Federico II: una reconquista "sterminatrice", di Ferdinando Maurici
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Riprendiamo da Maurici F., Breve storia degli arabi in Sicilia, Flaccovio Editore, Palermo 2006, pp. 144-158, la parte del VII capitolo del volume di Maurici. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sulla conquista musulmana della Sicilia, la stagione normanna e Federico II, cfr. la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (19/6/2016)
Nota bene: Il testo, che raccomandiamo integralmente alla lettura perché, pur essendo divulgativo, presenta le ricerche più aggiornate in materia, dopo aver descritto la situazione precedente all’invasione musulmana e poi l’invasione stessa, si sofferma sulla società che si sviluppò nella Sicilia musulmana, poi sulla conquista normanna ed, infine, sui caratteri della società normanna e sulle componenti musulmane che originariamente conservò. Dal capitolo finale Da Guglielmo I a Federico II: la fine dei musulmani in Sicilia riprendiamo l’ultima parte relativa a Federico II.
I saraceni restarono apparentemente calmi e sottomessi sotto Enrico VI e Costanza. La situazione subì però una drammatica svolta dopo la morte dell'imperatrice. Durante la minorità del sovrano, divampò la lotta per la reggenza fra i capitani tedeschi ed il partito papale. I musulmani divennero una delle pedine principali dello scontro in atto. La loro rivolta assunse così definitivamente chiari contenuti di lotta politica, culturale e religiosa. Coscienti della loro forza ma anche della loro delicatissima posizione, i saraceni giocarono la carta dell'alleanza militare con Markwald von Anweiler contro il papato ed i prelati di Palermo. La strana coalizione subì nel luglio del 1200 un sanguinoso rovescio militare nei campi fra Palermo e Monreale. Nello scontro trovò la morte anche un condottiero saraceno di nome Magded, primo di una serie di aristocratici campioni della resistenza islamica.
Dopo la sconfitta militare della coalizione, la diplomazia papale ebbe la possibilità di tentare una delicatissima operazione volta ad ottenere quanto meno la neutralità dei musulmani. Con questo scopo, nel settembre del 1206, Innocenzo III indirizzava una missiva ai capi e a tutti i saraceni di Sicilia, invitandoli a mantenere la fedeltà al loro signore, il giovane re di Sicilia Federico. Il papa trattava quindi per "via gerarchica" con i musulmani di Sicilia, costretto a considerarli un soggetto politico organizzato.
Questo documento è inoltre importante perché nomina esplicitamente alcune delle località tenute dai musulmani, fino ad allora vagamente indicate dalle fonti come «castelli dei saraceni» o semplicemente «montagne». Oltre Jato ed Entella, due siti di recente resi celebri da importanti scoperte archeologiche, l'epistola di Innocenzo ricorda infatti anche le località di Platani e Gelso. Altri documenti latini degli stessi anni permettono di aggiungere alla lista Calatrasi, Corleone e Guastanella, nell'agrigentino. Una fonte araba ricorda inoltre, qualche anno dopo, Cinisi ed un luogo non facilmente identificabile, Gallo.
Già i soli toponimi immediatamente localizzabili sono sufficienti a delimitare esattamente l'area occupata dai rivoltosi. Essa comprendeva, oltre alle terre dell'arcivescovado di Monreale, dalle porte di Palermo al bacino del Belice, anche il retroterra agrigentino, spingendosi inoltre almeno fino alla zona di Segesta. Si trattava, in pratica, di quasi tutta la Sicilia occidentale oggi compresa nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento.
Rimanevano escluse alcune fasce costiere con i porti principali e i distretti intorno ai pochi castelli latinizzati precocemente a partire già dall'XI secolo come Vicari, Prizzi, Castronovo, Cammarata.
Lo stesso ambiente naturale, irto di montagne, esaltava le aspirazioni di riscossa. La minorità e la lunga assenza del re cristiano, dal 1212 impegnato in Germania, dilatarono a dismisura le possibilità dei ribelli.
Negli anni della reggenza di Costanza d'Aragona l'intraprendenza e l'arroganza degli antichi villani dilagò in tutta la Sicilia occidentale. Palermo venne direttamente attaccata, forse nel 1216. La cattedrale di Monreale subì più volte molestie. Il vescovo di Agrigento Urso venne catturato, rinchiuso per più di un anno nel castello di Guastanella e liberato solo dopo il versamento di un forte riscatto. Nel frattempo i musulmani spadroneggiavano in città e nella diocesi, saccheggiando il tesoro della chiesa agrigentina, occupando la stessa cattedrale, vietando la celebrazione dei battesimi ed impedendo ai cristiani di recarsi al lavoro in campagna. La rivolta divenne contrapposizione totale al regno latino e si trasformò in creazione statale, in una estrema riesumazione dell'emirato siciliano. Un Muhammad ibn Abbad - Mirabettus nelle fonti latine - divenne capo riconosciuto di tutti i musulmani dell'isola ed assunse il titolo di tradizione almoravide di amir al muslimin,"principe dei credenti". L'emiro batté una propria moneta d'argento, mentre le emissioni di Enrico VI e Federico II venivano sfregiate con punzonature.
Le fonti a nostra disposizione permettono di escludere completamente che Muhammad ibn Abbad fosse un avventuriero o un condottiero "spontaneo". Il suo potere era considerato dai saraceni di Sicilia del tutto legittimo e derivava, oltre che dalle sue nobili origini, dall'aver egli sposato la figlia di Ibn Fakhir, precedente capo della comunità islamica.
È stata chiarita in più occasioni la portata politica tanto dell'intitolatura assunta da Muhammad ibn Abbad che delle sue emissioni monetali e non è quindi il caso di insistere ulteriormente su questo punto. Di enorme interesse sarebbe invece, ma è purtroppo impresa quasi impossibile in partenza, analizzare nel dettaglio le speranze ed i progetti sottesi a queste autoaffermazioni ed autolegittimazioni di potere. Concepirono i musulmani di Sicilia, anche nei momenti a loro più favorevoli, un programma che potesse andare oltre la semplice resistenza ad oltranza all'interno del loro territorio? Le poche notizie circa i contatti fra i musulmani di Sicilia ed il mondo islamico-mediterraneo depongono a favore di una notevole valenza "politica" e religiosa della ribellione. Ed ancora, se è indubbia una certa storia da parte dei ribelli saraceni del XIII secolo, quale ne era con esattezza il suo livello? Quanto si era conservato verso il 1220, nella memoria popolare e nella coscienza dei saraceni siciliani più colti, il ricordo della Siqilliya pienamente islamica?
Sono brandelli di una ipotetica «visione dei vinti» che resterà assai difficile scrivere.
Federico II: una reconquista "sterminatrice"
Prima di partire per la Germania, Federico aveva cercato di tamponare la rivolta saracena con disposizioni che dimostrano ulteriormente la gravità della situazione. L'arcivescovo di Monreale Caro era stato autorizzato a far prendere, ovunque fossero, i villani di Jato e di Celso che rifiutavano ormai apertamente la loro dipendenza dalla chiesa. Per la difesa militare della cattedrale di Monreale il re di Sicilia aveva fin dal 1211 ingiunto a quanti possedevano poderi e vigneti in quel territorio, di fissare a Monreale la propria residenza. L'ordine era stato reso più incisivo con la minaccia di confisca ed incameramento a favore dell'arcivescovado dei beni degli inosservanti.
Da questo punto Federico, ora anche imperatore, riprese le fila del problema saraceno appena rientrato nel regnum.Nel luglio 1220 ordinava che tutte le terre, i villani e i diritti dell'arcivescovado di Monreale venissero restituiti. Il sovrano reiterava l'ordine nel marzo 1221 da Brindisi, sottolineando il potere attribuito a Caro di impadronirsi di tutti i villani sottrattisi alla giurisdizione della Chiesa. Alla arcidiocesi di Monreale erano inoltre confermate tutte le «buone usanze» e le «consuetudini» vigenti al tempo di Guglielmo II.Con dei semplicissimi documenti Federico II ristabiliva sulla carta lo status quo ante.In altre parole resuscitava nei termini più duri e categorici la formula della convivenza ineguale, confermando inoltre il ruolo e la potenza dell'arcivescovado di Monreale nei termini in cui erano stati concepiti da Guglielmo II. La completa resa dei saraceni ed il loro reinserimento nell'antico sistema socio-economico erano, d'altra parte, obiettivi che Federico riteneva necessari per conservare il favore di quegli enti ecclesiastici, senza il cui appoggio non sarebbe stato possibile avviare la lotta contro il baronaggio recalcitrante del mezzogiorno continentale.
È chiaro che Federico non riconobbe mai, fin dall'inizio, ai suoi nemici musulmani altra qualifica se non quella di villani ribelli all'ordine di recente ristabilito. Non per questo sarebbe però corretto definire la grande insurrezione saracena come una "guerra servile" a sfondo prettamente sociale. Nel momento culminante, quando l'imperatore scese personalmente in Sicilia a dirigere la lotta contro Muhammad ibn Abbad, si trattò di uno scontro totale - religioso, culturale, politico - fra due poteri che, almeno in teoria, avevano entrambi titoli per definirsi legittimi. Giova ripeterlo: Muhammad ibn Abbad non fu un capopopolo o peggio un capo brigante. Era, per i suoi seguaci, il "principe dei credenti", la guida riconosciuta di quanti, respingendo ormai totalmente il potere del re cristiano erede degli Altavilla, rifiutavano in fondo la storia.
La contrapposizione non avrebbe potuto essere più netta ed insanabile. I musulmani si prepararono allo scontro ed alla resistenza ad oltranza, trincerandosi nelle loro roccaforti. Contro un territorio topograficamente difficile ed irto di fortezze scese in campo Federico II fin dall'estate 1221. Tempi, luoghi e particolari della repressione sono noti solo attraverso una documentazione poco consistente, sicuramente non adeguata alla gravità dei fatti.
Le operazioni del 1221, in particolare, rimangono poco chiare. Fra maggio ed i primi di luglio l'imperatore si mosse fra Messina e Catania. A luglio lo troviamo a Caltagirone e Palermo, quindi, in agosto, a Piazza Armerina. Il 25 settembre è presso Trapani e, a novembre, ad Agrigento. Sembra quasi che Federico abbia compiuto una ricognizione generale intorno al terreno dello scontro, prima di sferrare l'attacco in grande stile.
L'offensiva militare è in pieno svolgimento nell'estate successiva (1222). Da giugno ad agosto l'imperatore è personalmente al campo di fronte Jato, con un esercito che una fonte araba stima in 2.000 cavalieri e 60.000 fanti. Le cifre sono certamente esagerate ma rendono bene l'idea dello sforzo militare in atto. Non di operazione di polizia si trattò, ma di attacco in grande stile contro una non trascurabile potenza nemica o, secondo i punti di vista, ribelle. Non è azzardato parlare di questi fatti come di una vera e propria reconquista dell'interno della Sicilia occidentale.
È probabile che, insieme alle manifestazioni di potenza militare, Federico abbia avviato tentativi per intavolare trattative. Le diverse versioni dei fatti tramandate dalle fonti non permettono però di accertare con sicurezza in che maniera l'imperatore riuscisse alla fine ad avere nelle sue mani l'amir ribelle. Neanche sulle circostanze della morte di Muhammad ibn Abbad le fonti danno una versione unica. Secondo una fonte araba, l'emiro sarebbe stato annegato in mare dopo che Federico infranse la promessa di farlo portare sano e salvo in Africa. Altre fonti parlano invece di un'esecuzione capitale in piena regola.
La morte di Muhammad ibn Abbad non significò in ogni caso la fine della rivolta. Nel settembre del 1222 troviamo Federico a Calatrasi e nell'agosto del 1223 l'imperatore è di nuovo all'assedio di Jato. Evidentemente la fortezza non era capitolata nonostante la cattura e la morte di Muhammed ibn Abbad o era stata persa e quindi rioccupata dai saraceni.
Nessuna fonte cristiana parla per questa fase dello scontro di operazioni anche contro Entella. Sull'assedio di quest'ultima fortezza si dilunga però, con particolari romanzeschi o romanzati, lo scrittore arabo del XIV secolo al-Himyari. Una figlia di Muhammad ibn Abbad sarebbe rimasta asserragliata ad Entella, continuando la resistenza anche dopo l'uccisione del padre. Sembra frutto di elaborazione letteraria il racconto delle profferte amorose che Federico II avrebbe fatto a questa energica donzella, ammirato dall'astuzia con cui essa aveva parato i suoi attacchi. E un brano di letteratura, che esprime però come meglio non si potrebbe la situazione disperata degli ultimi saraceni di Sicilia, è la risposta che la donna avrebbe inviata a Federico:
«C'è...da stupirsi del rapporto fra me e te: io sono come una donna senza figli, ristretta su un colle di terra, priva di qualsiasi soccorso, mentre tu sei re d'un territorio che ci vuole mezzo mese a percorrere, hai eserciti di cui è piena la terra, tesori, denari, fidi consiglieri. Questo tuo soffermarti ad assediarmi ti ha preso e distratto dai tuoi più alti affari politici. Io ti ho arrecato maggiori danni di quanti tu ne hai arrecato a me, ti ho inflitto perdite maggiori di quante tu a me...Ora non dispero di averti un giorno nelle mie mani, sinché mi resta fiato in corpo. Ti combatterò e ti tenderò insidie sino alla consumazione di ogni provvista in questa rocca, e sino a che i miei difensori non ce la facciano più».
Secondo il racconto di al-Himyari, veritiero o romanzesco che sia, una dose letale di veleno avrebbe posto fine volontariamente alla vita della figlia di Muhammad ibn Abbad.
Indeboliti da tre o quattro anni di guerra e dalla perdita del capo carismatico, i saraceni di Sicilia fin dall'inverno 1224 inviarono dei rappresentanti per trattare la sottomissione. Nel luglio 1224 Federico era però, per il terzo anno consecutivo, all'assedio di Jato. Nello stesso anno, parte almeno della popolazione musulmana di Malta veniva espulsa e rimpiazzata con abitanti di Celano spediti all'esilio. La flotta imperiale effettuava intanto un vittorioso raid su Gerba da cui potevano giungere aiuti ai saraceni di Sicilia.
Un grande sforzo bellico venne infine realizzato nel 1225, quando Federico chiamò al servizio militare tutti i feudatari del regno. Le notizie provenienti dalla Sicilia non mancarono di esser registrate da cronisti di varie parti d'Europa e queste testimonianze permettono di fissare nel 1225 un netto successo dell'imperatore. I saraceni sottomessi, in parte vennero trasferiti a Lucera dove formarono il nucleo originario della celebre colonia militare; in parte tornarono ai casali.
Nel 1225 si concludeva quindi la prima fase dello scontro con la distruzione dell'emirato riesumato da Muhammad ibn Abbad. L'imperatore aveva inizialmente sviluppato la sua azione mirando ad un ristabilimento delle buone usanze del tempo di Guglielmo II, cercando cioè di far tornare i saraceni alla condizione villanale ed ai vincoli di residenza sulla terra. La gravità del problema aveva però reso obbligatorio quasi subito un drastico cambio di strategia: l'obiettivo divenne dichiaratamente exterminare de insula i saraceni. E nulla toglie alla drammaticità della decisione il fatto che exterminare possa avere il significato tecnico-giuridico di allontanare dai confini (termini),deportare, piuttosto che quello che ora si attribuisca al verbo.
Non sarà mai possibile dire quanti musulmani siano potuti tornare dopo la fine delle ostilità alle antiche residenze, quanti siano state le vittime della guerra, quanti dei casali esistenti nell'arcidiocesi di Monreale verso il 1180 sopravvissero ancora nel 1225. In ogni caso, il ritorno al passato, alle usanze del tempo di Guglielmo II, si era dimostrato semplicemente impossibile. L'annullamento completo e definitivo della minoranza musulmana, ormai realmente sparuta sul piano numerico, era quindi solo questione di tempo.
L'ultima rivolta e la fine
Sembra che alcuni anni dopo, nel 1229-30, le fortezze di Jato, Entella, Cinisi, Gallo ed alcune altre fossero ancora teatro di rivolta. Non abbiamo però particolari su questa sollevazione. Intorno al 1239 la residua popolazione saracena di Sicilia era di nuovo in subbuglio. I pastori che avevano preso in gabella le greggi della corte, non potendo pagare quanto pattuito, erano minacciati di lavori forzati nei castelli di Lentini e Siracusa. Altri saraceni dei casali trasferitisi a Palermo non manifestavano alcuna volontà di stabilirvisi. Federico si sforzava di convincerli promettendo loro favorem et gratiam.Alcuni saraceni di Lucera cercavano poi l'occasione propizia per lasciare la nuova residenza e tornare in Sicilia. Federico emanò così un nuovo ordine di concentrazione nella cittadina pugliese.
Erano le ultime manifestazioni disperate di insofferenza, sfociate nel 1243 in rivolta aperta. La nuova sollevazione si svolse secondo un copione ormai ricorrente: fuga dai casali ed asserragliamento ad Jato ed Entella. L'insurrezione saracena coincise con il momento più drammatico dello scontro fra Federico ed il papato di cui i musulmani divennero obiettivamente alleati.
Per quel poco che le fonti permettono di sapere e soprattutto per quello che esse non dicono, quest'ultima sollevazione sembrerebbe esser stata un gesto totalmente disperato, privo della consapevolezza e della valenza politica che aveva animato la resistenza di Muhammad ibn Abbad. La documentazione non ha tramandato il nome di nessun condottiero legittimato e carismatico. Soprattutto, però, è fortissima la tentazione di vedere dietro i fatti un diretto e decisivo intervento esterno. Senza questo sembra difficile che gli sparuti gruppi superstiti di saraceni abbiano avviato un nuovo moto di resistenza totalmente privo di qualsiasi sbocco.
Questi disperati, in ogni caso, riuscirono a distrarre e tenere impegnate forze imperiali non indifferenti. Nel 1245 Federico spedì contro i ribelli il conte di Caserta che mise il blocco a Jato costruendo contro la fortezza un castello d'assedio. Nell'estate 1246 l'imperatore inviò un ultimatum ai guerriglieri non escludendo di trattare con una certa indulgenza quanti si fossero immediatamente sottomessi. Nel luglio Federico poteva comunicare al primogenito del re di Castiglia l'avvenuta resa e la discesa dei saraceni dai castelli montani. L'imperatore peccò allora di presunzione o vi fu forse un estremo episodio di resistenza. Nel novembre 1246 egli scrisse però ad Ezzelino da Romano annunziandogli trionfalmente che anche gli ultimi ribelli erano finalmente discesi al piano. Jato ed Entella vennero definitivamente abbandonate, come mostrano drammaticamente gli scavi. Gli ultimi esponenti della resistenza musulmana furono in gran parte spediti anch'essi a Lucera. Quanti poterono restare in Sicilia si nascosero fra le pieghe di un tessuto demografico sempre più compattamente latino e cattolico, venendo presto totalmente assimilati. Era la fine, questa volta per sempre.
La scarna narrazione degli eventi che portarono sotto Federico II alla completa distruzione dei saraceni di Sicilia sembrerebbe in qualche modo cozzare con la realtà e con l'immagine di un imperatore "amico" dei musulmani ed appassionato ammiratore della tradizione culturale arabo-islamica. I due aspetti - agire politico-militare e tensione intellettuale - vanno in realtà tenuti disgiunti. Federico fu sì attratto dalla cultura e dalla scienza arabo-islamica, intrattenendo anche rapporti personali con dotti musulmani. Questo però non influì minimamente nella sfera della sua azione di governo, volta in primo luogo ad imporre a tutti i sudditi il potere della corona e l'ordine imperiale. In quest'ottica, gli ultimi saraceni di Sicilia erano per Federico semplicemente dei ribelli che dovevano essere schiacciati ed annientati. E lo furono, implacabilmente.
Le conseguenze delle guerre "sterminatrici" di Federico II furono di enorme portata: spinta decisiva all'unificazione linguistica, religiosa, culturale della Sicilia in senso cristiano, latino, "occidentale"; crisi e fine di un modello di sfruttamento del suolo e di insediamento, avanzata della cerealicoltura estensiva e del pascolo, decadenza e tramonto di colture specializzate, quindi trionfo del latifondo classico siciliano.
La fine dell'emirato ribelle chiude inoltre in Sicilia l'età della frontiera ed elimina fisicamente le frontiere interne, salvo un loro effimero ritorno nelle guerre baronali del '300. Val la pena di riflettere un attimo su questo dato. Per più di quattro secoli, dall'827 al 1246, la Sicilia vede passare al suo interno la frastagliata e tutt'altro che intransitabile frontiera mediterranea. È una frontiera militare prima, esclusivamente culturale dopo la conquista normanna e di nuovo militare in occasione dell'ultima resistenza musulmana.
A partire dal 1250, le frontiere siciliane corrisponderanno ai limiti geografici dell'isola, alle coste degli sbarchi angioini e delle scorrerie barbaresche che dalla fine del '300 e per lunghi secoli trasformeranno le spiagge siciliane nella pericolosa fruntera di li mori.
È quindi una Sicilia "chiusa" quella che nel corso del XIII secolo entra definitivamente nell'Europa "chiusa". Ed è una Sicilia il cui sorgere con caratteri nuovi ed originali era dovuto necessariamente passare attraverso la fine della Siqilliya islamica.
Epilogo
«Tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d'arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d'imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che così rimane condizionato da fatalità esteriori, oltre che da una terrificante insularità d'animo».
La spietata diagnosi del Principe di Salina pervade una percezione corrente e diffusa - anche fra il pubblico colto dei non specialisti - della storia siciliana. Quella che vede contrapposto ad un "noi" immutabile e quasi metastorico la successione degli "altri" venuti «da chissà dove» ed impadronitisi dell'isola fino alla successiva invasione, al successivo cambio di dominio. Di fronte alla storia degli "altri" padroni dell'isola, la storia di "noi" è quella di una radicale negazione, di una chiusura ermeticamente orgogliosa, sterile, disperata.
In questa visione - ci si continua a riferire, ovviamente, ai non specialisti di storia - bizantini, arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi vengono appiattiti e ridotti tutti al ruolo dell"'altro" di turno. Non tenendo presenti le enormi differenze fra i caratteri delle presenze e delle dominazioni. Espressioni come "Sicilia sveva", "Sicilia angioina" o "Sicilia catalano-aragonese" hanno senso solo - o almeno principalmente - con riferimento alle vicende politiche. Nessuno, tranne i membri delle élites politiche burocratiche militari ed i loro seguaci, ha parlato in Sicilia tedesco, catalano o provenzale. La maggioranza della popolazione dell'isola ha però, fra X ed XI secolo, parlato, pensato, agito in arabo e pregato Allah. La presenza arabo-islamica sull'isola non è stata una "dominazione" o non è stata soltanto dominazione.
La dominazione vi fu ma non venne esercitata sui siciliani. Al momento dell'invasione islamica i siciliani, infatti, non esistevano ancora. Esisteva una popolazione indigena formatasi in seguito ad apporti diversi ed in ultimo acculturata in senso greco-bizantino. Su questa popolazione cristiana si espresse la dominazione musulmana fin quando, con l'eccezione del Val Demone, la Sicilia non divenne una terra prevalentemente araba ed islamica. A quel punto non di dominazione araba sulla Sicilia, non di musulmani in Sicilia ma di Sicilia islamica e di "Musulmani di Sicilia", sulla scorta di Michele Amari, si deve parlare. L'isola divenne in buona parte una terra islamica, un pezzo del dar al-Islam."Siciliano", siqilli,è nel X ed XI secolo il musulmano nato o vissuto nell'isola.
I siciliani non esistevano neanche quando l'isola venne invasa dai normanni, avanguardia militare di una più vasta immigrazione neolatino-cristiana giunta soprattutto dall'Italia. Esistevano abitanti di lingua araba e religione musulmana, alcuni in Sicilia da generazioni, altri di recente o recentissima immigrazione. Ed esistevano abitanti di religione cristiana, sottomessi alla società arabo-islamica. "Siciliani", sicilienses o siculi,sono detti dalle cronache della conquista gli abitanti musulmani dell'isola. Semplicemente "cristiani" o "greci" gli altri.
Anche in questo caso, la dominazione "altra" riguardò questi "siciliani". Ed anche in questo caso la dominazione divenne cambiamento profondo e radicale. La Sicilia araba e musulmana divenne latina e cristiana attraverso un processo di acculturazione che alternò la convinzione ed il contatto quotidiano alla violenza e che comunque nella violenza si concluse.
La storia della Sicilia nei secoli centrali del nostro atipico medioevo conosce allora due grandiosi movimenti di acculturazione, avvenuti sull'onda di processi storici che coinvolsero tutta l'area mediterranea. La Sicilia islamica fu un tardo prodotto dell'espansionismo islamico iniziato già alla morte di Maometto. La occidentalizzazione della Sicilia aperta dalla conquista normanna fu un episodio importante di quel generale "risveglio dell'Europa" che si fa simbolicamente iniziare con l'anno 1000.
Nel generale ripiegamento, l'Islam cedette provvisoriamente la Terra Santa e definitivamente le terre più periferiche raggiunte dalla sua espansione: Spagna e Sicilia. Anche se meno profonda che nella penisola iberica, l'eredità araba nell'isola non andò immediatamente persa. Fino all'espulsione, gli ebrei siciliani manterranno, tranne ovviamente che nella religione, moltissimi tratti culturali arabi; la lingua, in primo luogo. L'influsso arabo, inoltre, si conserverà forte per tutto il medioevo ed anche oltre in molti aspetti della vita di quel popolo siciliano nato fra XII e XIII secolo: dal vestiario, alla cucina, alle tecniche ed al gergo dell'edilizia, all'arte ed all'artigianato, alla toponomastica non più compresa, ad altri aspetti della cultura materiale. Terre di confine per eccellenza, Pantelleria, Malta e Gozo manterranno ancora più a lungo il loro legame con il mondo arabo e islamico, con il loro passato. A Pantelleria, ancora nel tardo medioevo, la popolazione contadina rimaneva saracena. Nell'arcipelago maltese la lingua locale, fino ai nostri giorni, rimase un'evoluzione dall'arabo-maghribino, anche se oggi scritta in caratteri latini.
Il retaggio era però destinato a sbiadire sempre più e, naturalmente, a perdere coscienza delle sue origini. Nelle tradizioni popolari siciliane i saraceni diverranno gli "altri" per eccellenza: una genia strana ed incomprensibile, relegata in un passato metastorico oltre il quale l'isola non era popolata se non dai ciclopi; una stirpe bizzarra, abitatrice di grotte e montagne inaccessibili, alleata del diavolo nel custodire tesori incantati. E questo fino alla lenta riscoperta della Sicilia islamica avviata dall'"arabica impostura" dell'abate Vella.
Entella, rovine del Castello