fittizia sia per quella reale, e potenzialmente per ogni situazione simile (per esempio nella parabola di Natan: è sommamente condannabile un ricco che ruba ad un povero; in quella di Gesù al fariseo Simone: avrà più riconoscenza chi ha avuto un condono più grande).
Senza questa "astrattezza" resteremmo imprigionati nel racconto fittizio senza poterne più uscire. Molti non hanno compreso che nella concezione jülicheriana quest'astrattezza è attribuita ad un passaggio intermedio, non all'applicazione, che invece è estremamente concreta («Tu sei quell'uomo!», «Vedi questa donna...?»).
Di qui la "insurrogabilità" della parabola, da intendersi non come inesauribilità del linguaggio metaforico rispetto a quello esplicito, tanto meno come indeterminatezza, impossibilità di stabilire una volta per sempre quale sia la valutazione da ottenere e quale sia la situazione reale cui trasferirla, bensì come impossibilità di sortire quell'effetto in altro modo, senza passare attraverso il racconto»[5].
Si risolve così anche la questione spesso sollevata del problema della verosimiglianza interna delle parabole. La parabola, anche se avesse in sé elementi inverosimili, funziona benissimo perché il suo tertium comparationis è fuori di sé, è nella vita reale di Gesù e dei suoi ascoltatori:
«Indubbiamente l'antefatto umanamente imprevedibile riflette la novità inaudita del regno che sconvolge ogni logica umana. Esso tuttavia non impedisce che la parabola assuma un'andatura autenticamente dialogica e faccia appello alla razionalità dell'interlocutore. Il problema non è se sia cosa di tutti i giorni che un creditore condoni di colpo ai suoi debitori ogni debito, quello più piccolo come quello più grosso, ma chi di quei due si mostrerà più riconoscente (Lc 7,40-43). Il problema non è se sia verosimile umanamente che un re condoni di colpo un debito di diecimila talenti, pari alle entrate fiscali annuali di un paio di province dell'impero, ma se sia giusto per un uomo che ha ricevuto un condono così grande rifiutarne poi uno infinitamente più piccolo, cento denari (il rapporto è di un milione ad uno: diecimila talenti equivalgono a cento milioni di denari!), ad un suo collega che si trova nella stessa condizione di bisogno (Mt 18,23-35). Il problema non è se capiti ad ognuno di noi di trovare un tesoro, ma piuttosto, qualora lo si sia trovato e per entrarne in possesso sia necessario vendere tutti i propri averi, come sia logico comportarsi (Mt 13,44). Il problema non è se tra i datori di lavoro ce ne siano di così generosi da dare la paga intera anche a chi non ha fatto l'intera giornata lavorativa, ma se sia giusto per gli altri operai recriminare per questo gesto di generosità come se venisse leso qualche loro diritto (Mt 20,1-16). Il problema non è se tutti i padri di questo mondo accoglierebbero così festosamente il figlio scapestrato che ritorna a casa dopo aver distrutto un patrimonio, ma se per l'altro fratello, che si dichiara tanto affezionato a suo padre, sia giusto rifiutare di condividere quella gioia (Lc 15,25-32).
L'impostazione dialogico-argomentativa, che nelle parabole più brevi è sottolineata dalle introduzioni in forma interrogativa (Chi di voi? ecc.), in queste parabole narrativamente più sviluppate affiora all'interno del racconto stesso. I protagonisti dialogano. Possiamo ascoltare sia le proteste del fratello maggiore o degli operai della prima ora, sia le risposte del padre o del datore di lavoro; il dialogo all'interno del racconto riflette quello tra Gesù ed i suoi interlocutori (E. Linnemann). Alla vecchia logica contraria a quella di Gesù non viene opposta solo una logica divina incomprensibile all'uomo, un decreto imperscrutabile e basta, ma si entra in dialogo, si cerca di far ragionare. Il padre sulla soglia della casa cerca di convincere il figlio maggiore a entrare anche lui alla festa. Il datore di lavoro non si trincera nella sua insindacabile autorità padronale, ma espone pacatamente le sue ragioni ai contestatori: Amico, nessun tuo diritto è stato violato, il tuo contratto è stato rispettato: chi può proibirmi di disporre liberamente dei miei soldi? O forse vedi con dispiacere questo mio gesto di generosità, vorresti che chi è rimasto disoccupato faccia la fame, vada via a mani vuote? Il padrone del campo spiega ai lavoranti perché non va sradicata subito la zizzania, col pericolo di tagliare prematuramente anche il grano non ancora cresciuto (Mt 13,29); il re nel condannare il servo infingardo gliene espone per filo e per segno le motivazioni (Mt 25,26; cf. Lc 19,22s); persino Abramo dall'alto della sua gloria replica cortesemente alle proteste del ricco sprofondato nell'inferno (Lc 16,24-31).
Proprio in queste parabole più sviluppate narrativamente - fra le quali si trovano anche le più sicuramente gesuaniche e, se così è lecito esprimersi, le più inconfondibilmente "evangeliche" - emerge in modo più inequivocabile un'impostazione argomentativa, autenticamente dialogica. Anche negli interlocutori più prigionieri di vecchie logiche deformanti Gesù non dispera di poter trovare un residuo di logica autenticamente umana che permetta loro di comprendere meglio il suo modo di agire, anche se le sue ragioni ultime restano accessibili solo alla fede. Resta da chiarire meglio il rapporto tra i due momenti, l'''antefatto'' che riflette intatta tutta la gratuità della salvezza, non prevedibile e non deducibile in base ad alcuna logica umana, e questo appello alla razionalità che caratterizza invece lo svolgimento successivo, l'intreccio propriamente parabolico»[6].
Fusco coglie così, in maniera decisamente incisiva, il nesso che esiste tra le parabole e il kerygma, tra le parabole e l’annunzio portato da Gesù. Le parabole sono la “frontiera del vangelo”:
«La tesi fin qui esposta del carattere dialogico della parabola ne impedisce tanto la identificazione con l'annunzio evangelico, quanto la dissociazione. Il dialogo di per sé non è l'annunzio; però non può essere reso autonomo, non può essere separato dall'annunzio.
La parabola come tale, benché presupponga l'annunzio e addirittura possa incorporarlo come antefatto narrativo, non si identifica con l'annunzio, a meno che non si voglia svuotare la parabola della sua specifica indole dialogico-argomentativa, oppure svuotare l'annunzio evangelico della sua specifica indole profetica, kerygmatica, di messaggio cioè proclamato autoritativamente da parte di Dio, di evento salvifico gratuito, non deducibile da alcuna verità di ordine puramente razionale ed umano»[7].
Le parabole pertanto rinviano a Gesù, non essendo né il centro del vangelo, né un corpo estraneo ad esso:
«Rinviando alla predicazione di Gesù ed alla prassi in cui essa s'incarna, le parabole rinviano al mistero della sua persona, in attesa di un disvelamento definitivo della sua identità e della sua autorità; in tal senso rinviano in ultima analisi proprio alla risurrezione e non possono essere poste, come in Fuchs, in alternativa ad essa.
Altrettanto inammissibile però e anche la dissociazione. L'autonomia delle parabole è un'autonomia relativa, non assoluta; è un'autonomia funzionale alla strategia argomentativa: un'autonomia che dev'essere prima affermata («Quell'uomo è degno di morte!»), poi subito dopo negata («Sei tu quell'uomo!»). È altra cosa dunque dall'autonomia dell'opera d'arte (alla quale peraltro è lecito appellarsi solo in sede di fruizione puramente estetica, non per escludere i riferimenti storici eventualmente presenti anche in un'opera d'arte!).
Il racconto isolatamente considerato non è "parabola": potrà essere fiaba, romanzo, fatto di cronaca. Un ateo può leggere nella parabola del figliuol prodigo solo la descrizione di un conflitto familiare o psicologico, e nessuno potrà proibirglielo, però in tal caso il racconto non è letto come parabola, è letto in maniera contraria a quella voluta dal narratore. Se si tratta di parabola, il narratore deve indicare, in una maniera o nell'altra, anche il referente extranarrativo; se a volte ciò non era fatto esplicitamente, è solo perché risultava già chiaro dalle circostanze concrete in cui era pronunziata la parabola, e non (come pensa M.A. Tolbert) per lasciare all'ascoltatore la libertà di collegarla ad un referente qualsiasi a suo arbitrio. Resta il fatto della "inesauribilità" delle letture e delle interpretazioni, che però riguarda ogni testo e non solo le parabole, e va inteso positivamente, come pienezza e non come vuoto o indeterminatezza di significato.
Le parabole non sono dunque né il centroo l'essenza dell'evangelo - sia come unico linguaggio capace di mediare il regno (Fuchs), sia come semplice variante figurata di altri linguaggi non figurati (allegorismo antico) - né all'opposto un corpo estraneoin mezzo al materiale evangelico, isolabile e fruibile, prescindendo dall'evangelo, in letture "secolari" o "polivalenti". Piuttosto, esse vanno viste come la frontiera dell'evangelo: frontiera mobilissima su cui l'evangelo, senza mai cessare di essere dono inaudito, messaggio che viene da Dio e non dagli uomini, si rivela però veramente rivolto agli uomini, capace di farsi carico dei loro interrogativi e di assumere tutto quanto ancora resta in loro di capacità di camminare verso la verità. Gesù certo non è riducibile a Socrate, ma non è neppure estraneo a Socrate, non è da meno di Socrate.
Ma in che senso l'annunzio, nelle parabole, si fa dialogo? Rispetto al momento dell'annunzio vero e proprio qual è la funzione di questo momento dialogico, razionale e per così dire "socratico"? È una funzione di servizio, molto umile, scevra da pretese totalizzanti. La parabola col suo appello alla razionalità dell'interlocutore non pretende affatto di far scattare in lui, per via di deduzione razionale, l'accettazione di Gesù e del suo messaggio. Intal senso l'''effetto parabola" non coincide con l'evento salvifico della "parola" accolta nella fede; tant'è vero che l'effetto parabola può aversi anche nell'interlocutore che pur avendo compreso si chiude, rimane sulle sue posizioni ostili, anzi le irrigidisce proprio perché ha capito, proprio perché si è visto smascherato (Linnemann: c'è anche nelle parabole qualcosa che porterà Gesù alla morte di croce).
Il ruolo positivo della parabola è piuttosto quello di spianare la via al vangelo rimuovendo pregiudizi, eliminando perplessità che possono ostacolare il cammino dell'uomo verso la fede (senza che per questo la loro rimozione significhi automaticamente la fede!). È solo un tratto di strada; può condurre soltanto fino alle soglie dell'annunzio, che resta intatto nella sua fragilità, nella sua nudità.
I farisei mormorano vedendo Gesù a mensa con i peccatori (Lc 15,1-2). Non solo non accettano la sua autorità e il suo messaggio, ma ritengono di avere un positivo argomento per poterlo smentire: se costui fosse veramente un uomo di Dio, un profeta, non tratterebbe con tanta familiarità i peccatori! Gesù replica, non per dimostrare loro la sua autorità e la verità del messaggio (di essa semmai sono un segno, nella misura in cui possono esserlo, i miracoli), ma per rimuovere la loro obiezione, dal momento che essi stessi possiedono tutti gli elementi per comprenderne l'inconsistenza. Nel personaggio del fratello maggiore, incapace di condividere la gioia del padre in quel momento così importante per lui, sono costretti a guardare allo specchio il loro vero volto, a rendersi conto che la loro pretesa giustizia nasconde una radicale estraneità ai pensieri e ai sentimenti di Dio. In base all'Antico Testamento essi sono in grado di capire che Dio gioisce non per la morte ma per la salvezza del peccatore, e che chi veramente ama Dio e gli è vicino, dovrebbe condividere questa gioia. Il racconto è costruito in maniera tale che l'ascoltatore non può dar torto al padre e ragione al figlio maggiore, anche se gli argomenti di quest'ultimo sono esposti correttamente, nel migliore dei modi. In questa maniera Gesù fa cadere una obiezione, li rende più vulnerabili all'annunzio, anche se l’accettazione di quest'ultimo non è assicurata attraverso la parabola, ma potrà aversi solo con un atto di fede, non producibile attraverso nessuna argomentazione umana»[8].
Fusco sottolinea così la dimensione cristologica insita nelle parabole. Esse parlano di lui:
«Proprio grazie alla loro funzione argomentativa, e non in forza di pretesi risvolti allegorici misteriosi, cifrati, accessibili solo agli iniziati, le parabole di Gesù racchiudono quella dimensione cristologica (Jeremias, Dupont) che la fede postpasquale non farà che rendere più esplicita. Sta in questa dimensione cristologica la ragione di fondo della perenne attualità delle parabole evangeliche, al di là di ogni differenza di situazione storica: attualità perenne per il cristiano, ma anche per ogni uomo che si senta interpellato dalla figura di Gesù»[9].
In appendice all’articolo Fusco elenca le parabole da tutti riconosciute come tali nei vangeli sinottici:
«Nei vangeli il numero delle parabole è calcolato da un minimo di 35 a un massimo di 72: la differenza deriva dalla difficoltà di classificazione dei testi (alcuni sono considerati solo metafore, altri lóghiaparabolici, altri paragoni brevi, ecc.). Ecco comunque una lista minima comunemente accettata come base ottimale per identificare il materiale parabolico dei vangeli:
L'uomo forte (Mc 3,24-27; Mt 12,24-26; Lc Il,17-18.21-22)
Il granello di senape (Mc 4,30-32; Mt 13,31-32; Lc 13,18-19)
Il lievito (Mt 13,33; Lc 13,20-21)
Il seme che cresce da sé (Mc 4,26-29)
Il seminatore (Mt 13,3-9; Mc 4,3-9; Lc 8,5-8)
La zizzania (Mt 13,24-30)
La grande cena (Lc, 14,16-24; Mt 22,1-10)
I due figli (Mt 21,28-31)
I cattivi vignaioli (Mc 12,1-9; Lc 20,9-16; Mt 21,33-41)
Il figlio prodigo (Lc 15,11-32)
La pecora smarrita (Lc 15,4-7; Mt 18,12-14)
La dramma smarrita (Lc 15,8-10)
I due debitori (Lc 7,36-50)
Il servo e il padrone (Lc 17,7-10)
Gli operai della vigna (Mt 20,1-5)
Il fariseo e il pubblicano (Lc 18,9-14)
I ragazzi in piazza (Mt 11,16-19; Lc 7,31-34)
Il tesoro nascosto (Mt 13,44)
La perla nascosta (Mt 13,45)
Il servo spietato (Mt 18,21-35)
Il buon samaritano (Lc 10,25-37)
I due in lite (Mt 5,25-26; Lc 12,58-60)
L'amministratore astuto (Lc 16,1-8)
Lazzaro e l'epulone (Lc 16,19-31)
Il ricco insensato (Lc 12,16-20)
Il fico sterile (Lc 13,6-8)
Il portiere in attesa (Mc 13,33-36; Lc 12,35-38)
Il ladro notturno (Mt 24,43-44; Lc 12,39-40)
Il servo fedele (Mt 24,45-51; Lc 12,42-46)
Le dieci vergini (Mt 25,1-13)
L'invitato senza veste nuziale (Mt 22,11-14)
I talenti/mine (Mt 25,14-30; Lc 19,11-27)
L'amico importuno (Lc 11,5-10)
La vedova ostinata (Lc 18,2-8)
La rete (Mt 13,47)»[10].
Note al testo
[1] V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, p. 1083.
[2] V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, p. 1084.
[3] V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, p. 1085.
[4] V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pp. 1086-1087.
[5] V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pp. 1087-1088.
[6] V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pp. 1091-1092.
[7] V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, p. 1093.
[8] V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pp. 1093-1094.
[9] V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, p. 1094. Tale prospettiva è la stessa reperibile nel Gesù di Nazaret di J. Ratzinger-Benedetto XVI (I, Milano, Rizzoli, pp. 219-256), nel quale, ad esempio, la parabola dei due fratelli e del padre buono è correttamente interpretata non solo come immagine del Dio di bontà, ma come manifestazione che il Padre si manifesta nell’operare del Figlio.
[10] V. Fusco, Parabola/Parabole, in Rossano P.-Ravasi G.-Girlanda A. (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, p. 1096.